Quelle sere che ti rivolgono domande a cui tenti di dare risposte guardando ovunque tra le pareti bianche della tua stanza che ridipingeresti di verde, come la speranza. Quella speranza che poi affoga tra le piume del cuscino del tuo letto, per riaccendersi come la luce fioca sul comodino che ti permette di finire le ultime pagine di un libro oramai impolverato che attendeva quasi con trepidazione che finissi. Sì che finissi per cominciarne un altro. Magari impiegassi lo stesso entusiasmo che impiego per cominciare a sfogliare le pagine di un nuovo libro che trovo interessante anche con gli uomini. Conosco soltanto la parola fine. Conosco a memoria le parole di circostanza che potrebbe dirmi un uomo per interrompere un rapporto che molto spesso l'ho zittito per precederlo, anche se questo significava facilitargli il suo gioco, ma complicare il mio. Conosco il rumore delle porte che sbattono, l'angoscia che quasi si cristallizza nel silenzio di un telefono muto. Non so perché abbia imparato a conoscere tutto questo soltanto, in fondo se c'è una fine ci sarà stato sicuramente anche un inizio, ma non me lo ricordo. No, io gli inizi non li ricordo mai, perché in fondo non li so vivere. Riesco a sentire ogni cosa, eppure gli inizi non li sento quasi più, né ascolto con attenzione il cigolio dell' apertura di una porta. Sento soltanto quelle fini che mi trascinano su carboni ardenti costringendomi a denti stretti a sopportare l'ustione. Forse consapevole del fatto che tutto è destinato a finire, prima o poi, è come se dell'inizio non godessi, quasi come se aspettassi la fine con l'orologio alla mano, facendo il conto dei giorni. A volte ho contato fino a 100, per altre è bastata la prima decina. E' che forse questo desiderio innato di noi donne di essere qualcosa di speciale, qualcosa che sia diverso, ci riduce ad essere in fondo tutte uguali: ci spegniamo nel vortice delle paure rincorrendo una fine prima ancora che ci sia stato un inizio.
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