lunedì 29 dicembre 2014

Che in questo 2015 possiate ...

Se dovessi dare un nome alla scelta che fra tutte è stata la più difficile nella mia vita, direi che sia stato proprio quel momento in cui ho capito che non avrei mai più potuto fare a meno di scrivere.
Paradossalmente, ammettere a me stessa che da grande avrei voluto seguire questa strada e che la mia mente non concepiva un’altra via possibile a questa, è stato più duro di spogliarsi di anni di studi per pulire stoviglie e servire clienti maleducati.
A volte lo diventa, quando un impulso naturale nei confronti di qualcosa diventa al tempo stesso desiderio e peccato.
Non ne conosco il motivo. Forse per questa mia innata mania di erigere a debolezze i miei punti di forza. Forse sì, è questa paura di mostrarsi al mondo. A me questo un tempo mi avrebbe fatto più paura di ritrovarmi nel buio di una foresta inseguita da un branco di leoni.

Non so poi cos’è successo. Forse ho semplicemente capito che il torto più cruento che possiamo infliggerci è quell'insana convinzione di non meritare la felicità. Forse, ho semplicemente capito che non potevo avere paura per sempre, rischiando che la vita mi passasse davanti non riuscendo mai ad acchiapparla per la gola e decidere da sola dove andare.

Ogni tanto penso a quel momento, a quell'attimo di vita così vera ed intensa che mi ha fatto diventare grande due volte: come donna e come essere umano. Come donna che non teme le sue paure, come essere umano che trova il coraggio per affrontarle. Ci ripenso, ogni tanto, quando mi trovo davanti a scelte infelici, a fili di lana raggomitolati in attesa di essere sciolti, quando faccio il contrario di ciò che dico, e dico il contrario di ciò che penso. Quando avverto di essere tornata indietro nel tempo, comportandomi né come donna, né come essere umano, perché la verità è che non si finisce mai con l'avere paura, né si ha mai abbastanza coraggio per affrontare le proprie ossessioni.

Ed è questo che vi auguro per il nuovo anno: di essere più donne o più uomini, ma al di sopra di ogni cosa, più vicini all'essere umano.

Non innamoratevi delle persone. Innamoratevi delle vostre idee. E' l'unico modo per restare eterni e sentirvi infiniti anche quando la terra sotto i piedi vi sembra tremi e non ci sia appiglio alcuno ove potervi reggere. Le persone finiscono. Con l'amarvi, il desiderarvi, il volervi al loro fianco. Fingono, vi deludono, o vi rigettano. Le idee non lo fanno mai. Saranno le uniche in grado di portarvi in alto, senza aver bisogno di nessuna approvazione, se non della vostra mente che pianifica, del vostro cuore che le faccia diventare sempre più grandi.

Non fate diventare sassi pietre preziose, né gioielli scomodi sassolini infilatisi in una delle vostre scarpe. Sappiate misurare con sapienza ciò che vale ed individuare con audacia le scorie.

Se quello che state aspettando tarda ad arrivare, andatevelo a prendere. Sì, aprite la porta e smettete di aspettare. E se il vostro tentativo si rivelerà insignificante, optate per strade alternative, mai la stessa da cui siete partiti.

Non aspettate che qualcuno dica o faccia esattamente ciò che avreste voluto sentire o vedere. Questo succede solo nei film dal finale strappalacrime, dove loro due si rendono conto di aver avuto sempre gli stessi pensieri, cominciando a dar peso ai dettagli, a valorizzare ogni coincidenza che li abbia condotti a viaggiare sullo stesso binario. Ma questo non è un film, ma la vita vera. Ed in questa vita le persone hanno paura di mostrarsi fragili, di dire la verità, di guardarsi negli occhi. Ed hanno pregiudizi e si inventano storie. Tu non aspettare che facciano esattamente ciò che pensi, dovesse anche essere il tuo primo pensiero appena sveglia e l'ultimo prima di porre la testa sul cuscino. Fai un respiro profondo e pensa a cosa vorresti sentirti dire, senza girarci troppo intorno. Fai un altro respiro e parla tu. Dillo tu. Perché altrimenti non ci sarà mai modo di uscirne. E se anche di fronte le tue mezze verità il finale non accenna a cambiare, mastica tutto ed ingoialo. Non sentirti stupida, né impotente, né piccola. Sentiti solo più forte, più grande, più bella. Perché lo sarai.

Impara a piangere e a ridere più forte che puoi, ad eccedere sempre nelle tue emozioni, non privartene, mai. Non convincerti di star male, né di essere felice. Regala uno spazio anche ai tuoi stati d'animo attuali senza troppe finzioni: è l'unico modo per entrare a contatto con la propria anima e porre se stessi sul piedistallo, come priorità imprescindibile.

Apri la porta di casa e scopri il mondo. Tuffati nel mare della vita come fossi piombo, pronto a immergerti e a catapultarti nella profondità del suo fondale. Impara a risalire come fossi olio, ponendoti al di sopra della superficie dell'acqua marina, dissipandoti come tante goccioline che trovano spazio qualsiasi sia la grandezza.

Amati, come fossi quell'uomo o quella donna che da sempre attendi ti bussi alla porta per chiederti di entrare. Anzi di più. Come fossi la proiezione di quella parte di te che chiede ascolto, che implora carezze, quella che chiede di essere presa per mano ed andare. Ascoltati, accarezzati, vai, da sola. Quella con noi stessi è l'unica storia d'amore che dura in eterno, degna di essere vissuta sino allo sfinimento del cuore.

Amate non chi vi ama, ma chi mentre vi guarda vi spoglia di ogni incertezza, solo chi alla fine vi aspetta ed intanto resta.

Trova la pace. Non significa porsi a distanza d'emergenza, fare tanti chilometri, abbandonare tutto, cambiare posti. Significa distanziarsi dal sentimento di paura e di insoddisfazione, lasciar scorrere ciò che ci fa essere dannati ed inquieti, cambiare il nostro approccio nei confronti delle cose, delle persone, della vita intera.

Praticate le buone maniere senza mai dimenticare di adottare gesti di smisurata gentilezza innanzitutto verso voi stessi. Siate gentili, con il vostro corpo, il vostro spirito, la vostra mente, ed anche con il vostro cuore. Prendetevene cura, portando avanti i vostri obiettivi qualsiasi sia il sacrificio cui sottostare, qualunque l'entità del prezzo da pagare. Assecondando il cuore ovunque scelga di andare, anche quando sceglierà strade impervie e dal selciato sterrato.

Non raccontatevi scuse per giustificare le vostre non-azioni. Non credete alle scuse che vi raccontano per giustificare chi resta inerme. Chi vuole qualcosa ad un certo punto scoppia e deve uscire per andarselo a prendere. Non sarà mai troppo tardi, né il momento sbagliato. Ci sarà una voglia che supera ogni montagna di scuse, ogni muro di parole eretto per tenersi in equilibrio. Ma ad un certo punto si cade, su un tappeto di gomma su cui vi si affonda o vi si rimbalza. Non ve le raccontate, né credeteci voi che ascoltate. Quella è un'altra vita, in cui implicitamente vi viene chiesto di starne fuori. Uscite, a testa alta, chiudendo il sipario, tra gli applausi di chi vi ha riconosciuto un certo valore.

E non credete nemmeno a chi vi dice che quello che state progettando sia impossibile. Basta crederci con estrema convinzione, a volte aspettare il proprio turno con indicibile pazienza. Il tempo e la vita vi ricompenseranno.

Non abbiate paura di lasciare, perché é vero ciò che si dice in giro, che quello che conta non ci lascia mai. Rimarrà con noi, sempre, in questa vita ed anche in quella successiva.

Sbagliate. E non per raccontarvi la storia del chi sbaglia impara. Imparerete, forse, o molto probabilmente no. Sbagliate perchè alla fine della vostra vita i vostri errori vi si appiccicheranno addosso, come cicatrici irremovibili. Più ne avrete, più avrete vissuto. E più avrete vissuto, meno rimpiangerete.

Abbiate il coraggio di vivere la vostra vita, non quella di qualcun' altro, né quella di chi pretende di decidere per voi. La vostra, in cui tutto sarà dettato dal vostro cuore, a partire dal dove per finire al con chi, senza pregiudizi, né rimpianti o paure, ma solo con quella voglia matta di vivere, vivere ancora.

Che nel nuovo anno possiate essere donne o uomini, ma al di sopra di ogni cosa, più esseri umani.

Non é mai troppo tardi o troppo presto, non si é mai troppo giovani o troppo vecchi per cominciare.

lunedì 8 dicembre 2014

Vieni via con me

Ogni tanto mi capita, quelle tre, quattro volte l'anno, di pensare a quello che ero appena un anno fa. Questa volta ho dato la colpa alle luci natalizie, all'aria sempre più fredda, ai colori, il verde ed il rosso, che predominano nelle vetrine dei negozi su cui è quasi impossibile non farci cascare lo sguardo.
Forse perché è Dicembre e pensavo a quello dello scorso anno, quando ad un certo punto mi è arrivato un messaggio che ha cambiato la mia vita: "Il tuo libro è stato pubblicato ed è in vendita."

Non sono diventata una scrittrice, né ricca. Sono semplicemente diventata più consapevole, ho semplicemente posto una linea di demarcazione fra ciò che ero e ciò che volevo invece essere sin da quel momento. Ho semplicemente imparato a non avere paura, delle scelte, delle mie emozioni. 

E pensavo a quel febbraio, quando decisi di scrivere, tutto d'un fiato, tra le pareti della mia stanza. Perché mentre ero intenta a porre fine ad un importante capitolo della mia vita, intanto ne stavo scrivendo un altro, senza nemmeno accorgermene. Perché le cose belle, quelle che hanno come iniziale la A di amore, intrise di una disarmante passione, quelle che la tua mente sarebbe capace di riprodurre per ore disegnandovi persino i contorni, sono esattamente così.

Quel mattino di febbraio non mi sono svegliata con l'intenzione di scrivere un romanzo. Quel mattino volevo semplicemente scrivere. E non mi sono imposta di farmi salire nessuna ispirazione, è lei che mi cercata, mi ha trovata, ed alla fine mi ha presa. Mi ha detto: "Tu vieni con me, lascia tutto ciò che stai facendo, non ti dannare. Vieni con me e lascia che ti porti su strade mai calpestate per farti vivere la storia d'amore più bella mai creata, ignara persino alla tua più fervida delle immaginazioni."
Ci siamo scelte, a vicenda. E l'abbiamo fatto ancor prima di capire come sarebbe andata a finire, ancor prima di scriverne un inizio.
E non ho delineato alcuna trama. Come nella vita di tutti i giorni, è stata lei a prendere forma con il susseguirsi delle circostanze. Ed ogni tanto cambiava, ed io l'assecondavo. Non ho nemmeno scelto i miei personaggi. Sono stati loro ad imporsi, quasi con prepotenza, come se chiedessero che io li ascoltassi. Ed alla fine l'ho fatto, ed era come se vivessi insieme a loro quelle vicende, perché, in realtà, quelle persone erano vere. Le avevo incontrate, in una vita passata, nemmeno troppo lontana.



Sono di botto ricascata in quella mia innata mania: ordinare i pensieri attraverso la scrittura, dare loro il posto che meritavano perché noi siamo soprattutto i nostri pensieri. Non volevo lasciare che nascessero e morissero soli, volevo dar loro una vita degna di essere vissuta. Ed alla fine ce l'ho fatta e non ho avuto paura di lasciare che altri li condivissero. Ed è questa, forse, una delle manifestazioni più forti di me stessa mai sperimentate. Quelle da dare a noi stessi, anche quelle tre, quattro volte l'anno, come possibilità per crescere e scoprire quello che siamo, al di là dei consensi, al di là di ciò che altri possano o meno pensare.

E pensavo quanto, in fondo, questa piccola opera, sia semplicemente una metafora di quello che vorrei fosse la mia vita, quanto questo sia in fondo il messaggio latente di quelle duecento pagine scritte. 

Tu un mattino ti svegli, l'aria è così fredda che nemmeno un cappuccino bollente sarà in grado di riscaldarti. Non hai intenzione di ordinare pensieri, né di intraprendere imprese che rendano il tuo ego più forte. Hai solo voglia di fare qualcosa che renda le tue giornate più dolci, quelle priorità di cui non dovremmo mai dimenticarci: emozionarci. E non ti imponi di farlo, né con chi. Lui o lei ti prende, come pagine di un romanzo di cui non riesci ad interromperne la lettura, perché è a tratti indecifrabile, ma c'è una forza che ti spinge a voltare pagina, ogni volta, per capire cosa succederà dopo. Non lo cerchi, non te lo imponi, a volte pensi che nemmeno in fondo lo vuoi. Ma lui o lei lo fa per te e non ti lascia modalità di scelta. Ti cerca, ti trova e alla fine ti prende. Ti dice: "Vieni con me, adesso". E tu dimentichi tutto il resto, o semplicemente, decidi che è ora di fare ordine nelle tue priorità e poni te in cima alla lista. Vi scegliete, l'un l'altro, senza necessariamente pianificare il tragitto, ancor prima di cominciare a calpestarlo. Non sarai più costretto ad immaginare, ma scriverai quella vita, quella che esattamente vuoi. Non pianificherai il come, né il quando, né il perché inizierà. Come nella vita di tutti i giorni, prenderà forma man mano dentro di te sino ad esplodere fuori. E cambierà, tante volte, e tu l'asseconderai. E vivrai, così, come una rondine che migra verso posti caldi, non perché tema il gelido freddo invernale, ma lo soffre, come la più angusta delle privazioni.

E' così che tutto dovrebbe essere: semplice ed irriverente.

Forse dobbiamo solo aspettare che il coraggio ci prenda e ci dica di seguirlo. 
Forse dobbiamo solo imparare a non avere paura.
A dare ai nostri pensieri una vita degna di essere vissuta, forse.
Ad imparare a dire o anche ad urlare per farci sentire: "vieni via con me, per favore."

E' l'emozione più bella che un essere umano possa provare sulla sua pelle.

Io sto aspettando di riprovarla, ancora.

lunedì 10 novembre 2014

Amore sui binari.

La sveglia è suonata molto presto. Ho preparato velocemente un caffè, chiuso la porta di casa per percorrere il solito tragitto, accompagnata da un pizzico di ansia per ogni scalino che scendevo.


Sono arrivata alla stazione più tardi del previsto, ma sono stata abbastanza fortunata nel trovare un posto a sedere proprio accanto al finestrino. E proprio mentre ero intenta nell'osservare i cambiamenti del paesaggio attraverso i vetri, salgono sul vagone un uomo ed una donna, prendendo posto proprio accanto a me.

Lui la guardava come fosse un'oasi nel bel mezzo di un deserto. Non le staccava gli occhi di dosso, con quel suo sguardo denso di tenerezza e passione, come quello di chi avrebbe voluto tenerla stretta al suo petto. Lei sorrideva, toccandosi ogni tanto i capelli, sorseggiando il caffé che reggeva tra le mani, e lui intanto la seguiva in ogni suo gesto, come chi non avrebbe voluto gettarla tra le lenzuola spogliandola impetuosamente, ma era lei a spogliare lui di ogni sua debolezza.

Credevo si trattasse di una coppia di fidanzati, di quelli che hanno cominciato ad uscire da poco tempo, conoscendosi a mala pena, avendo ancora una voglia matta di scoprirsi in ogni singolo dettaglio. Gli occhi di quell'uomo raccontavano di una di quelle storie meravigliose, in cui c'è lei che gli fa il bucato, e lui che le prepara il caffé appena svegli.

I due sono scesi alla mia stessa fermata, dove ad attenderli c'era un altro uomo. Quest'ultimo ha dato alla donna un bacio sulla guancia e le ha preso la mano, trattenendola a sé per tutto il percorso. Mi è stato chiaro solo ad allora che non si trattava altro che amici, presumibilmente colleghi di lavoro, che hanno condiviso uno spazio in cui senza toccarsi si legavano a vicenda come gomitoli di lana. Ma ad un certo punto, al richiamo della fermata, sono dovuti scendere e quell'idillio che avevo seguito come la più accattivante delle soap opera è svanito.

Ed è allora che ho pensato a quanto spesso ci facciamo del male, volendo celare l'evidenza senza mai affrontarla. Alla nostra disattenzione, alla nostra mancanza nel cogliere i dettagli. Perché ognuno di noi, da qualche parte, avrà qualcuno che seguirà con quello stesso sguardo i nostri gesti, qualcuno che ci guarderà come fossimo la più amabile delle creature.
Ma sarà sempre troppo tardi, o troppo presto.
Sarà sempre per la solita ragione: perché a volte l'amore fa paura o, semplicemente, forse, non ce ne è abbastanza.

Ed allora ci si separa, lasciandoci cullare dal dubbio su come sarebbe andata a finire se non fossimo scesi alla nostra fermata. Perché a volte è più difficile ammettere che se non è stato, è perché in fondo non abbiamo voluto. Almeno, non abbastanza.



giovedì 16 ottobre 2014

Fin quando ci sarà qualcuno che scrive, non ci sentiremo mai soli.

Stasera la pioggia ancora una volta ha bagnato le strade ed io ho pensato che forse potevo usufruire di questo spazio che racconta di me, di parte della mia vita. Credo racconti di segreti che a volte faccio fatica a raccontare persino a me stessa. Credo sia la pioggia a sortire questo strano effetto.

Lavoro tanto, dormo poco, ho sempre meno tempo per me. Ho iniziato esperienze che sino ad un mese fa non credevo possibili. Scrivo in due lingue, ho scadenze, faccio un programma in radio. Rispondo ad e-mail di persone sconosciute che si riconoscono in ciò che scrivo. Incastro appuntamenti, vinco la mia insicurezza, rivolgo domande senza aver paura di eventuali risposte negative. Mi piace. Mi fa sentire viva, quasi un'oasi in mezzo al deserto.

C'è una parte di me che sa sempre ciò che vuole e lo trattiene a denti stretti. Quella che si libera come un soffione trascinato dalla forza del vento, che danzerebbe nell'aria anche quando la musica è terminata. 

Magari accadesse lo stesso per quell'altra parte, quella che teme le scelte, i cambiamenti, i cicli e a volte anche le persone.
Ce ne è una che lascia scegliere non perché confidi nelle scelte altrui, ma perché teme di farlo. E allora si accontenta di ciò che ottiene nonostante desidererebbe l'esatto opposto.
Ce ne è una che lascia andare perché forse è tardi per chiedere di restare, nonostante, forse, non l'abbia nemmeno mai chiesto.
Un'altra che attua cambiamenti progressivi, facendo un passo alla volta, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza. 
C'è una parte che vede persone andare via e nonostante ti piacerebbe seguirle, rimani dove sei.
C'è quella parte che ancora fa fatica ad abituarsi a certi ritmi spietatamente veloci e a rapporti fugaci, che teme di chiudere cicli, perché forse in fondo nemmeno lo vorrebbe così tanto.

Perché la verità é che se non sentiamo ciò che si ha dentro, finiremo per farci lo sgambetto da soli. 

Allora scrivo, per colmare le distanze. Per avere la sensazione di essere in equilibrio quando si sta per cadere.

Perché forse è vero quello che si dice in giro: "fin quando ci sarà qualcuno che scrive, non ci sentiremo mai soli."

Io lo faccio, per me stessa.

mercoledì 17 settembre 2014

Ritrovarsi tra le note di un violino.

L'altro giorno passeggiavo per le strade di Londra in una tiepida giornata di fine estate. Pochi minuti prima avevo avuto una delle conversioni più piacevoli da quando sono sbarcata nella capitale britannica. Una di quelle in cui non temi di pronunciare la parola ispirazione, né di ammettere che i 40 minuti in metropolitana ti hanno regalato minuziosi dettagli per cui sentirsi ispirati, da cui poter trarre cose belle da poter scrivere o semplici riflessioni quotidiane, senza mai sentirmi inadeguata agli occhi del mio interlocutore che mi scrutava quasi come per saperne sempre di più su questa mia bizzarra mania.

Poi, mentre passeggiavo, mi sono imbattuta in un artista di strada che suonava L'Hallelujah con il violino. Mi sono fermata ad osservarlo per pochi minuti. Era in piedi, all'ombra di un albero al centro di una piazzetta circolare. Nessuno, a parte me, era fermo ad ascoltare quella meravigliosa melodia. Le persone gli passavano di fianco con la solita frenesia londinese. Mentre quel giovane uomo era nella sua dimensione, gli altri stavano per iniziare la loro corsa quotidiana verso chi sa quale destinazione. 

Ed è lì che ho riflettuto su quanto talvolta lo stare fermi o il proseguire con i propri mezzi a disposizione ed i propri tempi, anche soli, possa beneficiare più dell'omologarsi a contesti in cui non ci sentiremo mai noi stessi, a corse fatte insieme, ma presumibilmente inappaganti. E' come se mi fossi posta da spettatrice in un angolo di strada, attratta non da quel via vai rumoroso, ma da una persona ferma offuscata da altre, dove il suono del suo violino era fioco perché acuito dal rumore che c'era in strada. Ed ho capito che siamo noi a decidere cosa vedere o ascoltare, nonostante ciò che possa sembrare, i rumori, i silenzi o l'incuranza, se i dettagli o la forma senza alcuna sostanza.

Per un attimo mi sono sentita come quel violinista: ferma a lasciare che quella musica mi entrasse dentro, la sola che avrei voluto ascoltare in quel momento. Ferma mentre tutti gli altri nella loro incuranza mi passavano di fianco correndo alla volta della loro chi sa quale destinazione, perdendo per la loro disattenzione l'occasione di imbattersi in qualcosa di dolce e di soave. Ferma di fronte quell'uomo ho capito che in pochi minuti mi ero ritrovata nella mia dimensione già due volte, che la mia destinazione non ha un indirizzo se non quello che porti il mio nome nella sua più autentica essenza, facendo un passo alla volta, ai miei tempi.

E allora ho capito che non importa dove tu sia e quali siano i tuoi piani: l'importante è circondarsi di cose belle. Quando non riusciremo a trovarle saranno loro a farlo e quando si nasconderanno sta a noi scegliere cosa osservare, su cosa focalizzare la nostra attenzione. 

Prima di andare via ho messo una moneta nel cappello capovolto del violinista. Lui mi ha semplicemente guardato, in segno di ringraziamento. 
C'è chi avrebbe potuto ascoltare i rumori delle automobili e vedere la folla frenetica in strada. 
Per me c'eravamo soltanto noi e la sua musica, fermi, perchè talvolta occorre fermarsi per poter proseguire meglio.

Gli altri non sapranno mai a cosa hanno scelto di rinunciare.

domenica 14 settembre 2014

Dietro l'angolo.

Impiego dieci minuti da casa mia al lavoro. Se cammino a passo svelto anche meno. 
Generalmente mi accendo una sigaretta che spengo sempre nella stessa stradina prima di svoltare l'angolo.
Sembra quasi una prassi consolidata: corro in strada, accendo una sigaretta, la fumo e la spengo esattamente lì. Se le avessi raccolte, una ad una, ciascuna racconterebbe di una giornata diversa. Quelle spente con la voglia di sentire il rumore del mare o il profumo del caffè bollente che ti sveglia di buon mattino, o quelle spente con il sorriso sulla labbra nonostante gli schizzi di pioggia che con un leggero tic toc bagnano le spalle. Quelle spente sperando di arrivare a casa presto ad abbracciare il tuo cuscino, oppure alzando gli occhi al cielo sentendomi una leonessa.

Da qualche giorno però la collezione di cicche di sigaretta in quell'angolo di strada sembra essersi arrestata.
L'altro giorno ho acceso una sigaretta esattamente come faccio sempre e solo quando ho preso le chiavi di casa mi sono resa conto di avercela ancora tra le dita e l'ho gettata via. E' successo quella sera, ed anche quella successiva, ed anche la seguente.

E' che ero stata trascinata così tanto da certi pensieri che avevo dimenticato le mie abitudini.Camminavo per inerzia e all'angolo non mi sono fermata, probabilmente non avrò nemmeno realizzato dove fossi e dove stessi andando.

Se raccogliessi tutte quelle cicche probabilmente non ci sarebbero quelle che raccontano invece di giornate in cui si è risucchiati in un vortice di pensieri senza fondo e di stati d'animo anomali. Quelle in cui fai esattamente il contrario di quello che pensi e dici esattamente il contrario di quello che invece faresti. Quelle in cui ti senti in un bilico creato soltanto da te perché forse l'altro nemmeno ci pensa. Quelle in cui cominci la tua battaglia giornaliera per sentirti diversa in luoghi dove invece basta essere uguale agli altri. Quelle in cui il silenzio ti consuma e dentro di te fa più rumore di un centinaio di stoviglie. Quelle in cui senti di dover cambiare qualcosa e aspetti il momento giusto per farlo ma non sai se sia già arrivato, forse mentre in quell'angolo nemmeno ci pensavi, sai da dove cominciare ma no se possa bastare. Quelle in cui vorresti un po' di pioggia che ti bagni la schiena per lasciare che tutto scivoli via.

Questa collezione la tengo per me, perché sono certa che nessuno la terrebbe con sé, sarebbe forse un inutile spreco di spazio.

E' che a volte dovremmo abbandonare certe abitudini per sentire il rumore dei pensieri che ci conducono esattamente dove vorremmo essere. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 11 settembre 2014

Gli inglesi mi hanno insegnato che ...

Circa una quarantina di occhi sgranati fissavano lo schermo che di lì a poco avrebbe indicato il numero del gate per il ritiro dei bagagli in aeroporto. 
Sembravano gli stessi che cominciano a fissare l'orologio con un'ora d'anticipo la sera dell'ultimo dell'anno, mentre tua madre è ancora intenta a servire le ultime portate. 
O investitori intenti a controllare l'andamento della borsa.
Erano assorti, quasi ipnotizzati. 
Io ero distante dalla folla, seduta per terra. Ho capito che il numero del gate era comparso sullo schermo esattamente un nano secondo dopo che fosse stato visualizzato. Sembrava una folla impazzita che in corsa doveva racimolare il pane in tempi di guerra. 

E' sempre divertente osservare come gli inglesi si approcciano al tempo, correndo. Come, in questo modo, sono in grado di vincere le attese. 

Ed è forse vero che se attendi troppo si rischia che il tempo ti consumi, perché non ti aspetta.
Ma se attendi troppo poco, non avrai mai il tempo dalla tua parte. 

E ho pensato quanto in fondo il controllo del tempo ed il bilanciamento delle attese sia parte dell'orologio biologico di molti.

Aspettiamo la fine dell'inverno per metterci a dieta.
Aspettiamo di finire gli studi per dedicarci alle nostre passioni, perché ci eravamo sempre detti che avrebbero richiesto troppo tempo.
Aspettiamo la persona giusta alla quale dire ti amo, come se esistesse un decalogo cui fare riferimento che ci permetta di individuare se una persona sia giusta o meno. 
Aspettiamo il silenzio per pronunciare parole. 
Ma aspettiamo anche semplici gesti per ridurci nel silenzio. Errando, sempre.

Aspettiamo bufere per metterci a bordo di una zattera aspettando che finisca.
Aspettiamo di cadere in mare rischiando di annegare, prima di capire che siamo in grado di nuotare e risalire a galla da soli.
Aspettiamo quel momento propizio per dare sfogo alla nostra fervida immaginazione, la nostra occasione per far capire quanto valiamo, prima di capire che la vita è fatta di momenti in cui bisognerà sempre agire seguendo l'istinto e che il nostro valore non accresce aspettando occasioni, siamo noi a doverle creare.
Aspettiamo di negare sguardi prima di capire che vorremmo ritraessero il nostro volto in ogni istante, ed aspettiamo di imbatterci negli stessi prima di capire che o andiamo via o ci tuffiamo dentro.

Aspettiamo la pioggia per gustare il tepore dei raggi di sole che riscaldano la nostra pelle, e l'afa del deserto per avvertire la mancanza del fresco venticello autunnale.

E aspettiamo di morire, per poi rinascere ancora.

A volte mi chiedo se sia più giusto aspettare come ci è stato insegnato, oppure correre a prendersi ciò che si vuole anche a costo di restare delusi. 

Non è forse questo il prezzo della vita?

C'è chi sceglie di morire nell'attesa di un tempo che consuma, e chi, invece, sceglie di vivere.

Forse questi inglesi qualcosa mi stanno insegnando.




lunedì 18 agosto 2014

Il faro della vita.

L'altro giorno ero a Canterbury, una tranquilla cittadina medievale, a circa un'ora e mezza dall'esasperata frenesia londinese. Entro in un pub ed ordino una birra. Di fronte al mio tavolo era seduta una famigliola.
Una donna robusta, dall'aspetto trasandato, che impugnava le posate in malo modo. Una coppia di gemelli, avranno avuto meno di cinque anni, biondi, con gli occhi dal colore azzurro cielo ed una carnagione bianca vellutata. Un uomo dall'aspetto distinto, che portava alla bocca le olive poste al centro del tavolo usando sempre uno stuzzicadenti diverso. Di fianco a lui un ragazzone dall'età difficile da definire, affetto dalla sindrome di Down, con evidenti difficoltà nel portare il cibo alla bocca, tanto che il padre se ne prendeva cura, pulendogli di tanto in tanto la bava alla bocca.

Sembrava una famiglia semplice, come tante. Quelle in cui la bellezza di un volto d'angelo si accosta ad un altro costretto su di una sedia a rotelle. Quella in cui ci sono bocche da sfamare, ma si aiuta prima chi ne ha più bisogno, senza voler dire amare di più, ma semplicemente in un modo diverso. Quelle in cui le differenze vengono a galla, ma si neutralizzano in un concetto più profondo, che è quello della famiglia, perfetta sempre, così come è stata creata.

E allora pensavo ad un film che ho visto tempo fa, Una storia vera, diretto da David Lynch, in cui il protagonista all'età di 73 anni decide di intraprendere un viaggio su un trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Ho pensato ad una sua citazione, quando dice: "Quando i miei figli erano piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un rametto ciascuno e dicevo loro di spezzarlo. Non era certo un'impresa difficile. Poi gli davo un mazzetto d'erba e dicevo di provare con quello. Ovviamente non ci riuscivano. Quel mazzetto - gli dicevo - quello è la famiglia."

Questa citazione incarna esattamente quello che credo da sempre. 

Famiglia non è solo un nome collettivo, che prevede quattro, cinque o dieci persone. Ce ne possono stare anche soltanto due. E' ciò che la regge, che è dietro di essa, inanimato ed impalpabile, a renderla tale. 
La famiglia è fatta di occhi in cui troviamo la nostra ragione d'esistere quando abbiamo paura. E' un amore che non ha bisogno di conferme perché esiste nel sangue che ci lega, non necessita di grandi azioni perché sarà più grande nei piccoli gesti, è qualcosa che spesso vive nel silenzio di bocche che restano chiuse, in cui il silenzio vorrà già dire tutto, perché sai già cosa direbbe. La famiglia si poggia su verità che nessun altro sarebbe mai in grado di dirti, su una forza indomabile che ti fa sentire protetto e meno solo ovunque ti possa trovare. E' una strada in cui non esistono sensi vietati, né limiti di velocità, sempre aperta, in cui ti immetti sentendoti sempre accolto, nonostante le differenze, le tue scelte sbagliate o giuste che siano, nonostante tutto. E potrai percorrerne tante altre, non ti sentirai mai lo stesso. 

Perché la famiglia è così: è come un faro la cui unica luce sarà riflessa su di te, guidandoti ovunque tu sia. 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/film/u/una-storia-vera-(1999)/citazione-68740?f=w:2280>
E' qualcosa di straordinario in cui vedi attraverso i loro occhi chi eri, chi sei, chi sarai.

E' qualcosa che non si spezza mai, l'unica in cui vale veramente la pena credere.

lunedì 11 agosto 2014

Imperfezioni.

L'altra mattina ero intenta ad asciugare le posate del ristorante, quando ad un tratto mi sono soffermata ad osservare i volti dei clienti in sala e dei miei colleghi, sembrando questi ultimi addirittura più gioviali dei primi.

Non so se lo fossero davvero, anzi credo che qualcuno nemmeno se lo domandi più. Fa parte di quel sistema che ti inghiottisce e non ricordi nemmeno quando e come sia capitato che ti sia trasformato in un essere robotico tuttofare. Posso saltare da una postazione all'altra, invitare i clienti ad entrare, preparare insalate, sparecchiare, chiedere loro se gradiscono un dessert, ma c'è una cosa che non sono in grado di fare su richiesta: avere un sorriso stampato sulla faccia perché così si deve fare. Ed è per questo che nascosta nell'angolo ad assicurarmi che piatti e posate fossero puliti per la clientela stavo bene: perché non dovevo pronunciare nessuna frase di circostanza, né sorridere come i miei colleghi. Un po' come quando mi rifugio in questo spazio digitale che racconta di quei dettagli e pensieri che messi insieme raccolgono la parte più autentica della mia vita.

E proprio mentre ero lì a lucidare l'ennesima forchetta, pensavo quando entrai in quel posto oramai un anno fa, con quell'unica aspettativa che accomuna chiunque approda in terra d'Albione: fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Da allora è cominciata la mia corsa contro il tempo, quella che mi ha visto talvolta diventare grande nonostante avessi le ginocchia tremolanti, altre piccola nonostante la forza di un leone che come consueto tardo a tirar fuori. Sono entrata in quel luogo senza nessuna speranza, ma ogni giorno, mentre ero in cassa o a pulire forchette o a servire qualche cliente, la mia mente non si fermava mai. Pensavo, ogni giorno, a quello che potevo creare. Ed è lì che si sono compattati i miei desideri, che ho stabilito quali fossero le mie priorità, che ho alimentato le mie ambizioni, nonostante talvolta per la fatica vacillassero. Ma c'era una cosa che le ha sempre tenute insieme: la mia innata tendenza a riprodurre all'esterno il mondo ideale che sognavo per me, il non lasciare che niente al mondo ostacolasse ciò che di buono attendessi, e continuo ad aspettare. Sono entrata in quel posto in punta di piedi, ed in silenzio, e continuo a non far troppo rumore, perché ci tengo a mantenere i miei tempi, a non omologarmi ad una dimensione troppo veloce che non mi appartiene, perché c'è un olezzo di qualcosa che non so cos'è, so solo che è poco umano.

Questi mesi sono trascorsi in fretta. L'estate ha lasciato spazio alle foglie d'autunno che hanno ceduto il passo ad un gelido inverno che è stato poi spazzato via da una fresca brezza primaverile trasformatasi poi di nuovo in una breve ed inconsueta estate londinese, in cui ci sono giorni in cui il cielo sembra presagire l'inizio di un nuovo autunno, altri in cui quest'ultimo sembra ancora lontano. Non c'è niente che non rifarei, nonostante i sacrifici e qualche senso di colpa che ogni tanto, di notte, torna a farmi compagnia come fosse uno spettro che ti piomba dal soffitto, di cui non puoi far altro che tollerarne l'eco. Non c'è niente che non rifarei, nemmeno quelli che la gente continua a chiamare errori, ma che sono per me la parte più bella della vita. E non perché ti insegnano a non sbagliare più, ma perché ti portano a toccare con mano la tua reale dimensione, quella che sa di un'umanità che vorresti vedere in tanti altri che sembrano perfetti solo perché non commettono mai errori, ma sono invece dotati della più severa delle imperfezioni: quella che ti racchiude nello schema del si può-non si può, non facendoti godere mai abbastanza.

Non tratterò mai i miei "errori" con superficialità, perché non sarà mai vero che non me ne frega niente di loro. Se potessi li farei ancora, e ancora, e ancora, non solo per sentire l'olezzo del senso di colpa, ma avvertire il profumo di umanità dentro il mio cuore che mi spinge a chiedere perdono, ogni volta, anzitutto a me stessa.

Ed è per questo che del posto in cui lavoro poco mi importa. Perché ho avuto, chiamiamola fortuna, di mantenere integre le mie priorità, di non scendere mai a futili compromessi, di entrare ma mai fino in fondo in un sistema che non mi appartiene, quello che infonde il senso di dovere sotteso alla necessità di produrre per guadagnare. Io ho sempre lavorato perché avevo necessità di creare qualcosa di diverso. Chi crea non è suddito né li detiene, è semplicemente padrone di sé e fuori da quel contesto in cui non gli si può chiedere di ridere, perché quello è il linguaggio più intimo di un'anima. Quella che nessuno può controllare, quella che commette errori, quella che è bella perché è così, semplicemente imperfetta.

Quella mattina, nascosta in quell'angolo, nessuno mai dei presenti mi avrebbe chiesto a cosa pensassi.
In realtà pensavo a quanto sia semplice cancellare momenti etichettati semplicisticamente come "errori" come fosse la cartella di posta indesiderata, piuttosto che conviverci accettandoli come parte integrante di vita, quella che possiamo scegliere di cambiare o che può cambiare noi. Pensavo al modo di tenere in vita le priorità nonostante gli ostacoli, senza commettere l'errore di chi desidera ardentemente qualcosa e quando è ad un passo dall'ottenerlo molla perché ha paura.

Pensavo che nella vita si fanno delle scelte, ed io ho sempre scelto, ma qualche volta avrei voluto che qualcuno lo facesse al mio posto per sentirmi meno colpevole, forse. 

giovedì 7 agosto 2014

Vivere di sfumature.

Stamattina nell'aprire il frigorifero i miei due scompartimenti sembravano sovraccarichi di roba.
Eppure c'erano solo tre yogurts, una confezione di fragole, un'altra di pomodori, un barattolo di sugo pronto, una bottiglia di succo alla mela, dei toasts e del formaggio.
Il frigo sembrava pieno, come quando in un piccolo spazio tenti di farci entrare il necessario che supera l'effettiva capienza, allineando tutte le bottiglie, riponendo i barattoli negli angoli e le confezioni di yogurts le une sopra le altre.

E ho pensato in quel momento al modo in cui si vive in una piccola città piuttosto che in una grande metropoli, dove gli spazi limitano i desideri facendoli sembrare però eterni e mai spenti, in cui ogni minuto sembra durare più di sessanta secondi, in cui i piccoli spazi fanno da alibi per tenersi stretti, in cui sembra all'apparenza non entrarci niente, eppure vi si può inserire tutto.

Perché quello che ho imparato vivendo in una grande città come Londra è questo: che non è vero che spazi enormi rendono giganteschi anche i tuoi desideri, ma spesso si rimpiccioliscono per far spazio a quelli degli altri, o addirittura per crearne tanti altri della stessa portata; che un minuto dura un secondo o forse anche meno e che i grandi spazi forniscono alibi per allontanarsi nonostante le distanze siano facilmente raggiungibili, in cui sembra che tu possa metterci dentro tutto ciò di cui hai bisogno, e forse ci riesci, pur mancando sempre qualcosa che vorresti tener stretto, a tuo modo, scegliendone la forma più appropriata che non si rivelerà però mai quella giusta.

E' che in una grande città come questa devi imparare a fare a meno delle persone. Quelle che vanno e vengono come onde che toccano il bagnasciuga per poi ritirarsi. Quelle che come schizzi di pioggia ti accarezzano la pelle, lasciandoti sentire un profumo di aria fresca che durerà esattamente quel minuto che percepirai come fosse un secondo. Quelle che vorresti tener strette pur essendo una strada vietata. 
Quelle con cui ti andrebbe di condividere semplicemente un po' di umanità, che ha lo stesso profumo del caffè appena svegli, la risata dei bambini in una piccola piazza di paese in un pieno pomeriggio d'estate, la voce di chi ti dice che resta con te perché le distanze, di qualsiasi forma si tratti, sono solo una creazione della mente, semplicemente bugie.

E' la terra in cui non c'è tempo, in cui tutto nasce e muore velocemente, in cui i rapporti durano quanto la vita delle farfalle. 
E puoi decidere di sottostare a questo insano principio che mette il tuo essere umano alla gogna, di vivere di solo bianco o solo nero, di cose che se non sono grandi allora è bene che divengano niente, o vivere di sfumature, sotto un cielo che vedi sereno anche quando vi sono poche nuvole che intiepidiscono i raggi di sole, al cospetto di un tramonto in cui la vasta gamma di colori si addiziona tramutandolo in un rosa inconsueto. 

Sarà che ho imparato a riparare piuttosto che a gettare, a trattenere piuttosto che respingere, a desiderare anche quando sembra sia proibito. 

Sarà che la leggenda racconta di un cielo londinese sempre grigio, mai solo bianco, mai solo nero.


venerdì 1 agosto 2014

Sotto i nostri occhi.

Dopo aver effettuato il check-in all'aeroporto di Roma Fiumicino, mi dirigo nella zona di accesso ai gate. Ripongo tutto in uno dei cestelli a disposizione e passo il controllo del metal detector.

Il pensiero più ricorrente di tutti i fumatori in quel momento è che la prossima sigaretta potrà essere accesa solo una volta atterrati nel luogo di destinazione.

Ammetto di averci pensato soprattutto dopo aver finito di mangiare un panino ad uno dei bar non molto distante dalla zona in cui mi sarei dovuta imbarcare, quando ad un certo punto mi viene indicata una zona fumatori. Apro la porta della saletta e mi siedo timidamente su una poltrona. 

L'aeroporto è il luogo ideale per osservare le persone. Ma lì dentro era come se ci fosse un diverso tipo di incontro. Le persone erano tutte in silenzio, c'erano pochi gruppetti che chiacchieravano a voce non molto alta, quasi per non disturbare. Tutti o quasi erano seduti ed intenti in una delle loro consuete azioni come fosse la prima volta. Terminata la sigaretta, per poco meno di trenta secondi si guardavano intorno per poi sgattaiolare fuori e lasciare entrare qualcun'altro. 

In tutto questo meccanismo del raggiunto-lo-scopo-vado-via, del non sapere di trovare proprio dietro l'angolo ed in quel preciso istante in cui la rassegnazione aveva preso il sopravvento un luogo di silenzioso appagamento, ci ho visto una porzione, molto piccola, di vita, del nostro modo di approcciarci agli eventi, alle cose, e anche alle persone. Come quando pensiamo di non poter nulla, ed invece possiamo ma non lo sappiamo perché non scaviamo nell'immensa portata della curiosità. Come quando crediamo sia più semplice dire basta, dimenticandoci di quello che vogliamo e come combattere per ottenerlo e farlo nostro. Come quando scegliamo di proseguire soli in una strada impervia e sconosciuta, senza ascoltare la voce di qualcuno che potrà da nostra guida suggerirci il modo per orientarci. Come quando crediamo di sapere tutto, tutti i nostri programmi, le procedure, ogni simbolo di un sistema, senza conoscerne il tassello più importante: che la sete di conoscenza, la curiosità, o soltanto la voglia di scoprire per puro desiderio di andare oltre può rompere ogni programma, sminuire le procedure, sciogliere ogni sistema. 

Ed è proprio quando sono entrata in quella saletta che non pensavo potesse esistere che ho rivisto come una pellicola in bianco e nero tutti gli errori passati, quello che ho lasciato si bagnasse sotto schizzi di pioggia scivolando via lontano da me solo per paura, o pigrizia nel guardare troppo lontano. 

Ed è lì che ho capito che niente è troppo lontano, ma talvolta tutto ciò che desideriamo è esattamente dove ci troviamo, sotto i nostri occhi. A noi tocca solo saperlo vedere.

domenica 13 luglio 2014

A piedi nudi.

L'altro giorno passeggiavo e ho rivolto lo sguardo ad un gruppo di bambini.

A piedi nudi danzavano in una fontana, una di quelle con l'acqua che zampilla, in cui sarebbe vietato entrare, eppure reggevano tra le mani le loro scarpe con invidiabile naturalezza. I loro vestiti erano completamente zuppi, sui loro volti era disegnato un sorriso che avrebbe illuminato qualsiasi giornata dal tipico grigiore londinese.

E ho pensato che quella immagine di libertà sarebbe stata in fondo la stessa in cui rivedrei esattamente il mio concetto dei rapporti, dell'amore, della vita, di me da sola, di me con le persone. 

Non sono un'amante perfetta, non chiedo di esserlo. Commetto errori e lascio che gli altri li commettano per quel senso di umanità che considero sacro ed inviolabile, perché in fondo nessuno è un santo.
Considero i dettagli parte inviolabile di ogni rapporto, ed è per questo forse che la scarsa premura dell'altro nel realizzarli dando loro un peso pregevole, rischierebbe di compromettere tutto. E' per questa stessa ragione che è sui dettagli che sarei disposta addirittura a porre le basi di quel niente che si tramuta in tutto quello che basta. Rido tanto, ma piango altrettanto. Rido per quello che mi concedono, piango per quello che vorrei e che mi viene negato. Talvolta sono infantile, perché ogni donna nel suo piccolo lo é, qualsiasi età abbia: è la nostra debolezza, ma al contempo, anche ciò che ci rende più forti. E mi impegno per creare le condizioni per la felicità degli altri, anche se questo significa sacrificare la mia. E' il mio mestiere: riparo cose.

Ma la verità è che a noi donne non si perdona niente. Ogni errore, anche il più irrisorio, avrà la stessa entità di una macchia d'olio su dei pantaloni di cotone. E ci viene chiesto di dimostrare sempre qualcosa, e se non ce l'abbiamo, il nostro orgoglio è come se ci imponesse di inventarcelo, anche se questo significherebbe prendersi cura di rami oramai secchi, far nascere germogli i cui semi sarai disposta a piantarli da sola, senza che l'altro sia disposto a raccoglierli, talvolta nemmeno si accorgerà dell'attività che hai cominciato. 

Talvolta è come se a noi donne venisse chiesto di assistere ad un sport che non ci appartiene: quello del tirare la corda, sin quando i fili così assottigliati si intrecciano, ad un passo dallo spezzarsi. Ci viene chiesto di restare nel silenzio di una stanza i cui muri implorano di lasciarla. Ma la richiesta peggiore è sempre la stessa: fare la cosa più giusta.

Ed io quest'oggi ero ad un passo dal commettere la più grande giustizia verso me stessa. Sarei scesa per strada scalza, avrei raggiunto quei bambini e mi sarei tuffata completamente nelle acque di quella fontana, senza temere un raffreddore, né di come gli altri mi avrebbero descritto, né avrei temuto divieti. Mi ci sarei tuffata proprio per quel senso di proibito, perché siamo umani e non ci è dovuto fare sempre la cosa più giusta, mai. Ciò che vogliamo, anche contro le aspettative degli altri, é la cosa più giusta, sempre. Avrei goduto della stessa spensieratezza, di quella libertà che in fondo fa parte di me, che è un tuffo nella mia intimità ed in quella di chi mi è accanto, così, senza nemmeno far troppo rumore. Con i vestiti ancora bagnati avrei corso anche sotto la pioggia, annusandone il profumo che mi manca, per aspettare che il cielo si rasserenasse per dar spazio ad un tramonto in cui l'arancione dell'orizzonte si tinge al rosa di quelle nuvole sempre più piccole.

Era tutto pronto. Mancavo soltanto io.

lunedì 7 luglio 2014

Promesse.

E poi pensavo a questa cosa di farsi promesse.

Quelle che facciamo ad altri e nel frattempo anche a noi stessi.

Del tipo da-lunedì-evito-i-carboidrati, da-domani-vado-a-correre, sarò-più-paziente, farò-come-dici-tu, cerchiamo-di-mettere-un-punto-fermo. 
Pensavo a quelle che prendono forma incastonate tra vocali, consonanti e punteggiatura, che ci impegniamo ad inculcare nella nostra mente, ma che poi falliscono miseramente, come se in effetti l'incastonatura fosse poco credibile, come se mal si sposasse con ciò che vogliamo.

Eppure talvolta ci capita di vivere di promesse, di affidarci a loro come quando ci lasciamo influenzare dall'oroscopo settimanale.

Ma la verità è che sono solo parole: vocali, consonanti, poche virgole, ma nessun autentico punto fermo.

La verità è che ci facciamo incantare da cosa sembra, da cosa scegliamo di vedere o ascoltare, mai da cosa è e da cosa realmente c'è vedere o da ascoltare.

E allora vivremo di frasi dette a metà, di gesti spezzati, di voglie represse, di silenzi in un turbinio di voci rotte, di promesse non mantenute.

Perché la verità è che il chiedere promesse è l'azione più insensata al mondo. E' che ci culliamo in gesti che nulla hanno a che fare con ciò che veramente vorremmo.

E' che le promesse sono così: come polvere che tentiamo di raccogliere in un pugno, che man mano cede per la forza del vento che porta via con sé ogni piccolo granello. Perché la verità è che non basta farsi promesse, agire é sempre stata l'unica cosa che conta. Quanto l'amore, la felicità, la vita.



giovedì 3 luglio 2014

339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

Sono trascorsi 339 giorni. Pressappoco 8136 ore.
Eppure da quando ho chiuso la porta di casa, con la mia valigia rossa, ed una mente spoglia di ogni aspettativa, sembra ieri.
Ma adesso sento che sia arrivato il mio turno. Sento di dover fare un resoconto di questi 339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

L'ho capito quando uscendo di casa, avrei voluto svoltare l'angolo ed imbattermi nel mare. Vederne anche uno scorcio tra un blocco di cemento ed un altro. L'ho capito quando avrei voluto gridare, ed invece dovevo sorridere. L'ho capito quando ho avuto paura, ed ho dovuto creare un'altra parte di me, quella che non conoscevo, che si è anteposta a quello che ero. L'ho capito quando avrei voluto lasciare, ed invece sono restata, come incastrata tra due cabine telefoniche. L'ho capito quando avrei voluto pronunciare parole diverse da quelle che il suono della mia voce emetteva. L'ho capito quando sono tornata al quel 29 luglio del 2013 e guardandomi allo specchio mi sono vista diversa.

Sono partita come tanti, con la prima low cost disponibile.
 L'affluenza dei giovani, in maggioranza italiani e spagnoli, che ogni mese scelgono Londra con slancio ascetico, è notevole.  Non è chiaro se stiano fuggendo dall’Italia o se è irresistibile il richiamo della metropoli con tutte le sue leggende. Non lo sanno neppure loro. Si mimetizzano alla dogana con definizioni di circostanza. Studente. Ragazza alla pari. Turista. Artista. Sembra quasi paragonabile allo sbarco dei clandestini a Lampedusa. Solo che qui al posto dei gommoni, ci sono i voli low cost. Ma il costo del biglietto non costa quanto tutto ciò che dovrai affrontare, sudare, costruire, forse ottenere, una volta atterrato in terra d'Albione.

Dire che quando sono arrivata non avevo niente, è errato. Avevo me stessa, ed è da qui che ho cominciato. Dopo 14 giorni sono riuscita ad avere una prova nel ristorante in cui tuttora lavoro: il mio mezzo di finanziamento, per l'affitto, ma soprattutto per l'obiettivo su cui ho scelto di puntare solo dopo due mesi che ero a Londra, dandomi il tempo di capire chi ero e dove volevo andare. Come dice Shakespeare: "Sappiamo chi noi siamo, ma non sappiamo chi potremmo essere". E la mia fantasia ha di gran lunga superato la mia aspettativa.

Ma Londra non è il Paese dei Balocchi, né la terra promessa. E' una città grande in cui noi immigrati ci culliamo in una solidarietà sottile, sottesa alla condivisione di aspettative importanti, tra cui quella un giorno o l'altro anche di tornare.
E' una città che ti vuole pronto, in cui sono ammessi sbagli solo se avrai la modestia di perdere e la costanza di ricominciare. E' una città che ti vuole coraggioso, astuto e caparbio. E' una città in grado di deluderti come nemmeno il peggior uomo sulla faccia della terra, ma di regalarti tanto se avrai pazienza e generosità nel darti completamente, anche oltre quello che sapevi di possedere.

Pensavo a quanto sia una città in grado di disumanizzare. Non riuscirai a capire quando sia avvenuto, ma diventi un numero, utile ma mai indispensabile. Lo sarai quando aprirai la porta di casa e ti camufferai tra la gente che corre in metropolitana o per strada consumando il proprio panino, scansando i passanti, ed anche te. Lo sarai quando andrai a lavorare, perché la tua forza fisica basterà lì ed allora perché utile, ma mai per il tuo nome, il tuo viso, il tuo modo di fare. Sarà paragonabile a quella di chiunque altro. Come una cesta con tanti numeretti da pescare: l'uno o l'altro è indifferente. Lo sarai per autodifesa perché prima o poi dovrai dire "arrivederci", perché in una città che corre, a correre sono gli istanti così come le persone che scelgono di andare via.

Questi 339 giorni e 8136 ore racchiudono il bello ed il cattivo tempo. Il dolce e l'amaro. La delusione e la soddisfazione. I saluti e gli abbracci. Il desiderare ed il rinnegare. Il volere esattamente il contrario delle proprie azioni ed il tentare di scardinare muri che non si riveleranno altro che tali. Il sudore e le aspettative. Il guardare avanti ed il restare con un piede accanto alla porta per lasciare un piccolo spiraglio di riapertura. Le persone ed i fuochi di paglia. I rapporti e quelli che chiamo solo numeri. Solitudine. Paura e voglia di vincere.

Questi 339 giorni e 8136 ore raccolgono me stessa, a Londra, la mia.




martedì 1 luglio 2014

E poi fuori c'era il sole.

Sono alla guida di una macchina. Cerco di tenere il controllo, ma sembra quasi che i comandi non rispondano. Tento di frenare, invano. Allora lascio che sia la macchina a portarmi verso mete inesplorate, cercando di mantenere una velocità moderata.

Le strade sono larghe, sembrano quelle delle praterie americane, dove ogni tanto spunta una casetta che sembra quasi deturpare quel paesaggio incontaminato e quella surreale desolazione che sembra accompagnarti sulle note de La Vie en Rose, che sa di una malinconica solitudine che paradossalmente però non ci lascia soli.

Percorro pianure, dossi, mi ritrovo su colline che in salita ed in discesa riesco ad attraversare con la medesima andatura. Fin quando la macchina mi conduce in un dirupo e di blocco si spegne.

Resto sola ed impaurita per pochi secondi, fin quando alla ricerca di qualcosa che potesse farmi proseguire, trovo dei binari e sento il fischio di un treno in lontananza. Non ricordo quando e come ci sia salita. Sta di fatto che mi accomodo in uno dei vagoni. Sono sola, non c'è anima viva, come se quel treno stesse trasportando soltanto me, con i vestiti sporchi di terriccio, ed i capelli arruffati.

Fin quando entra lui, che mi si siede di fronte. Mi guarda ed anch'io lo guardo. Avrò forse pensato di poter proseguire il viaggio insieme a qualcuno, perché quello sguardo posatosi su di me mi avrà forse fatto pensare di essere coccolata, quasi al sicuro.

Poi ad un certo punto guardiamo fuori, ed i finestrini cominciano pian piano a bagnarsi. Gli schizzi di pioggia sono fitti ed inarrestabili, ma delicati, senza lasciar prevedere alcuna tempesta violenta.

Allora lui mi prende le mani e mi dice di stare tranquilla, perché tutto andrà per il meglio, perché lui non mi avrebbe mai lasciato sola.

Nel momento in cui tentavo di far mie quelle parole, di raccoglierle dentro di me forse per riproporle, per dire al capotreno di non fermarsi più, ma di proseguire perché non volevo che nessuno scendesse ad una delle prossime stazioni, mi sono svegliata.

Ho aperto gli occhi e ho realizzato di non aver materialmente guidato nessuna macchina. Non ero finita in alcun dirupo, non ero salita su nessun treno, nessuno mi aveva stretto le mani dicendomi che non sarei stata sola. E poi fuori c'era il sole.

Eppure sentivo che era reale.

domenica 29 giugno 2014

Una corsa al parco.

Terminato il turno di lavoro, quando sono rientrata avrei voluto indossare tuta e scarpette per andare a correre nel parco che è ad appena 50 metri da casa mia, alla fine della strada. Avrei messo le cuffie e avrei pensato di essere più veloce del tempo che scorre e consuma, te e chi ti sta intorno. Avrei pensato che basta tenersi in forma per sentirsi meglio, quasi in pace con se stessi. Avrei annusato il profumo della pioggia che ancora bagnava l'asfalto. Avrei guardato il cielo, sarebbe stato rosa, di quelli che preannunciano un tramonto dolce, di quelli che guarderesti dalla finestra della tua stanza insieme a qualcuno, perché condividere qualcosa che sa di infinito utilizzando termini semplici quasi come fosse alla nostra portata, accorcia le distanze e ci fa sentire quasi perfetti, ad un passo dall'essere infiniti. Avrei voluto fare tante cose, alcune delle quali le farei tuttora se mi dicessero che morirei domani.

Quando ho aperto la porta di casa ogni intenzione è svanita. Come se aprendo quella porta e ritrovandomi tra buste zeppe di roba da portar via ed un piumone sul pavimento, avessi capito che sebbene avessi voluto correre, mi dovevo fermare. A volte credi di aver fatto abbastanza, di aver superato ostacoli che non pensavi di poter superare, di aver fatto sacrifici inumani, di aver toccato la maggior parte delle corde di questa vita così imprevedibile. Non sarà mai abbastanza. Ci sarà sempre altro, altro, e ancora altro. Per esempio oggi, quando ho varcato la porta di casa, la vita mi ha chiesto che dovevo dimostrare di crescere ancora un po', di essere più della donna che pensavo di essere diventata. Questa volta l'ho trovata pretenziosa, mi ha chiesto di essere forte come una donna che è in grado di attraversare da sola una tempesta, per approdare sulla terra ferma dopo settimane, ancora viva. Di comporre frasi semplici, composte da termini non troppo lunghi, così da essere compresi da tutti, come fanno i bambini. Mi ha chiesto di provare lo stesso senso di smarrimento che si prova quando sei adolescente, quando il tuo ragazzo ti lascia per sms, i tuoi genitori non ti lasciano vedere i tuoi amici, la tua insegnante ti dice che potresti fare di più. Mi ha chiesto di avere la stessa pazienza delle madri, la stessa dedizione che una moglie avrebbe verso suo marito, la stessa premura di una nonna verso un nipote. 

Eppure io nemmeno lo sapevo, che nella giornata di oggi, una qualunque domenica, la vita mi chiedesse di attraversare così velocemente tutte le fasi dell'essere donna. Quasi come mi chiedesse di correre, pur restando ferma a guardare quello che ero costretta a vedere, pur desiderando di andare via. 

E così ho capito che la vita ci mette alla prova, quando le va, e noi dobbiamo essere sempre pronti. Che dobbiamo passare fasi di lancinanti rimorsi per apprendere che invece saranno niente altro che rimpianti. Ho capito che la vita mi chiedeva in fondo l'unica cosa che ho sempre saputo fare con invidiabile maestria: riparare stati d'animo rotti, a discapito del mio, che intanto si sbriciola. Tenere al loro equilibrio, più che al mio. Perché in fondo è sempre stato così, nessuno mi ha mai chiesto di cambiare.

Ma oggi non ero pronta. Ero sola, e volevo correre. Volevo alzare gli occhi al cielo e vederlo rosa, stringermi al vento che intanto spazzava le foglie, per sentirmi ad un passo dall'essere infinita. Avrei voluto annusare il profumo dell'erba ancora bagnata. Pensare che non mi è dovuto attraversare tutte queste fasi così velocemente, tutte insieme, ma passo dopo passo. Avrei voluto ridere, ancora un po'.

giovedì 26 giugno 2014

Profumo di pioggia.

A volte si avverte l'esigenza di pulire casa, non con scopa e paletta, ma aprendo tutte le finestre, lasciando che l'aria passi, annusando il profumo della pioggia che ti entra dentro, fitta e silenziosa, senza che nemmeno faccia rumore con il suo solito tintinnio sull'asfalto.

E allora pensavo alle colpe e ai desideri, a quanto questo binomio fosse così imperfetto nella sua perfezione. A quanto il desiderio ci renda colpevoli, eppure così innocenti per il solo fatto di volerlo. Pensavo quanto costi cedervi, e quanto perdi se non lo fai. Pensavo se sia possibile avere colpe e non sentirsele come toppe cucite addosso. Se è possibile che il desiderio superi la colpa, al punto da diventare la priorità. Pensavo alla definizione da dare a chi é poco intrepido nel pensare che in fondo il desiderio può nascere da quello che qualcuno chiama istinto, io invece cuore, quel muscolo che vende pacchetti di felicità se imparassimo ad ascoltarlo, mai sensi di colpa.

E ho pensato che tutti abbiamo, nel corso del nostro anno, dei giorni "speciali", di quelli che vorresti non passassero mai, quegli stessi che invece vorresti volassero per fare più luce dentro di te. Quei giorni in cui nonostante le colpe, la tua leggerezza viene prima, il tuo sorriso è più importante, parlare diventa quasi più sano.

Quei giorni in cui delle persone, senza far troppo rumore, come schizzi di pioggia che bagnano i vetri delle finestre, il cui rumore é così lontano dall'essere percepito, entrano in casa e te la rassettano, come se lì dentro ci avessero sempre vissuto, ed invece è la prima volta che vi si accostano. Ti spostano mobili, rilegandoli in posti in cui non avresti mai pensato di farceli stare. Ti aprono finestre, quelle che tu per pigrizia avevi sempre lasciato chiuse. E ti parlano tanto, lasciandoti in silenzio ad ascoltare quello che in fondo pensi anche tu.

Ma in tutto questo spostare e cambiare, in realtà, non c'è niente che non avresti voluto fare anche tu. Solo che non lo facevi, perché ti avevano sempre detto che la posizione dei mobili era perfetta, che per aprire le finestre c'era troppo freddo, e allora tu acconsentivi, per pigrizia, o forse perché ti faceva bene credere che in fondo tutto era perfetto, nella sua visibile imperfezione.

Fin quando poi qualcuno ti ha chiesto: "Lo senti questo profumo di pioggia?"

Tu lo hai annusato, e ti piaciuto tanto da voler lasciare le tue finestre aperte, sempre, anche dopo che smetterà di piovere, anche oltre i tuoi "giorni speciali".

sabato 21 giugno 2014

Un giro in libreria.

Oggi sono entrata in una libreria per acquistare un libro di travel writing, come richiesto da uno degli insegnanti della mia scuola di giornalismo.

C'è qualcosa di assolutamente coinvolgente in posti come questi. Appena entri c'è un profumo di carta che ti si infila sin dentro le narici. Generalmente l'atmosfera appare cupa, ma suggestiva, come se le copertine dei libri fungessero da candele, di quelle che emanano una luce fioca, ma sufficiente. E non sono molto affollate.Se penso a quanti si professano lettori scaricando le versioni e-book, che poi è un po' come fare del sesso telefonico. Le intenzioni sono le stesse, ma è la forma a cambiare. Polpastrelli che non sfogliano pagine, narici che non annusano alcun profumo: che poi è come perdere parte del piacere.

Luoghi come questi esercitano su di me un forte ascendente, tale da pensare di volerli acquistare tutti, fin quando con il profumo ancora nel naso di pagine di un qualche libro di cui abbia cominciato a leggere la trama sul retro di copertina, il mio raziocinio mi ferma. Ammetto di esserci entrata talvolta solo per percepirne l'odore e quella calma quasi fittizia, pur uscendo a mani vuote. Oggi, per esempio, avrei voluto comprarne una decina, ne stavo per pagare tre, ma alla fine ne ho acquistati soltanto due. Uno dei due mi era stato richiesto, l'altro mi ha attratto per il titolo e l'originalità dei contenuti: "Underground Overground - A passenger's history of the Tube", un racconto ironico su tutto ciò che c'è da sapere sulla metropolitana londinese, attraverso il viaggio dell'autore/protagonista Andrew Martin.

E' come se avessi trovato due luoghi incastrati, l'uno nell'altro. La metropolitana è un luogo di passaggio. E' uno di quei pochi luoghi, forse l'unico rimasto sulla faccia della terra, dove è possibile raccogliere tutte insieme in appena sessanta secondi milioni di vite che raggiungono diverse destinazioni. L'impiegato, il medico, il cameriere, lo studente, l'insegnante, l'artista. Corrono, scansandosi e sfiorandosi i gomiti, restano incastrati nello stesso vagone per dei minuti, e scrutando il passeggero che hanno di fianco o di fronte del tipo ma-che-cappello-indossa, figo-quel-tipo, a-saperlo-prendevo-il-giornale-all'entrata-anche-io, curiosano nelle vite altrui senza nemmeno sospettarlo, in silenzio, tra il rumore dei binari e la voce che annuncia la fermata successiva.

Io adoro luoghi come questi, quelli che sono sentieri dell'anima senza che nemmeno te ne accorga. Quelli attraversati da milioni di vite, tutte diverse eppure simili, legati solo da un viaggio, o forse una destinazione. Quelli che ti fanno crescere la voglia di scoprire, ma con discrezione, senza far troppo rumore. Quelli che profumano di cose che ti piacciono, al punto da volerne riempire una vita intera. Quelli dove non c'è una luce che abbaglia, ma fioca al punto giusto, per potersi guardare solo perché lo si vuole, anche di nascosto. Quelli in cui entri anche solo per due minuti, anche per non acquistare niente, soltanto per il piacere di farlo.

Nei luoghi, come nelle persone, é per piacere che si entra. Per annusarne il profumo, seguirne la scia, assecondarne i desideri. Come se si prendesse la metropolitana con destinazione libreria.

mercoledì 18 giugno 2014

Vogliamo cose.

La verità è che vogliamo cose, senza darne una definizione precisa. 
Le vogliamo, e nello stesso istante ce ne allontaniamo, perché è più facile convincerci dell' inverosimilità del desiderio, piuttosto che dell'inadeguatezza nel rapportarci alle cose, agli eventi, alle persone.

Vogliamo diventare qualcuno, ma restiamo nel girone dei nessuno, aspettando che le opportunità ci si pongano di fronte, un po' come la manna dal cielo.

Vogliamo essere saggi, pur continuando a predicare il pregiudizio.

Vogliamo qualcuno, e continuiamo a raccontarci scuse. 

Vogliamo sentire, ma facciamo finta di non vedere.

Vogliamo scoprire, ma abbiamo paura di aprire la porta di casa.

Vogliamo l'amore, o forse, semplicemente qualcosa di più. Quello che va oltre un paio di gambe o un corpo tonico. Eppure sarà il primo e l'ultimo pensiero da cui ci lasceremo sfiorare.

Vogliamo esperienza, ma quando ci viene catapultata addosso singhiozziamo come bambini perché non la volevamo nella forma in cui ci si è presentata.

Vogliamo un futuro, senza mai seppellire il passato.

E vogliamo cose, la cui entità ci è ignota. Non riusciremo ad immaginarne il volto né la sua forma. 

Ma poi ho pensato che forse talvolta basta restare in silenzio. Quello racconta molto più di quanto saremo in grado di dire pronunciando frasi a caso. Dopo averlo ascoltato, basta seguirlo, senza porci limiti, senza paura. La vita è così meravigliosa perché può farti vivere cose inimmaginabili. Lo scegli tu, da che parte stare. Se vivere, o lasciarti morire.

domenica 15 giugno 2014

L'intimità della scrittura.

Quando sono rientrata dopo il lavoro, la casa era affollata. Mi sono accomodata per il pranzo che ho terminato esattamente dopo 15 minuti. Avrei voluto chiacchierare, nella mia lingua, ma mi sono limitata ad ascoltare distrattamente i discorsi che altri facevano a voce alta, in una lingua diversa dalla mia, che non parlo, ma che comunque capisco. Dopo soli cinque minuti la mia attenzione è calata, ed ho smesso di stargli dietro. E' da giorni che ho la sensazione che stia nascondendo qualcosa persino a me stessa, qualcosa che nemmeno mi va di dire, e che mi fa essere perennemente stanca. Lui mi ha accennato un vago "come va?che hai", nemmeno troppo deciso. Ed io ho naturalmente risposto come ogni donna in questi casi: "No, niente, va tutto bene". Nonostante addirittura un cieco potrebbe accorgersene, lui, come tutti gli uomini sulla faccia della terra, quella risposta se l'è fatta bastare. Come gli è bastato un abbraccio, nemmeno troppo stretto. Purtroppo gli uomini proprio non ce la fanno, è nella loro natura deludere senza accorgersene e non osservare i dettagli, nonostante siano visibili. Ma a me, oggi, andava bene così. Perché la verità è che non volevo dire nulla. Perché so che il problema sono io. E' la mia testa, che non si ferma mai, lavora elaborando pensieri continuamente, bizzarri o inusuali, piccoli o grandi, leciti o proibiti.

E allora non mi resta che fare i conti con loro, scrivendo. 

E' da giorni che ci penso e sono arrivata alla conclusione che sia più semplice conoscermi leggendo ciò che scrivo, che non vivermi quotidianamente. Alla scrittura lascio i pensieri più intimi, come se mi spogliassi di fronte ad un uomo che mi desidera senza vergogna e prima guardassi il mio corpo nudo allo specchio. Come se tra la vocalità e la scrittura ci fosse un imbuto che mantiene tutte le scorie: il liquido lo faccio scorrere tutto nel bicchiere che trabocca, le prime le lascio alla parola. Come quando dico "non fa niente", nonostante "ci sia qualcosa", "va tutto bene" mentre invece scriverei "perché non mi chiedi cosa c'è che non va, anche se non sarei in grado forse di rispondere", "vado via" quando invece scriverei "vorrei restare con te, ma é meglio di no". Ho pensato a quando mi è capitato di leggere libri di cui mi innamoravo. Perché era come se attraverso la concatenazione di parole, verbi, congiunzioni ed avverbi, riuscissi a dare un volto ai personaggi. Ogni tanto immaginavo di sentirli e addirittura di capire le loro vicende. Perché nella scrittura c'è qualcosa di sorprendente: riesce a tirare fuori il pensiero, ad elaborarlo scegliendo le parole giuste, limitando gli eccessi, negando qualsiasi filtro e nel rileggerlo, avrai la sensazione di guardare dall'esterno qualcosa che ti appartiene, sentendoci dentro, in un distacco che in fondo, è più sano. Ma ciò che amo di più della scrittura è che quasi inconsciamente ti costringe a dire la verità, come se guardassi la tua immagine riflessa a cui non puoi mentire.

Allora pensavo a chi mi vive tutti i giorni, pensando di conoscermi abbastanza, nonostante non legga niente di ciò che scriva. E a chi, non mi segue nel quotidiano, ma continua ad entrare nella mia intimità silenziosamente, guardandomi riporre i vestiti sulla sedia, senza alcuna pressione, lasciandomi fare. 

E ho pensato che al mondo esistono due tipologie di persone: quelle che si accontentano della crosta, dura o spinosa che sia, e quelli che invece vanno oltre ciò che il suono della parola vuol pronunciare, incuriositi da ciò che la superficie nasconde, entrandoti dentro, senza nemmeno far troppo rumore.

Non sei tu ad imporlo, sono loro a scegliere da che parte stare.


sabato 14 giugno 2014

I migliori insegnanti di noi stessi.

Sino all'età di dodici anni ho suonato il pianoforte. Successivamente ho smesso per problemi di salute, ma probabilmente se anche non li avessi avuti, sarei giunta al capolinea lo stesso. La mia insegnante ad un certo punto ti dava un out out: o l'università o il conservatorio. La mia passione non era tale da negarmi la possibilità di dare tutta me stessa in qualcosa su cui avevo pianificato il mio futuro: la laurea. Sapevo di non poter diventare lo Chopin del Sud d'Italia.

Generalmente ci esibivamo quasi ogni anno. Il saggio era per tutti l'occasione di mostrare ai genitori i propri profitti, così che loro potessero pensare che i soldi spesi avessero portato in fondo dei benefici. Come l'esame di maturità, l'ultimo esame all'università, un test, in cui ti confronti con altri, per capire la natura del tuo prodotto, e se tu sia all'altezza. In uno degli ultimi saggi la mia insegnante mi disse che non ero pronta abbastanza: a due settimane dall'esibizione non conoscevo a memoria alcun pezzo assegnatomi, ma pur servendomi dello spartito, non c'era fluidità alcuna nelle mia dita. Vedevo tutti così bravi, ed io mi sentivo l'ultima della fila. Ma quando ero piccola ero molto più audace, nel senso che provavo molto più frequentemente a sfidare le mie insicurezze. Mi sentivo inferiore, come adesso, ma allora provavo lo stesso a raggiungere il gradino più alto, senza alcuna pretesa di rimanere lì, quasi come se la mia insicurezza ed il sentirmi sempre meno degli altri fosse qualcosa di consolidato, o forse addirittura precostituito.

Allora per dimostrare di essere pronta cominciai l'allenamento pre-partita in casa. Mi sedetti sul seggiolino, aprii lo spartito e cominciai a suonare per ore. Non due, né tre né otto. Suonavo dalle 12 alle 16 ore al giorno. Mi fermavo soltanto per mangiare, andare in bagno e dormire. Così, per giorni. Il primo passo era raggiungere naturalezza e fluidità nelle dita, che all'inizio sembravano bastoncini, poi man mano cominciarono a sciogliersi. Successivamente cominciai l'opera di memorizzazione. Infine cercai di far combaciare entrambe le cose: suonare i miei pezzi senza l'aiuto dello spartito, come se fossero stati un prodotto della mia mente, con la stessa naturalezza e consapevolezza.

Tre giorni prima del saggio, mi presentai in casa della mia insegnante per le prove generali. Lei mi fece accomodare per cortesia, ma sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto depennarmi dalla lista dei suoi studenti "prediletti". Aprì il mio quaderno. Per spronarmi, mi aveva detto di scrivere quali giorni e quante ore avessi studiato. Lesse che avevo studiato tutti i giorni, per un massimo di 18 ore. Fu impressionata da quei numeri, ma non abbastanza, fin quando non mi fece iniziare a suonare. Ricordo ancora il suo volto sbalordito e la voce carica di entusiasmo: "Antonia, sei stata così brava e così caparbia, che ti prometto che a saggio finito, salirò sul palco e ti farò pubblicamente i complimenti. Dirò a tutti i presenti quanto hai studiato per raggiungere questa perfezione". E così fu. Le sue parole mi diedero una carica indicibile, ma solo quando osservai, tra tutti, lo sguardo dei miei genitori, di orgoglio e tenerezza, che mi sentii veramente soddisfatta. Non l'avevo fatto per loro, né per la mia insegnante, né per superare i miei compagni. L'avevo fatto essenzialmente per me stessa, per capire fin dove mi potevo spingere soltanto affidandomi alle mie forze e capii che in fondo mi stavo ponendo, già a dodici anni, più limiti di quanti concretamente ne avessi. Realizzai che potevo trasformare le mie insicurezze nell'esatto opposto: sacrificarmi, andare oltre ciò che la mia mente dava forse per precostituito, per provare a salire sul podio.

Ed ancora oggi quando la paura e le ansie prendono il posto primario nel groviglio di pensieri che affollano la mia mente, ripenso a quel giorno, a quanto abbia sudato, a quanto il mio sedere sia diventato rosso per l'aderenza con la pelle che rivestiva il seggiolino, per quante ore abbia fatto pratica prima di vedere le mie dita sciogliersi, per poi sentire la melodia nella mente e combinare entrambe le cose per raggiungere infine quel risultato. Quando siamo piccoli diventiamo gli insegnanti di noi stessi, senza nemmeno rendercene conto. Ed è opportuno andare indietro nel tempo per ricordare a noi stessi che se ce l'abbiamo fatta allora, ce la possiamo fare anche adesso.

mercoledì 11 giugno 2014

Un giorno, così, senza preavviso.

Mentre tutti gli altri genitori portavano i loro figli al parco giochi, quando avevo cinque anni i miei mi portavano in parecchi ospedali. Ne ho visitati tanti, anche fuori regione. Ma nessun specialista ha alleviato la preoccupazione dei miei genitori, non venendo mai a capo di un referto concreto. Rigurgitavo tutto ciò che ingerivo, per più di un anno, ogni singolo giorno, non ricordo per quanto l'abbia fatto.
Mia madre e mia nonna pregavano tutti i giorni, ed io mi sentivo in colpa, già a cinque anni, delle loro sofferenze. Così tentavo strade alternative. Inventavo per esempio che la causa fosse il televisore posizionato nell'angolo della stanza. Era nero e durante la notte immaginavo fosse un mostro. Loro lo rimossero, ma ovviamente io continuavo a vomitare. Allora dissi che avevo cominciato da quando avevo visto Casper. Mi comprarono tante video cassette, di ogni singolo cartone animato esistente, che avesse una trama felice, così da dimenticare quel fantasmino che in fondo mi era simpatico, ma non potevo dirlo. Nemmeno quest'espediente diede l'esito sperato. Capendo che additare cause poco veritiere non avrebbe portato a nulla, tentai da sola di farmi passare questo "qualcosa", ignaro persino a me stessa. 
Dopo aver cenato, prima di addormentarmi, se mia madre era intenta a lavare i piatti in cucina, tentavo di associare ad ogni rumore di stoviglie un suono, così da immaginare una melodia che mi avrebbe cullata come una dolce ninna nanna. Nemmeno quest'esperimento ebbe successo. "Antonia, mi raccomando, non vomitare anche questo!" Più me lo ripetevano, e più puntualmente riaccadeva. Più sentivo quella retorica raccomandazione, più mi sentivo in colpa, perché sapevo che avrei disubbidito, pur contrariamente alla mia volontà, tanto che talvolta rassicuravo mia madre dicendole: "mamma, tranquilla, stasera non lo faccio", oppure, di fronte l'evidenza: "mamma, però sto guarendo, ho vomitato solo un poco".

Poi un bel giorno mi è passato. Così, senza preavviso. Non ricordo quel giorno, ma mi piace pensare che sia stato un giorno bellissimo, di quelli di sole pieno, all'inizio della primavera, magari domenica, l'unica giornata in cui ci si riposa ed i tuoi ti infilano in macchina per portarti al parco giochi. Quel giorno in cui forse ho inconsciamente capito che, nonostante avessimo cambiato casa, l'amore dei miei genitori non mi avrebbe mai lasciata sola, ovunque fossimo andati. Anche se prima vivevo nell'appartamento sopra quello dei miei nonni che mi hanno cresciuta e viziata come si fa con ogni primo nipote, loro ci sarebbero sempre stati, anche dopo la morte. 

E questo è stato a grandi linee lo schema che ho seguito per tutta la vita. Mi ammalo di qualcosa e mi sento in colpa verso me stessa, che sia innamoramento, insoddisfazione, delusione, solitudine. E mi invento scuse, che irrimediabilmente mi daranno torto. Allora cerco il modo per curarmi. Le provo tutte, dal lasciarmi condizionare dall'oroscopo alla meditazione alla vita sfrenata per non pensare. Ma basta poco per ricaderci. Faccio finta di far tesoro delle raccomandazioni, ma riesco a disubbidire con un'innata maestria. 
Poi un giorno mi sveglio, e tutto sembra un lontano ricordo che nemmeno mi sfiora. Così, senza preavviso, proprio quando ho smesso di cercare medicine, leggendone perfino il foglietto illustrativo. Ed il cielo mi sembra più blu, il sole più caldo, il lunedì mi sembra una domenica, ogni luogo un parco ricreativo. E' quel giorno in cui scopri che sei abbastanza grande da capire che non servono certezze ogni giorno, l'amore lo è già di per sé, e te lo fai bastare. Quello verso te stessa. Quello che ti concede ogni meraviglia.

martedì 3 giugno 2014

Scarpe in grado di portarti lontano.

E' un po' come quando indosso scarpe strette che non vedo l'ora di togliere, perché piuttosto preferisco camminare a piedi nudi. Come per le scarpe, così è per i rapporti. Non posso indossare scarpe troppo strette, di quelle che compri per entusiasmo, ma con cui a mala pena racimoli un'uscita che vedrà come epilogo un'occhio di pernice ad entrambe i mignoli, lasciandoti maledire quell'acquisto per tutto il tempo, donandoti un barlume di speranza il solo pensiero di tornare a casa e sfilartele.
Ma non posso indossare nemmeno quelle troppo grandi. Quelle che all'inizio sembreranno comode, ma a lungo andare lo saranno solo da ferma, perché quando comincerai a muoverti avrai come la sensazione che le suole calpestino l'asfalto prima di te, ed anche i tuoi piedi, ad un certo punto, vorranno sfilarsele per prendere una direzione diversa, perché i tempi non sono gli stessi, perché dentro c'è uno spazio così grande da farcene entrare almeno altri dieci. Sono come rapporti superficiali o di facciata, che come acqua attraverso un imbuto, troppo stretti o larghi che siano, troveranno il medesimo epilogo.
Le scarpe su misura sono invece come quelle persone in cui ti ci metti dentro e ti senti finito. Come quelle che percorrono la strada al tuo stesso ritmo, come quelle che bastano per riempire ogni spazio e tempo. Come quelle per cui non avrai magari nutrito alcun fervido entusiasmo all'inizio, ma che alla fine si riveleranno come l'acquisto migliore, perché te le porti con te, qualsiasi stagione si tratti, ovunque tu scelga di andare, senza che tu mai dica basta. 

Ed è così che vivo i miei rapporti, di qualsiasi natura si tratti. E non perché ami il concetto di connubio perfetto. Amo le persone che sanno essere così: come scarpe in grado di portarti lontano. 

Del resto, ho imparato a farne a meno.

mercoledì 21 maggio 2014

Come margherite sul comodino.

L'altro giorno nel ristorante dove lavoro, è entrato un uomo su di una sedia a rotelle, senza braccia, né gambe. Ho trattenuto le lacrime per timore che qualcuno se ne accorgesse, ed anche perché credo che uomini costretti a convivere con una tale disgrazia, non abbiano bisogno della commiserazione di estranei.
Poi ho ammirato la donna che spingeva la sua sedia a rotelle, sino a trovargli la posizione a lui più comoda. Ho invidiato il suo sguardo fiero, quasi come se volesse dire che il suo uomo, nonostante tutto, non aveva meno degli altri. E ha soppiantato le sue manchevolezze imboccandolo con disinvoltura, portando il cibo alla sua bocca soltanto nell'attesa che lui ingoiasse la sua porzione. Gli ha pulito la bocca con i tovaglioli, scrollato le briciole dalle sue gambe. La loro naturalezza faceva sembrare che fosse una situazione normale. Ma poi, pensandoci, ho capito che nonostante la triste storia di quell'uomo, in fondo lo fosse davvero. Ho pensato che quella donna più che l'etichetta di eroina, di donna che si immola per una causa giusta, avrebbe preferito quella di compagna e basta. Perché nell'amore è così: non devi mai lasciare che l'altro pensi di non essere abbastanza, e se lo fa, devi cercare di attutire le sue mancanze, offrendogli tutto quello che hai.

Quando lui va a fare la spesa, compra sempre due confezioni di yogurt: una alla fragola, un'altra al gusto di pesca. E mi dice che quest'ultima è per me, l'altra l'ha comprata soltanto per lui, perché sa che non mangio yogurt alla fragola, non mi piacciono. Quando ero piccola li chiamavo "yogurt rosa", ed ancora adesso, per farglielo capire, li chiamo "pink". Lui se ne ricorda sempre. Come si ricorda che amo il succo d'arancia, e ne compra sempre una bottiglia, insieme al succo di mela, che di solito non bevevo prima, ma adesso ho cominciato a farlo con gusto. Come si è ricordato quanto amassi le margherite, ed un giorno che stavo male, è arrivato con un vaso, poggiandomelo sul comodino.
Verso le sei del pomeriggio se sono a casa mi chiede sempre cosa desidero per cena. Se non ci sono, me ne conserva un piatto, proprio come farebbe mia madre.
Guardandomi talvolta mangiare la pastina in brodo, diceva che fosse soltanto un po' di pasta in una ciotola d'acqua. Ma una sera, faceva freddo, e l'abbiamo mangiata insieme. Per lui, non è stata tanto male.
O come quando mi ha regalato una macchina del caffè, perché così, a suo dire, avrei potuto preparare un espresso, non continuando con le lamentele su quanto fosse disgustoso il caffè made in England. O come quella volta che ha seguito uno spettacolo al teatro in lingua italiana, perché sapeva quanto ci tenessi, nonostante non capisca bene l'italiano.

Oggi pomeriggio gli uccelli non smettevano di cinguettare e all'orizzonte si intravedeva un cielo rosa misto all'arancione, di quelli che avrebbero ceduto il passo ad un tramonto meraviglioso, se non fosse stato per le nuvole che, come di consueto, nascondevano il Sole, come una superficie di panna montata. E proprio mentre il canto degli uccelli entrava come musica dalla finestra della mia stanza, pensavo a quanti capitoli della mia vita abbia aperto e poi chiuso, e a quelli che ancora non conosco e che dovrò aprire, per poi chiuderli ancora. Ma soprattutto ho tentato di dare un nome ed un volto a quest'attuale capitolo della mia vita, ed nelle mie orecchie non sentivo altro che il suono del suo nome, nella mia mente immaginavo soltanto il suo volto.
E ho pensato, che nonostante le tangibili diversità, non fossimo così diversi da quella coppia entrata nel ristorante, perché anche noi, come loro, tentiamo di non far mancare nulla all'altro, ed offriamo ciò che abbiamo per sentirci sempre all'altezza l'un dell'altro.

Ed ogni giorno imparo qualcosa in più. Ho imparato che l'amore è quando lui ti riempie il frigo di yogurt "arancioni", perché i "rosa" non ti piacciono. E' quando tu li compri "rosa", soltanto per lui. E' quando assaggi succhi che non avevi mai provato, ma che pian piano impari a gustare, come del nettare degli dei. Sono petali di margherite, in un giorno di sole, poggiati sul comodino, per alleviare il tuo dolore. E' chiederti cosa vuoi per cena, perché mangiare da soli è triste, in due si sta meglio. E' condividere un pezzo di cioccolato e lasciargli l'ultimo pezzo. E' imparare a farsi piacere ciò che prima si ignorava per partito preso. L'amore è dire "adesso so cosa scrivere sul mio blog, ma lo faccio dopo", e lui che ti risponde: "No, fallo ora, altrimenti perdi la tua ispirazione".

Questa fase della mia vita si chiama: ritrovarsi nei gesti più semplici.