martedì 28 luglio 2015

730 giorni, e sentirli tutti

Sono 730 i giorni che mi separano da quella valigia rossa che non sembrava mai piena abbastanza. Avrei voluto portare con me tutto l’amore che stavo lasciando, e forse anche il mare.

Ma è in questi 730 giorni che ho capito che l’amore non ti abbandona, e allo stesso tempo non permetterà a te di lasciarlo. Continua, sotto forme diverse. 
Ho imparato che non sei tu a scegliere quale di queste portare con te, saranno loro ad imporsi e tu a volte ad accettarle lo stesso, allo scopo di non perderle del tutto.

In questi 730 giorni, ci sono state troppe ore in cui credevo di poter cambiare le cose. A volte ci sono riuscita, altre ho fallito. Ma ho capito che certe cose non cambiano soltanto se ci si mette d’impegno, mentre per alcune il cambiamento é un imprescindibile postulato se le si è scelte. Così ho appurato l’inevitabilità che si annida nel progressivo mutamento delle cose, delle circostanze, ed anche delle persone, ed aspettarlo, come il passaggio delle stagioni.

All’inizio lo temevo, ma questi 730 giorni mi hanno insegnato che anche questo fa parte della vita, quella di cui non si può avere paura, mai. 

Ho capito che bisogna salire un gradino alla volta, per sentire sulle proprie gambe il peso della salita, per sperimentare passo dopo passo la bellezza di immaginare una meta nonostante questa sembri lontana, raggiungerla e prefissarne un’altra, nonostante la stanchezza.

Ho capito che non ci si deve per forza adattare, ma lo si può fare alle proprie condizioni. Che la libertà sta nel non avere pesi sul cuore e compromessi sulle nostre coscienze. È qualcosa che non va dimostrata agli altri, ma è necessario sentirla dentro, come l’unica voce che ci parla, come un vento che non si arresta mai.

Questi 730 giorni mi hanno insegnato che vale sempre la pena darsi delle possibilità, anche per sbagliare, perché in quelle occasioni si comprende dove stiamo andando, ed anche dove invece vorremmo essere, così da tirare il freno, sterzare, e ripartire da un nuovo punto, a patto che sia sempre differente da quello che si lascia alle spalle. 

Tanti giorni che hanno rafforzato la mia idea di progettare un luogo in cui non esistano orologi, né calendari, per avere la forza di creare e disfare senza imporci scadenze. Un luogo in cui ci si perde, ma nello stesso istante ci si ritrova e talvolta si ritorna. Ho impiegato 730 giorni per capire che quel significato che davo al verbo tornare era giusto per gli altri, ma non per me. Così ho dato un volto nuovo a quel luogo in cui tutti dicono un giorno di far ritorno: me stessa. 

Perché il tornare non implica necessariamente uno spostamento fisico, un dirigere i propri passi verso il punto di partenza. Piuttosto un ritrovarsi, un tornare lí dove è giusto restare, con quella parte di noi che sta sbocciando e che non possiamo più ignorare. Ci sono voluti 730 giorni per capirlo: che sono già tornata, ma che non sarà l’ultima volta. 

Ho imparato che si può vivere in case per dodici. Che la solitudine fa bene, ma scontrarsi con la diversità cambia la tua visione del mondo. Che la dieta sana ed equilibrata rigenera l’organismo, ma il cibo spazzatura aumenta gli anticorpi.

In 730 giorni se qualcuno mi avesse voluta davvero, lo avrebbe fatto. Le scuse servono soltanto a giustificare un non volerti abbastanza nonostante tu non gli abbia mai chiesto il perché. L’ho capito soltanto adesso.

730 giorni in cui ho imparato ad amare e detestare. A convivere con i sensi di colpa ed acuirli facendo una corsa al parco o piuttosto ripulire il frigorifero di tutti gli yogurt scaduti che avevo conservato per pigrizia. 

Troppi giorni, forse, per capire che quello che siamo lo dobbiamo solo a noi stessi.

Avrei voluto portare il mare con me, ascoltare il rumore delle onde, annusare l’aria fresca. Non ho potuto. Ma ho costruito 730 giorni, in cui mi ci sono tuffata, ne ho ascoltato ogni sussurro, ho annusato ogni profumo. 


730 giorni, e sentirli, tutti. 

martedì 21 luglio 2015

Non voglio essere single, voglio stare insieme a te.

Voglio che tu esca a bere una birra con gli amici, e che fra quelli ci sia anche io. Perché un tempo avevo imparato a rincorrere le persone, a vivermi l’altro soltanto a singhiozzo per non ubriacarmene troppo, avevo la pazienza di aspettare e di lasciare che fosse l'altro a decidere sia il come che il quando. Poi ho capito che chi si vuole sul serio non teme le attese, ma nemmeno se le crea forse.

Non pretendo che appena svegli tu mi riempia di discorsi, e nemmeno che prepari un caffè. Dovresti saperlo che prima delle dieci il mio sguardo è assente, le mie orecchie sorde, ed il mio palato poco ricettivo. Poi, sono sempre in ritardo. Ma vorrei conoscere i tuoi piani, non per farne necessariamente parte, ma per avere la possibilità di pensare a cosa tu stia facendo e magari dove. 

Non occorre che tu mi racconti i dettagli delle serate trascorse con i tuoi amici, né desidero ricevere messaggi nel cuore della notte dettati dalla sbornia. Non avrebbero senso, a meno che tu non colga quell’occasione per dirmi la verità: che sono la donna della tua vita. Ma in quel caso ti chiederei di ripetermelo mentre mi spalmi la marmellata su di una fetta biscottata a colazione, mentre cerco l’ultimo paio di calzini perso in lavatrice, quando ci sediamo per cena e tu mi prendi la mano perché temi che il piatto scotti e che io mi possa bruciare.

Non voglio andare in nessun altro luogo in presenza di altri. Che sia anche per fare l’amore a bassa voce. Vorrei godermi lo stare insieme ad altri, dove negli “altri” sei compreso anche tu, e l’ “insieme” siamo noi due.

Non voglio immaginare niente soltanto per il gusto di farlo. Voglio mettere un mattone alla volta e desidero che tu faccia lo stesso: quando la realtà tradisce l’immaginazione significa che non ci abbiamo creduto abbastanza. E voglio che tu mi sorprenda ogni giorno, non con cose grandi, ma con i piccoli dettagli quotidiani che mi regalano quella che é veramente importante: lo stare insieme, nonostante tutto.

Non desidero fare cose che non sarei stata in grado di realizzare in compagnia di qualcun altro. Ma voglio fare tutto quello in cui sarei riuscita lo stesso, da sola, ma è con te che ho scelto di condividerle perché con te ho una ragione in più per non avere paura.

Voglio che tu mi stringa forte, quando non me lo aspetto, e che tu non lo faccia quando lo merito meno, per comprendere il valore di ogni tuo singolo abbraccio.

Desidero che ciascuno segua il percorso della propria vita, ma che tu mi ci metta dentro in ogni scelta importante. Perché ci siamo scelti, nella routine come nel cambiamento. E desidero tu mi chieda di partire, ma soltanto dopo che tu mia abbia chiesto di restare.

Non desidero niente di complicato. Niente che mi imponga di farti mille domande a cui tu risponderai in silenzio, lasciando a me l’abilità di capire. Voglio essere libera di farne tante e di ricevere altrettante risposte. Perché esiste una comunicazione sensitiva che spesso necessita di conferme da quella verbale.

Non occorre che tu mi dica quanto sono bella davanti agli altri, né in qualsiasi occasione. Non lo sono appena sveglia, né quando rincaso sudata dopo aver rincorso l’ultimo vagone del treno alla stazione. Basta che tu lo faccia quando siamo soli e al momento giusto, perché sará la verità. Desidero che tu non mi faccia camminare davanti, né indietro, ma affianco a te, perché tu mi possa proteggere.

Voglio pianificare e realizzare, per poi progettare ancora, come un turbinio di creazioni che non finiranno mai fin quando esistiamo noi. 

Voglio esserti amica, ma che tu ne conosca il confine, per ricordarti ancora l’amore e la passione che ci lega. Non voglio che tu ti senta costretto a restare, né tanto meno a tornare. Voglio che tu ti senta libero di scegliere e per questo tu scelga sempre me, ogni giorno, capendo che il tornare non implica necessariamente uno spostamento fisico, ma un ritrovarsi nell’altro senza nutrire il bisogno di voler essere altrove, per conoscere ogni volta qualcosa di sé che non si conosceva. Tornare ogni giorno perché non ti basta mai.

Vorrei avere la possibilità di scegliere di stare da sola, ma di non farlo, perché è con te che ho deciso di stare. Sei tu la mia libertà: quella di amare.

domenica 19 luglio 2015

Quando torni?

Quel rumore fioco emesso dai tasti della mia tastiera, costante, che talvolta si prendeva delle pause per tornare indietro o proseguire, ad un certo punto si è arrestato. Conto i caratteri, faccio un respiro, guardo fuori dalla finestra: ho finito. È il primo pensiero che la mia mente sia stata in grado di partorire, mentre con gli occhi rossi ed un accenno di sorriso che riuscivo a scrutare attraverso lo schermo del computer, lo chiudevo per non pensarci più. Ancora con il fiatone, come se avessi fatto una corsa nonostante non ci fosse stata in fondo alcuna fretta.

Eppure sentivo dentro di me quel tremolio che mi imponeva di continuare e non perdere nemmeno un minuto prezioso. Ho finito, l’ho fatto di nuovo, e questa volta nemmeno tutto d’un fiato, per questo forse avevo fretta: non avrei di certo disperso i pensieri ma non volevo raffreddarli. Volevo fare tutto quando il fuoco fosse ancora caldo.

Ma questa volta non mi sono seduta ritagliandomi uno spazio dalle pareti rosa senza alcuna scadenza giornaliera. Le pareti erano bianche ed il soffitto più basso, e spesso, pur perdendomi tra le ore che scorrevano, ad un certo punto dovevo fermarmi. Non ho immaginato come potesse andare a finire, né chi metterci dentro che desse forma ai caratteri che seguivano al rumore della tastiera. Sapevo già come doveva andare a finire, le storie le conoscevo già. Ho immaginato, ma prima ho parlato con la gente, le ho conosciute, in parte. Non ho scritto tutto d’un fiato, mi sono presa del tempo. Dopo il lavoro, prima di fare la doccia, spesso in metropolitana. Non avrei avuto il tempo di concedermi quasi completamente come era già accaduto.

Ma ora che le mie dita hanno già scritto di altri, tocca a me rispondere a quella domanda che a questi ho formulato: Quando torni?

Credevo che ciascuno di loro potesse fornirmi degli indizi per provare a mettere insieme, come in una ricongiunzione di punti, quella che poi sarebbe stata la mia. Ma quelle sono le loro vite, le loro risposte. 

Ho puntato l’attenzione sul quando, e ad essere onesta non sono stata in grado di segnare alcuna data sul calendario che ponesse fine alla mia permanenza in una terra che non è la mia, ma a cui ho imparato a concedermi come se lo fosse. Allora ho cerchiato il verbo tornare, quasi come a spremerlo per carpirne l’essenza, credendo ci fosse un significato oggettivo da non lasciare alcun beneficio del dubbio. Ma non l’ho trovato.

Cosí ho pensato che forse non ci sia alcun luogo fisicamente esistente che ci imponga di tornare o anche di restare, se non siamo noi a crearlo. Ed io probabilmente non ho mai concesso alla mia mente di farlo, o almeno non del tutto e non nei modi precostituiti. Perché ho sempre creduto che ci fosse un luogo in cui non esistono orologi né calendari, in cui possiamo creare e disfare senza il bisogno di spostarci, in cui ci si perde, si resta e talvolta si torna. Siamo noi quel luogo in cui è sempre possibile ridisegnare il paesaggio, dare curve diverse ai sentieri, plasmarli così come il cuore ci impone di fare o non fare. Quello in cui a volte ci si perde, o basta restare per tornare. 
Perchè il tornare non implica necessariamente voltarsi all’indietro e dirigere i propri passi verso la direzione di partenza. Riscoprirsi, mettere ordine, reinventare: anche questo può assumere le parvenze di un ritorno, quello che ha come meta non un luogo fisico, ma una condizione, quella di star bene con se stessi, ed un volto, il nostro. 

Allora si può tornare, sempre, ed ovunque ci troviamo.

Perchè a volte tornare non significa per forza abbandonare, ma anche restare. Era a me alla fine che toccava rispondere a quella domanda per chiudere il cerchio, un grande vero e proprio capitolo che ho tentato di racchiudere in tanti. 

Quindi rispondo che non torno, perché in verità sono già tornata. E probabilmente non sarà nemmeno l'ultima volta.