giovedì 31 gennaio 2019

Gary, Cigarette


Era una di quelle domeniche pomeriggio da starsene in casa, quando fuori c’è una pioggia torrenziale che sembra non avere alcuna intenzione di smettere.

Avevo promesso ad una persona che saremmo andate a vedere una mostra fotografica, così, non sapendo non tener fede alle promesse, ho deciso di sfidare la pioggia e la pigrizia.
Lei è una di quelle persone che adora l’arte e che avrebbe osservato ogni fotografia per dei minuti, così da non perdere alcun dettaglio. Una di quelle che poi avrebbe selezionato il miglior scatto, basandosi sulla giusta angolazione e sulla luminosità perfetta.
Poco prima di arrivare alla mostra ho pensato a tutto questo e anche che, in effetti, non sono mai stata un’assidua frequentatrice di mostre fotografiche.

Dinanzi ad ogni scatto tutti sembravano assumere lo stesso atteggiamento contemplativo: spalle curve, testa in avanti, ginocchio destro leggermente piegato, braccia conserte ed uno sguardo assorto. Per molti il primo passo era leggere la descrizione, per poi posare immediatamente gli occhi su quello scatto, quasi come a voler testare se la nota combaciasse con quello che gli occhi erano in grado di osservare, quasi come a voler trovare una verità.

Così, una dopo l’altra, le ho osservate tutte. Fin quando ho posato lo sguardo su una in particolare. Ancor prima di leggere chi fosse l’autore dello scatto e chi il soggetto rappresentato, ho avvertito una leggera commozione che prima di allora non avevo mai provato. Non ne capisco di fotografia, per cui non avrei saputo dirne di più, ma è come se in un attimo fossi riuscita ad oltrepassare la cornice e ad entrarci dentro. Libertà, è stata questa la sensazione che ho percepito al primo sguardo, quella che provi quando prendi del tempo per te stesso e cominci a pensare alle cose belle della vita, quelle presenti, passate o che arriveranno. Quel senso di liberazione che sa di via di fuga, quello in cui di tanto in tanto, senti la necessità di rifugiarti, che ti ricongiunge ai bisogni celati, che ti spoglia di tutto per riconsegnarti in cambio la tua identità.

Gary, Cigarette. È così che è stata intitolata la fotografia, scattata da Kono Konowiecki.
L’autore incontra Gary, il soggetto raffigurato, nel deserto della California. Indossa dei pantaloni lunghi, è a dorso nudo e fuma una sigaretta. Konowiecki gli chiede di chiudere gli occhi e di pensare a ciò che più gli manca. Successivamente, Gary dirà di aver pensato al fratello lontano, che non vedeva da anni. Si vede, in effetti, che Gary pensa a qualcuno di importante. Perchè il suo volto è disteso, ma triste. Sembrava quasi che in quel momento stesse tirando un sospiro di sollievo, come se quello riuscisse a ricongiungere l’immagine nitida del suo presente con un’altra sfocata del suo passato, e al contempo immaginare un futuro in cui le due potessero coesistere.

Ho pensato che spesso è opportuno preparare gli occhi a quello che si sta per vedere un attimo dopo, così da non avere grosse sorprese. Ma per tante altre cose, invece, basta sentirle. Sono quelle cose, circostanze, persone, per cui vale la pena andare oltre la superficie, sfondarla se necessario. Perché, alla fine di tutto, si vive anche di questo, soprattutto di questo: di sensazioni. Sono quelle cose a cui pensi di non essere preparato abbastanza ed invece alla fine scopri di esserlo forse più di tutti gli altri, perché riesci a sentirle.

Ed in città come queste, in cui il sentire appare sempre più raro, ho provato a farlo anch’io, lì dinanzi a Gary. È stato naturale, come se qualcuno mi avesse preso per mano e mi avesse chiesto di pensare alla cosa che mi manca di più.

Non saprei da cosa iniziare. Ma sono sicura che anche io avrei lo stesso volto disteso ma triste di Gary. Tirerei un sospiro di sollievo, quello che poi farebbe da ponte tra il mio presente, in piedi in una sala gremita, al mio passato, immaginando di ricongiungere le due immagini, un giorno.

Ho pensato ad una strada di sanpietrini, ad un’enorme finestra che si affaccia sul mare, ad una mano da stringere, e ad una voce che quasi sibilando mi dice che andrà tutto bene.

Non resto colpita dalle cose che appaiono più belle di altre.
Mi piace vederle da dietro le quinte, lì dove prendono forma.
Così, quando si palesano, diventano ingombranti.
Quelle che colpiscono fino a trafiggere, come un pugno allo stomaco.
Quando scopri che dietro un personaggio, c’è anche una persona, non una semplice sagoma.
Quelle che, oltre la superficie, hanno una storia tutta da raccontare, solo per chi la saprà ascoltare.

Chi lo sa, Gary, se un giorno a qualcun altro verrà rivolta la stessa domanda e penserà a noi.

domenica 6 gennaio 2019

Con il piede all'insù


L’altro giorno ero seduta in metropolitana accanto ad un uomo che sfogliava un libro sul linguaggio del corpo, “What your body says”.
Ho immaginato che si addicesse perfettamente ad un luogo come quello, dove il materiale umano da analizzare non è mai abbastanza e lascia spazio alla più fervida delle immaginazioni. Più che i loro corpi, mi piace fantasticare sulle loro storie: chi sono, dove sono diretti, cosa desiderano quando mettono la testa sul cuscino prima di addormentarsi?

Tuttavia, credo che quell’uomo sedutomi accanto non la pensasse come me. La sua attenzione era rivolta ad un’immagine di una donna con le braccia conserte e con la punta del piede rivolta all’insù. Sbirciando con la coda dell’occhio, ho letto nella descrizione che la punta del piede rivolta verso l’alto è un buon segno, significa che alla persona in questione piace ciò che sta ascoltando, si sente a suo agio.

Facile intuire quale fosse lo scopo di un uomo sulla quarantina quando ha acquistato un libro del genere, ma forse questa potrebbe essere un’altra storia: quella in cui la punta del piede rivolta verso l’altro diventa un’inconsueta pratica d’adescamento. O forse, è semplicemente quello ho voluto immaginare io, complice lo scarso sonno ed il rientro dalle vacanze natalizie che mettono sempre di cattivo umore.

Se a stilare la lista dei propositi del nuovo anno fossi tanto brava quanto a costruire castelli in cui farci abitare principi, principesse, fate e streghe cattive, probabilmente a quest’ora ne avrei già una e ne avrei almeno portato a compimento un paio. La verità è che però io e le liste abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale: è come se la vita ad un tratto si accorciasse, come se una porzione si presti a diventare necessariamente funzionale ad un’altra successiva. Non esistono parentesi, né punti, ma solo tante virgole. Come quando si legge un testo lunghissimo privo di punteggiatura e solo alla fine potrai tirare un respiro di sollievo, perché lo hai portato a termine.

Ho sempre preferito immaginare castelli che stilare liste: perché nei luoghi che la tua fantasia è in grado di disegnare sei libero ed il tempo non diventa un nemico da sfidare, perderesti in partenza. Diventa un compagno di viaggio, pronto a coccolarti quando la tua pazienza vacilla, ma anche a tirarti sberle quando ti dici stanco nel proseguire.

In quel castello fai entrare chi vuoi, forse chiunque, ma manterrai sempre la porta socchiusa perché non ti piace trattenere con forza chi non vorrà più farne parte. E alla fine andrai avanti lo stesso, senza mai rimpiazzare nessuno, perché ogni porzione di vita avrà avuto il suo senso, lì ed allora. Imparerai a rigenerare, te e ciò che ti circonda, perché quel castello non diventerà mai una prigione.

Immaginare castelli che non fossero costruiti con la sabbia ma che avessero pareti più spesse così da sembrare robusti come una qualunque lista è quello che ho fatto quest’anno: non sentirsi rinchiusi in un limbo con le gambe a mezz’aria, ma mantenere i piedi ben fermi sul selciato, così da potermi indicare una via da seguire. Non ha mai fatto parte di una lista di propositi, l’ho imparato strada facendo, non tralasciando alcuna via alternativa.

Se oggi qualcuno mi chiedesse di farmi un augurio, probabilmente sarebbe quello di concedermi qualche momento in più in cui rimanere a braccia conserte con la punta del piede rivolta all’insù. E questo non di certo per rimorchiare uomini in metropolitana che acquistano curiosi manuali per camuffare la scarsa abilità nel relazionarsi a qualcuno.

Mi auguro di provare piacere nell’ascoltare, di sentirmi a mio agio, in un castello aperto a chiunque, in cui farci restare solo chi conta.
In cui non esistono ritardi, ma semplici attese.
In cui spendere tempo in egual misura, per correre verso qualcosa, e per aspettare che qualcosa riesca a raggiungere te.
Quel castello in cui si nascondono sentieri che percorrerai silenziosamente e che d’un tratto ti imporranno di svoltare.
Quelli che dietro l’angolo nascondono piazze di piccole dimensioni, dove sentirai lo schiamazzo di bambini che giocano, il profumo del caffè, il rumore delle onde del mare.
E saprai già che dovrai sostare su di una panchina a caso, così da riuscire a farti entrare tutto dentro.
Non aspetterai che qualcuno, in quel castello, venga a salvarti, perché sarai in grado di farlo da sola. L’hai fatto tante volte ed ogni volta sapevi che non sarebbe stata l’ultima.

Per questo odi le liste, i resoconti ed i buoni propositi.
Preferisci tuffarti e cogliere l’inaspettato.
Quello che alla fine ti fa amare il tragitto che hai deciso di intraprendere e che ti sprona a sognare, sempre più in grande.