domenica 13 luglio 2014

A piedi nudi.

L'altro giorno passeggiavo e ho rivolto lo sguardo ad un gruppo di bambini.

A piedi nudi danzavano in una fontana, una di quelle con l'acqua che zampilla, in cui sarebbe vietato entrare, eppure reggevano tra le mani le loro scarpe con invidiabile naturalezza. I loro vestiti erano completamente zuppi, sui loro volti era disegnato un sorriso che avrebbe illuminato qualsiasi giornata dal tipico grigiore londinese.

E ho pensato che quella immagine di libertà sarebbe stata in fondo la stessa in cui rivedrei esattamente il mio concetto dei rapporti, dell'amore, della vita, di me da sola, di me con le persone. 

Non sono un'amante perfetta, non chiedo di esserlo. Commetto errori e lascio che gli altri li commettano per quel senso di umanità che considero sacro ed inviolabile, perché in fondo nessuno è un santo.
Considero i dettagli parte inviolabile di ogni rapporto, ed è per questo forse che la scarsa premura dell'altro nel realizzarli dando loro un peso pregevole, rischierebbe di compromettere tutto. E' per questa stessa ragione che è sui dettagli che sarei disposta addirittura a porre le basi di quel niente che si tramuta in tutto quello che basta. Rido tanto, ma piango altrettanto. Rido per quello che mi concedono, piango per quello che vorrei e che mi viene negato. Talvolta sono infantile, perché ogni donna nel suo piccolo lo é, qualsiasi età abbia: è la nostra debolezza, ma al contempo, anche ciò che ci rende più forti. E mi impegno per creare le condizioni per la felicità degli altri, anche se questo significa sacrificare la mia. E' il mio mestiere: riparo cose.

Ma la verità è che a noi donne non si perdona niente. Ogni errore, anche il più irrisorio, avrà la stessa entità di una macchia d'olio su dei pantaloni di cotone. E ci viene chiesto di dimostrare sempre qualcosa, e se non ce l'abbiamo, il nostro orgoglio è come se ci imponesse di inventarcelo, anche se questo significherebbe prendersi cura di rami oramai secchi, far nascere germogli i cui semi sarai disposta a piantarli da sola, senza che l'altro sia disposto a raccoglierli, talvolta nemmeno si accorgerà dell'attività che hai cominciato. 

Talvolta è come se a noi donne venisse chiesto di assistere ad un sport che non ci appartiene: quello del tirare la corda, sin quando i fili così assottigliati si intrecciano, ad un passo dallo spezzarsi. Ci viene chiesto di restare nel silenzio di una stanza i cui muri implorano di lasciarla. Ma la richiesta peggiore è sempre la stessa: fare la cosa più giusta.

Ed io quest'oggi ero ad un passo dal commettere la più grande giustizia verso me stessa. Sarei scesa per strada scalza, avrei raggiunto quei bambini e mi sarei tuffata completamente nelle acque di quella fontana, senza temere un raffreddore, né di come gli altri mi avrebbero descritto, né avrei temuto divieti. Mi ci sarei tuffata proprio per quel senso di proibito, perché siamo umani e non ci è dovuto fare sempre la cosa più giusta, mai. Ciò che vogliamo, anche contro le aspettative degli altri, é la cosa più giusta, sempre. Avrei goduto della stessa spensieratezza, di quella libertà che in fondo fa parte di me, che è un tuffo nella mia intimità ed in quella di chi mi è accanto, così, senza nemmeno far troppo rumore. Con i vestiti ancora bagnati avrei corso anche sotto la pioggia, annusandone il profumo che mi manca, per aspettare che il cielo si rasserenasse per dar spazio ad un tramonto in cui l'arancione dell'orizzonte si tinge al rosa di quelle nuvole sempre più piccole.

Era tutto pronto. Mancavo soltanto io.

lunedì 7 luglio 2014

Promesse.

E poi pensavo a questa cosa di farsi promesse.

Quelle che facciamo ad altri e nel frattempo anche a noi stessi.

Del tipo da-lunedì-evito-i-carboidrati, da-domani-vado-a-correre, sarò-più-paziente, farò-come-dici-tu, cerchiamo-di-mettere-un-punto-fermo. 
Pensavo a quelle che prendono forma incastonate tra vocali, consonanti e punteggiatura, che ci impegniamo ad inculcare nella nostra mente, ma che poi falliscono miseramente, come se in effetti l'incastonatura fosse poco credibile, come se mal si sposasse con ciò che vogliamo.

Eppure talvolta ci capita di vivere di promesse, di affidarci a loro come quando ci lasciamo influenzare dall'oroscopo settimanale.

Ma la verità è che sono solo parole: vocali, consonanti, poche virgole, ma nessun autentico punto fermo.

La verità è che ci facciamo incantare da cosa sembra, da cosa scegliamo di vedere o ascoltare, mai da cosa è e da cosa realmente c'è vedere o da ascoltare.

E allora vivremo di frasi dette a metà, di gesti spezzati, di voglie represse, di silenzi in un turbinio di voci rotte, di promesse non mantenute.

Perché la verità è che il chiedere promesse è l'azione più insensata al mondo. E' che ci culliamo in gesti che nulla hanno a che fare con ciò che veramente vorremmo.

E' che le promesse sono così: come polvere che tentiamo di raccogliere in un pugno, che man mano cede per la forza del vento che porta via con sé ogni piccolo granello. Perché la verità è che non basta farsi promesse, agire é sempre stata l'unica cosa che conta. Quanto l'amore, la felicità, la vita.



giovedì 3 luglio 2014

339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

Sono trascorsi 339 giorni. Pressappoco 8136 ore.
Eppure da quando ho chiuso la porta di casa, con la mia valigia rossa, ed una mente spoglia di ogni aspettativa, sembra ieri.
Ma adesso sento che sia arrivato il mio turno. Sento di dover fare un resoconto di questi 339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

L'ho capito quando uscendo di casa, avrei voluto svoltare l'angolo ed imbattermi nel mare. Vederne anche uno scorcio tra un blocco di cemento ed un altro. L'ho capito quando avrei voluto gridare, ed invece dovevo sorridere. L'ho capito quando ho avuto paura, ed ho dovuto creare un'altra parte di me, quella che non conoscevo, che si è anteposta a quello che ero. L'ho capito quando avrei voluto lasciare, ed invece sono restata, come incastrata tra due cabine telefoniche. L'ho capito quando avrei voluto pronunciare parole diverse da quelle che il suono della mia voce emetteva. L'ho capito quando sono tornata al quel 29 luglio del 2013 e guardandomi allo specchio mi sono vista diversa.

Sono partita come tanti, con la prima low cost disponibile.
 L'affluenza dei giovani, in maggioranza italiani e spagnoli, che ogni mese scelgono Londra con slancio ascetico, è notevole.  Non è chiaro se stiano fuggendo dall’Italia o se è irresistibile il richiamo della metropoli con tutte le sue leggende. Non lo sanno neppure loro. Si mimetizzano alla dogana con definizioni di circostanza. Studente. Ragazza alla pari. Turista. Artista. Sembra quasi paragonabile allo sbarco dei clandestini a Lampedusa. Solo che qui al posto dei gommoni, ci sono i voli low cost. Ma il costo del biglietto non costa quanto tutto ciò che dovrai affrontare, sudare, costruire, forse ottenere, una volta atterrato in terra d'Albione.

Dire che quando sono arrivata non avevo niente, è errato. Avevo me stessa, ed è da qui che ho cominciato. Dopo 14 giorni sono riuscita ad avere una prova nel ristorante in cui tuttora lavoro: il mio mezzo di finanziamento, per l'affitto, ma soprattutto per l'obiettivo su cui ho scelto di puntare solo dopo due mesi che ero a Londra, dandomi il tempo di capire chi ero e dove volevo andare. Come dice Shakespeare: "Sappiamo chi noi siamo, ma non sappiamo chi potremmo essere". E la mia fantasia ha di gran lunga superato la mia aspettativa.

Ma Londra non è il Paese dei Balocchi, né la terra promessa. E' una città grande in cui noi immigrati ci culliamo in una solidarietà sottile, sottesa alla condivisione di aspettative importanti, tra cui quella un giorno o l'altro anche di tornare.
E' una città che ti vuole pronto, in cui sono ammessi sbagli solo se avrai la modestia di perdere e la costanza di ricominciare. E' una città che ti vuole coraggioso, astuto e caparbio. E' una città in grado di deluderti come nemmeno il peggior uomo sulla faccia della terra, ma di regalarti tanto se avrai pazienza e generosità nel darti completamente, anche oltre quello che sapevi di possedere.

Pensavo a quanto sia una città in grado di disumanizzare. Non riuscirai a capire quando sia avvenuto, ma diventi un numero, utile ma mai indispensabile. Lo sarai quando aprirai la porta di casa e ti camufferai tra la gente che corre in metropolitana o per strada consumando il proprio panino, scansando i passanti, ed anche te. Lo sarai quando andrai a lavorare, perché la tua forza fisica basterà lì ed allora perché utile, ma mai per il tuo nome, il tuo viso, il tuo modo di fare. Sarà paragonabile a quella di chiunque altro. Come una cesta con tanti numeretti da pescare: l'uno o l'altro è indifferente. Lo sarai per autodifesa perché prima o poi dovrai dire "arrivederci", perché in una città che corre, a correre sono gli istanti così come le persone che scelgono di andare via.

Questi 339 giorni e 8136 ore racchiudono il bello ed il cattivo tempo. Il dolce e l'amaro. La delusione e la soddisfazione. I saluti e gli abbracci. Il desiderare ed il rinnegare. Il volere esattamente il contrario delle proprie azioni ed il tentare di scardinare muri che non si riveleranno altro che tali. Il sudore e le aspettative. Il guardare avanti ed il restare con un piede accanto alla porta per lasciare un piccolo spiraglio di riapertura. Le persone ed i fuochi di paglia. I rapporti e quelli che chiamo solo numeri. Solitudine. Paura e voglia di vincere.

Questi 339 giorni e 8136 ore raccolgono me stessa, a Londra, la mia.




martedì 1 luglio 2014

E poi fuori c'era il sole.

Sono alla guida di una macchina. Cerco di tenere il controllo, ma sembra quasi che i comandi non rispondano. Tento di frenare, invano. Allora lascio che sia la macchina a portarmi verso mete inesplorate, cercando di mantenere una velocità moderata.

Le strade sono larghe, sembrano quelle delle praterie americane, dove ogni tanto spunta una casetta che sembra quasi deturpare quel paesaggio incontaminato e quella surreale desolazione che sembra accompagnarti sulle note de La Vie en Rose, che sa di una malinconica solitudine che paradossalmente però non ci lascia soli.

Percorro pianure, dossi, mi ritrovo su colline che in salita ed in discesa riesco ad attraversare con la medesima andatura. Fin quando la macchina mi conduce in un dirupo e di blocco si spegne.

Resto sola ed impaurita per pochi secondi, fin quando alla ricerca di qualcosa che potesse farmi proseguire, trovo dei binari e sento il fischio di un treno in lontananza. Non ricordo quando e come ci sia salita. Sta di fatto che mi accomodo in uno dei vagoni. Sono sola, non c'è anima viva, come se quel treno stesse trasportando soltanto me, con i vestiti sporchi di terriccio, ed i capelli arruffati.

Fin quando entra lui, che mi si siede di fronte. Mi guarda ed anch'io lo guardo. Avrò forse pensato di poter proseguire il viaggio insieme a qualcuno, perché quello sguardo posatosi su di me mi avrà forse fatto pensare di essere coccolata, quasi al sicuro.

Poi ad un certo punto guardiamo fuori, ed i finestrini cominciano pian piano a bagnarsi. Gli schizzi di pioggia sono fitti ed inarrestabili, ma delicati, senza lasciar prevedere alcuna tempesta violenta.

Allora lui mi prende le mani e mi dice di stare tranquilla, perché tutto andrà per il meglio, perché lui non mi avrebbe mai lasciato sola.

Nel momento in cui tentavo di far mie quelle parole, di raccoglierle dentro di me forse per riproporle, per dire al capotreno di non fermarsi più, ma di proseguire perché non volevo che nessuno scendesse ad una delle prossime stazioni, mi sono svegliata.

Ho aperto gli occhi e ho realizzato di non aver materialmente guidato nessuna macchina. Non ero finita in alcun dirupo, non ero salita su nessun treno, nessuno mi aveva stretto le mani dicendomi che non sarei stata sola. E poi fuori c'era il sole.

Eppure sentivo che era reale.