martedì 30 aprile 2013

Vogliamo essere diverse, ma siamo tutte uguali.

Ci sono sere che ti interrogano come fossi per l'ennesima volta una studentessa impreparata.
Quelle sere che ti rivolgono domande a cui tenti di dare risposte guardando ovunque tra le pareti bianche della tua stanza che ridipingeresti di verde, come la speranza. Quella speranza che poi affoga tra le piume del cuscino del tuo letto, per riaccendersi come la luce fioca sul comodino che ti permette di finire le ultime pagine di un libro oramai impolverato che attendeva quasi con trepidazione che finissi. Sì che finissi per cominciarne un altro. Magari impiegassi lo stesso entusiasmo che impiego per cominciare a sfogliare le pagine di un nuovo libro che trovo interessante anche con gli uomini. Conosco soltanto la parola fine. Conosco a memoria le parole di circostanza che potrebbe dirmi un uomo per interrompere un rapporto che molto spesso l'ho zittito per precederlo, anche se questo significava facilitargli il suo gioco, ma complicare il mio. Conosco il rumore delle porte che sbattono, l'angoscia che quasi si cristallizza nel silenzio di un telefono muto. Non so perché abbia imparato a conoscere tutto questo soltanto, in fondo se c'è una fine ci sarà stato sicuramente anche un inizio, ma non me lo ricordo. No, io gli inizi non li ricordo mai, perché in fondo non li so vivere. Riesco a sentire ogni cosa, eppure gli inizi non li sento quasi più, né ascolto con attenzione il cigolio dell' apertura di una porta. Sento soltanto quelle fini che mi trascinano su carboni ardenti costringendomi a denti stretti a sopportare l'ustione. Forse consapevole del fatto che tutto è destinato a finire, prima o poi, è come se dell'inizio non godessi, quasi come se aspettassi la fine con l'orologio alla mano, facendo il conto dei giorni. A volte ho contato fino a 100, per altre è bastata la prima decina. E' che forse questo desiderio innato di noi donne di essere qualcosa di speciale, qualcosa che sia diverso, ci riduce ad essere in fondo tutte uguali: ci spegniamo nel vortice delle paure rincorrendo una fine prima ancora che ci sia stato un inizio.

Un soffio di sincerità.

Credo che la sincerità non sia un gioco villano per maschi e femminucce, non sia uno scudo dietro cui difendersi dopo aver sporcato il tuo viso di parole veritieramente amare lasciando soltanto a te scegliere il miglior modo per ripulirti. Questa è un'inesatta definizione di sincerità che puzza di una vigliacca menzogna. Credo sia piuttosto una dote che si poggia su altre, una dote che si serva di modi che dovrai scoprire strada facendo, cominciando ad appartenerti solo nel momento in cui si sceglie di essere veri uomini o  vere donne. Quando immagino che figura potrebbe avere una dote penso ad un soffione, perché la immagino delicata, silenziosa, leggera al punto da farsi trasportare dalla forza del vento. Nell'immaginario collettivo c'è questa idea che una persona sia sincera soltanto quando sia in grado di sputarti in volto ogni verità, dalla più dolce alla più meschina. Perché forse si cerca la sincerità nelle parole, quando invece basta sentirsi anche senza parlare. Perché forse le persone sincere si guardano senza dover necessariamente dirsi proprio tutto, perché in uno sguardo hanno già capito ciò che le parole forse complicherebbero. Perché c'è chi ama attribuirsi questa dote pur gestendo pesantemente e rumorosamente le parole. Ecco perché mi piace immaginare che la sincerità abbia le stesse caratteristiche di un soffione: delicata, silenziosa, leggera. Come quando riuscirai già a riconoscerlo tra le tinte variopinte dei fiori che colorano una distesa di verde, senza mai tradirti perché è l'unico fiore a possedere le caratteristiche che avrai imparato a sperimentare. Come quando lo toccherai delicatamente per il suo essere così fragile, per poi lasciarlo andare in un leggero soffio spinto dalla forza di un vento che nel suo silenzio ti riconcilierà alle verità nel modo più autentico. Come la bellezza, quella vera, quella che non fa rumore. Quella che toccherai delicatamente sapendo che nonostante possa pungerti non ti farà sanguinare per sempre. Quella che non ha nulla a che vedere con un dire la verità soltanto perché non si è più disposti a mentire.

domenica 28 aprile 2013

Sentirsi.

Sono stata sempre attratta dagli opposti. Quel nero che si accostava al bianco, quel freddo che credevo avesse intiepidito l'afa, quella razionalità che accanto alle pulsioni del cuore si sarebbe ammorbidita e al contempo liberato il cuore dalle sue catene. Ma proseguendo intuivo che il nero ed il bianco non si sarebbero mescolati a lungo così da tendere al grigio, che non ci sarebbe stata alcuna temperatura mite come conseguenza del contemperamento fra freddo e caldo, né che la ragione potesse succhiare un po' del sangue del cuore o che quest'ultimo facesse la sua parte ammorbidendo la prima. Sono sempre stata attratta dagli opposti, ma oggi capisco che ho sempre sbagliato. E sbagliavo soprattutto quando non modificavo le mie scelte meravigliandomi che il risultato fosse in fondo sempre lo stesso, allungando la lista dei miei errori, come quasi un post it da attaccare al frigo come fosse una lista della spesa da non poter dimenticare, tra cui inserivo anche me stessa. Ho sempre sbagliato e solo oggi lo capisco. Perché soltanto oggi capisco che forse basta sentirsi, sì. Probabilmente una percezione così delicata, silenziosa, naturale quanto insidiosa, basterebbe per rivolgere lo sguardo altrove ed interrompere il ciclo degli errori che partoriscono paure. Sentirsi nelle parole dell'altro quasi come fosse un eco della tua voce che rimbomba tra le umide mura di una caverna, sentirsi in uno sguardo che si posa come rugiada su dei petali freschi appena sbocciati, sentirsi in delle tenere movenze. Sentirsi parte di qualcosa che riuscirai a condividere, perché avrai le giuste lenti per osservarlo e scoprirlo non definendolo mai opposto ed irraggiungibile. Sentirsi nell'altro come due anime avvolgenti, prima di essere due corpi che si compenetrano. E tutto questo non lo si decide a tavolino, credo che questo sia la caratteristica di ciò che definirei parte di una "naturalezza silenziosa". Capita di sentirsi, come capita che spunti un arcobaleno dopo una pioggia battente, come capita che la neve si sciolga per lasciar spazio a delle tinte variopinte dei fiori di primavera. Capita. Ci si sente. Ed è meraviglioso.

domenica 21 aprile 2013

Perché scrivere un libro?

Una sera, mentre mi stavo struccando, ho pensato ad una storia, a tre donne, a tre diversi modi di comunicare. Ho pensato ad una storia che potesse coinvolgere per la sua semplicità, la cui modalità di scrittura doveva trasudare spontaneità, forza d'animo, profondità. Ho pensato a Sofia, una giovane ventenne orfana, commessa in un negozio di fiori, blogger per diletto, con il mito della scrittura, l'unico modo che le consenta di esprimere se stessa. Ho pensato alla signora Parks, un'anziana donna rimasta vedova, dalle origini inglesi, trapiantata in Italia per seguire l'amore della sua vita, con la passione per la letteratura inglese, in particolare per Shakespeare, Dickens e Wilde, chiamando così anche i suoi tre gatti. Ho pensato alla signora Ada, una donna quarantenne eccentrica e dai facili costumi, cliente abituale del negozio di fiori in cui lavora Sofia, richiedendo il solito mazzo di rose bianche, destando profonda curiosità nella giovane per l'inevitabile contraddizione tra il messaggio di delicatezza e purezza impregnato in quei petali bianchi ed il fare sfacciato di quella donna. Ho pensato a tre generazioni, tre vite che potessero intrecciarsi, tre diversi modi di scoprirsi vicendevolmente, oltrepassando l'apparenza per cogliere l'essenza, scrutandosi, vogliose di emulazione, eppure non così diverse. Ho pensato a Sofia, Annie, Ada che in fondo non sono altro che la mia trasposizione su carta, i cui rapporti non raccolgono altro che il desiderio di vivere i rapporti nello stesso modo, silenzioso ma penetrante. E mentre pensavo, scrivevo. Scrivevo tra le pareti bianche della mia stanza, nel silenzio notturno, talvolta anche diurno. Scrivevo senza che nessuno sapesse cosa stessi facendo.
Qualcuno mi chiederà perché volessi scrivere un libro. Non perché avessi qualcosa da dire, figuriamoci. Né pensavo e penso tuttora di diventare una scrittrice famosa firmando autografi. Volevo semplicemente scrivere qualcosa che avesse la mia firma, un prodotto che fosse quasi come un figlio partorito dal cuore, lo stesso che d'impeto ha lasciato cadere le mie dita sulla tastiera. Poi un giorno ho pensato di spedirlo a varie case editrici, per evitare che il mio prodotto prendesse polvere. Non aspettavo nessuna risposta, mi interessava soltanto che il mio mondo ed il mio modo di comunicare arrivasse a qualcuno senza timore di alcun giudizio. Ma poi è successo che in una mattinata di sole ho ricevuto due risposte, una di queste da un'importante casa editrice che valutava positivamente l'opera e pronta per la pubblicazione, quasi fosse un premio per aver bistrattato paure ed insicurezze. Non chiedetemi cosa ho pensato, perché per la prima volta nella mia vita non ho pensato, i miei pensieri scivolavano tra le lacrime che corrugavano il viso senza che potessi far nulla per frenarle. E mentre piangevo, in me cresceva l'entusiasmo, un entusiasmo che sono riuscita a condividere con pochi, valutando quei pochi gli stessi che in fondo mi hanno da sempre sostenuto, quella famiglia vera in cui si condivide l'amore per i propri successi. Valutando ancora la proposta editoriale, ho pensato ad una frase da me pronunciata qualche giorno fa che diceva "una botta di vita sento di essere io quando non ho paura". Allora, forse, vale la pena far scoppiare questa vita, vale la pena scoppiare insieme a lei, nonostante spesso mi senta sola davanti questa piccola porta che è ancora socchiusa, che attende solo che io la varchi. Ma io, in fondo, non ho paura, perché le cose belle accadono soltanto se consentiamo a noi stessi di non averne. E quindi forse, per citare J. Lennon, potrei concludere dicendo che andrà tutto bene alla fine, e se non andrà, non sarà la fine.

mercoledì 17 aprile 2013

Temo chi non ha amici.

C'è chi ha paura del buio, dell'altitudine, dei luoghi affollati, degli scarafaggi.
Io ho paura delle persone che non hanno amici. Perché non conoscono il silenzio con cui ci si insinua in una vita, il rumore delle marce per procedere nell'attraversamento di quella strada impervia o scoscesa, la piacevole sensazione di conoscere senza mai stancarsi. Non conoscono il rosa di un'alba in cui sorgono i tuoi dubbi e le tue mille paranoie che troveranno sollievo nel rossore di un tramonto con cui verranno rimosse al sopraggiungere dell'imbrunire. Non conosceranno il movimento delle onde che cullano sulle note di una dolce ninnananna, calde come un abbraccio, fresche come la primavera, sussurri come echi che non smetteranno mai di rimbombare. Non conosceranno la parola casa. Non riusciranno a coniugare il verbo restare. Non assaporeranno la dolcezza di un affetto disinteressato. Non capiranno il significato di insieme e di bisogno. Non si sentiranno mai parte di qualcosa in cui la parola d'ordine è: condivisione, in cui si coglie la lucentezza di un sorriso come cenno d'intesa, in cui anche rotolare nel fango, insieme, diventa quasi più divertente, in cui si coglie un'inaudita bellezza nel rialzarsi, insieme, dopo che le onde del mare ti abbiano travolto. Non conosceranno il suono squillante di una A di amicizia e di amore. Non conosceranno la fatica che assume i toni del lavoro più leggero e spontaneo, nel coprire del fango di asfalto che diventerà una strada, la vostra, che sarà l'unico posto sicuro nelle notti più buie, quella che si percorrerà quando si avrà voglia di scoprire la verità. Non conosceranno il moto dilatatorio del cuore ad un ti voglio bene urlato o racchiuso nel più semplice dei gesti.
Ma ciò che più mi fa paura, sono le persone che parlano di amicizia pur non avendo mai sperimentato nessuno di questi aspetti, o avendoli a mala pena sfiorati. Di quelli ne ho il terrore.

Perché conosco soltanto un modo per vivere un'amicizia: esserci.

E' facile "stare", peccato che "esserci" sia un'altra cosa. Un verbo che sussume tutte le sfumature di colori, tutte le fragranze dei profumi, tutti i termini elencati. Un verbo che non si coordina ad alcun complemento, perché da solo basta.

sabato 13 aprile 2013

Che cos'è una botta di vita?

In un fiacco pomeriggio d'aprile, con l'intento di scrivere un post diverso dai soliti sermoni, ho rivolto a qualcuno una domanda: "Cos'è per te una botta di vita?"

Una botta di vita è uno stile di vita che si chiama "hakuna matata".

Una botta di vita è uno stato d'animo che si chiama: spensieratezza. 

Una botta di vita è agire avendo come unico metro di valutazione il piacere.

Una botta di vita è qualcosa che giunge all'improvviso cambiando il corso degli eventi, stampandoti in volto un sorriso, rendendoti l'animo leggero al punto che pensi "Che bella la vita!"

Una botta di vita è soddisfare una pazzia del momento.

Una botta di vita è la musica. Quando sono nervoso mi basta ascoltarla, poi siamo io e lei, il resto non conta.

Una botta di vita è la compagnia di una bella donna.

Una botta di vita è nuotare nelle acque gelate alle 5 del mattino, fare tutto ciò che sappia di trasgressione.

Una botta di vita è vivere un'esperienza indimenticabile che ti arricchisce, perché vivere la routine quotidiana ti riduce in stand by, lasciando a digiuno lo spirito, vuota la valigia della tua vita.

Una botta di vita è rischiare con qualcuno o in qualcosa, senza timore delle conseguenze.

Una botta di vita è qualsiasi cosa che non ti faccia pensare a quanto ti manchino un letto ed un cuscino.

Una botta di vita è quando l'adrenalina è l'unica tua energia.

Quello che provi quando qualcuno dimostra di tenerci particolarmente a te, questa è una botta di vita.

Una botta di vita è l'immagine di te che fai il primo bagno a mare, in acque ancora tiepide, dopo il trascorrere dell'inverno e scopri parti del tuo corpo di cui ti eri dimenticata.

Direi che nella vita quotidiana ci sono giorni in cui a volte ci dimentichiamo perché siamo qui. Seguiamo le indicazioni segnalate e ci dimentichiamo di godere la vita. Ma quando qualcosa come questa "botta di vita" succede è come se si è dormito per tutto il tempo e all'improvviso ti svegli!
Mia sorella ha recentemente dato alla luce il mio primo nipote. Quando l'ho visto per la prima volta mi sono reso conto subito di quanto possa valere la pena vivere. Sono stato stupito di vedere come qualcosa di così piccolo come un bambino possa regalare felicità a così tante persone. E' stata sicuramente una botta di vita e non ricordo di averne avute altre così grandi come queste.

Una botta di vita è un'amica che ti contatta strafatta di antistaminici a causa dell'allergia e ti domanda "Cos'è per te una botta di vita?"

Allora, condividendo tutte queste risposte cogliendone parte di ciò che per me rappresenta una botta di vita, vale la pena che anch'io risponda a questa domanda.
Per me una botta di vita è tuffarmi nelle vite degli altri e sentire splash, come fossi l'esploratore di paesaggi incontaminati, un sub che tenti di scoprire le bellezze nascoste di un fondale marino. Per me una botta di vita è scrivere un post in un fiacco pomeriggio d'aprile invece di scrivere la tesi. L'affetto e la costanza che impiegate tutti voi nel seguire il mio blog, anche questo è una botta di vita. Per me una botta di vita sarebbe apprendere la notizia della pubblicazione di un libro che hai scritto. Una botta di vita è piangere di felicità o ammalarsi di malinconia. Scoprire nelle persone una smisurata bellezza che si chiama rispetto, lealtà, autenticità: questa sì che è una botta di vita. Una botta di vita sono gli amici, quelli presenti, quelli che ti dicono ti voglio bene in una giornata in cui la noia fa da padrona, quelli che riscaldano con i loro abbracci. Per me una botta di vita è quando decido di partire con un biglietto di sola andata, con una valigia quasi vuota per lasciar spazio a tutto ciò di cui si riempirà, giornate di sole o di pioggia battente, esperienze, sorrisi, baci, carezze, le avventure più disparate, le emozioni, in una sola parola : persone. Una botta di vita è quando capisco di dover lasciare e vado avanti, quando lascio certa di essere seguita soltanto da ciò che conta. Una botta di vita sento di essere io quando non ho paura.
Ognuno, in fondo, può essere la propria botta di vita, quella che senti come il vento che si insinua nell'epidermide silenziosamente o generando un frastuono simile ad un "TRACK".


mercoledì 10 aprile 2013

Ad un "come stai" rispondo "bene, grazie".

Non ho mai cercato consensi perché piacere a tutti ad ogni costo lo trovo un atteggiamento puerile e poco intelligente, mai parlato con chi non mi andava di parlare perché credo così profondamente nelle parole come un qualcosa che in fondo ci distingue dall'essere animale, un tesoro di cui talvolta si ignora la preziosità, che non mi va di disperderle, mai domandato un formale "come stai" se della risposta me ne sarei comunque infischiata, mai detto due cose differenti a due persone diverse perché ho sempre creduto che nella mia asfissiante insicurezza si celasse la pretesa di soggiogarla esprimendo un pensiero che al di là della condivisione sarebbe stato il mio, un pensiero che nonostante tutto mi avrebbe definito, sebbene detesti quelle definizioni che divengono presto etichette perché non si ha tempo di scoprirsi. Non ho mai posto limiti, nemmeno al tempo. Non ho mai conteggiato il tempo trascorso con una persona potenzialmente interessante, mai osato bloccare il timer quando credevo che fosse abbastanza, mai incasellato le emozioni, mai schematizzato gli appuntamenti né pianificato i come ed i quando. E questo in un rapporto, dalle voci popolari, spesso viene definito un correre troppo, esser pesanti quando non occorre, bruciare le tappe. Io invece lo chiamo semplicemente passeggiare mentre un tiepido sole ti riscalda le gote perdendoti nell'armonia dell'altro a tal punto da allontanarti dal punto di partenza senza aver necessità di tornare indietro ma il desiderio di procedere oltre senza che questo abbia qualcosa a che vedere con un bruciarsi per poi spegnersi. Lo chiamo passeggiare sino a che il sole nascosto tra le colline lascia spazio all'imbrunire ma adori così tanto quella sensazione che non vuoi tornare, e decidi di restare, nonostante tua madre ti aspetti per cena. Lo chiamo viversi come se il piacere fosse un apostrofo tra due persone che dimenticano che esista un tempo. Lo chiamo, contrariamente alle voci popolari, lasciarsi andare alla leggiadria delle emozioni, pratica insolita per un animo pesante di banalità e congetture. Ci ho messo un po' a capire tutto questo, a comprendere che vivere di emozioni non è come insegnare l'inglese, allora è inutile che mi ostini a far capire cosa ci sia dietro un atteggiamento che fa poco scena, e non perché voglia rimanere sempre dietro le quinte, ma palesarmi solo ad un pubblico che capisca il mio linguaggio così da avere applausi sentiti, di vero cuore, non soltanto un meccanico gesto alla chiusura del sipario. Ci ho messo un po' a capire che mentre passeggiavo e godevo della bellezza del paesaggio, qualcuno trovava più bello tornare a casa per cena ed il sol pensiero di passeggiare ancora un po' gli suscitava un insolito affanno, giustificandolo con una corsa che in effetti non era mai avvenuta. Ci ho messo un po' a capire che viviamo di opposti, non intersecabili. E non voglio dire che il mio modo sia migliore degli altri, in effetti ho anche cercato di analizzarlo senza che nessuno mai cominciasse a studiare il mio, perché volevo capirlo. E se qualcuno, leggendo, si alzasse e mi dicesse cosa c'è di simile ad una vita, quella vera, dove è bello piangere di felicità ma anche ammalarsi di malinconia, dove è bello divorare gli attimi che dopo poco potrebbero loro sbranare te, in un'esistenza schematizzata, in cui si ha la presunzione di controllare le emozioni, di decidere al posto del tempo, di manipolare i come ed i quando, in cui si chiede come stai per educazione senza impiegare la stessa nell'ascolto della risposta, in cui non si apprezza il peso delle parole e la virtù del rispetto, io lo ascolterei comunque, ma sono certa che nessuno sia in grado di spiegare perché un campo fiorito su cui lo sguardo si perde senza scrutarne il confine sia più emozionante di un mazzo di rose preconfezionato e recapitato direttamente al destinatario. E allora alla vostra domanda del "come stai" non mi tocca che rispondere con il vostro semplicistico "tutto bene, grazie", anche se non è così, ma è l'unico linguaggio che riuscirete a capire, perché gli immensi campi fioriti vorrei calpestarli con chi è in grado di annusare il profumo dell'erba fresca senza paura di varcare il confine in una leggerezza che ha al colore delle viole appena sbocciate ed il profumo di libertà, pronunciando soltanto la parola "ancora". 

lunedì 8 aprile 2013

Le parole che non ho mai detto.

Ad un certo punto ho smesso di scrivere e ho cominciato a parlare. Ma ad un tratto ho temuto che le mie parole andassero in un'unica direzione, in quel vicolo cieco noto a tutti al di fuori di me, da cui tutti pian piano uscivano per prendere altre strade, restando sola in una strada che come fine aveva una caterva di mattoni posizionati in malo modo gli uni sugli altri, assorbendo montagne di parole, le mie, che faticavano a trovare un esatto allineamento, per poi evaporare attraverso le fessure di quei mattoni, raggiungendo le nuvole, che nel loro scomporsi e ricomporsi, lasciando che l'immaginazione disegnasse volti, sagome, figure strambe, non davano a me mai una risposta. E allora ho ricominciato a scrivere. Ho scritto tutto, forse troppo, ho scritto di tutti o forse di nessuno. Ho scritto pure di te sperando di raggiungerti nonostante la consapevolezza che tu forse non abbia mai letto una sola riga o che forse, mentre lo facevi, tu non l'abbia capito. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in luoghi troppo rumorosi, in cui le mie parole si sarebbero altrimenti disperse tra le altre senza lasciare alcuna traccia, come un foglio di carta gettato nel fuoco insieme agli altri per alimentare quella fiamma che sarebbe presto divenuta una montagna di cenere. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in quelle persone che all'ascolto delle mie parole dimostravano di non capirmi, forse di fingere addirittura di ascoltarmi. Ho scritto e non me ne pento, sebbene le mie parole non abbiano raggiunto quei luoghi che avevo prefissato come ultime destinazioni, perché alla fine hanno raggiunto me, una destinazione inesplorata quanto inaspettata ma di certo la più importante. Ed è per questo che ho smesso di scrivere con l'intento di raggiungere luoghi o persone in cui ho capito, solo con il tempo, che mi sarebbe stato vietato l'accesso, qualunque forma di comunicazione avessi scelto. Ed è per questo che ho smesso di osservare chi proponeva un linguaggio differente dal mio cercando di emularli, di quelli che si capiscono senza doverli decifrare, di quelli che però spesso io fatico a comprendere lo stesso. Ho smesso di specchiarmi in quegli occhi in cui non riuscivo ad immaginare nemmeno la mia immagine riflessa, di insinuarmi in luoghi in cui non avrei avuto il mio spazio nemmeno se l'avessi ritagliato in un angolo strettissimo, di cogliere risposte in dei silenzi che in effetti non dicevano nulla. Ho smesso di credere anche a te, perché tu sei rumore, sei il rosso di un tramonto che poco dopo lascia spazio alle scure tinte dell'imbrunire, sei il giallo delle foglie d'autunno, sei uno spazio ampio contornato da mura di cinta, io sono invece silenzio, il rosa di un'alba che cede il passo ad un nuovo mattino, un gelido inverno che si alterna con fresche primavere, uno spazio piccolo ma mai recintato ove è possibile che lo sguardo si perda senza scorgere la fine, ma nemmeno l'inizio. E quindi ho capito che talvolta dove non arrivano le parole che germogliano dal cuore, per sprofondare nello stomaco e risalire con estrema veemenza attraverso la bocca, non possono nemmeno quelle scritte aventi la stessa radice. Perché al di là di quale modalità si scelga, le parole arrivano se un cuore sia aperto abbastanza per coglierle. Spesso così aperto da sfamarsi persino di frasi leggermente sussurrate, talvolta addirittura di silenzi. 
Ma un cuore chiuso non riuscirà a recepire nemmeno le urla.

mercoledì 3 aprile 2013

Persone giuste. Momenti sbagliati.

Nel raccontarci la storia della "persona giusta al momento sbagliato" spesso ritroveremo il nostro alibi di ferro, catene ricreate dal nostro cervello che impediscono di essere profondamente liberi nonostante non ce ne si renda conto. Ma quando il nostro momento sbagliato sarà divenuto oramai un amaro ricordo sbiadito, cedendo il passo ad un momento che riterremo propizio, inciamperemo rigorosamente in persone sbagliate, non ricordandoci quasi mai che, in un passato prossimo o remoto, avevamo conosciuto una persona che avevamo definito giusta, non voltandoci mai per recuperarla, spesso non coltivandone nemmeno il desiderio. Ne collezioneremo così tante sbagliate da convincerci che la nostra vita sia nient'altro che un gomitolo inestricabile di errori. Non siamo mai lucidi abbastanza da poter fare un passo indietro, ricapultandoci in un passato che potremmo rendere presente ridisegnandovi i contorni, su cui passeggiare e lasciarvi le orme su quell'asfalto fresco. Mai abbastanza lucidi nell'ammettere di non saper amare la perfezione. Mai abbastanza coraggiosi nell'ammettere che l'unico errore è stato definire sbagliato il momento, mai lucidi abbastanza nell'ammettere che se c'era qualcosa di sbagliato era il non saper amare ciò che per noi sarebbe stato giusto, rincorrendo inesorabilmente chi aveva già sulla fronte il marchio di errore. Non siamo mai abbastanza obiettivi nell'ammettere che le persone giuste le abbiamo incontrate ma non le abbiamo volute e allora abbiamo scelto la strada del "momento sbagliato", mai lucidi nell'ammettere che possiamo anche noi, una tantum, essere l'errore di qualcuno, senza dover necessariamente riconoscere ad altri tale marchio con la presunzione di discolparci.
Non siamo mai maturi abbastanza nell'ammettere che non esiste un momento giusto o sbagliato, ma esistono soltanto persone che capitano in momenti che saranno sempre giusti se vorremmo inebriarci totalmente del loro profumo, tuffandoci nelle loro acque che potrebbero apparire calme nonostante le onde.

La verità è che ci vuole predisposizione per tutto, anche per darsi all'amore, anche per credere che chi abbiamo incontrato sia forse la persona giusta per ricominciare. E' strano come prima di parlare di emozioni, di quella più forte come l'amore, si debba riconoscere che anche il cervello faccia la sua parte. E' strano come l'amore possa rapire il cuore, solo se talvolta in fondo il cervello lo consenta, ed è incredibile come il più delle volte le false congetture del cervello risultino più penetranti delle melodie del cuore.
C'è chi la chiama mancata predisposizione, io forse la chiamerei talentuosa attitudine fallimentare dei rapporti, incapacità di emozionarsi perché si è profondi quanto un tappo di bottiglia, o semplicemente immaturità, quella che ti rende solo, muto, sordo e cieco al cospetto di tutto ciò che sappia di umanità.