giovedì 31 gennaio 2013

Crederci nonostante tutto.

Penso che ognuno possa sforzarsi di credere in qualcosa, ma spesso per quanto ci si possa imporre le nostre convinzioni saranno dettate dal bagaglio delle nostre esperienze precedenti che comprenderanno scelte di vita, circostanze che ci abbiano visto vincenti o sconfitti, persone che nelle loro piccole sfaccettature abbiano colorato la nostra vita di un nero come la pece o tinte variopinte come fiori di primavera.
Perchè per quanto ci si sforzi a porre il nostro io al centro di tutto come se ciò che c'è attorno non riesca nemmeno a sfiorarci, in realtà questo mondo esterno condiziona tutti, e direi, soprattutto i cinici che continuano a raccontarsi la storiella del "sto bene così, sono meglio di tutti voi, non ho bisogno di nessuno se non di me stesso, andate al diavolo! ", da cosa in fondo avranno mai potuto incamerare questa loro convinzione?
Se una persona viene idolatrata per un'intera vita dagli altri che continueranno attraverso frasi o atteggiamenti a dargli conferma di quanto sia bello, bravo, simpatico ed intelligente, quella persona, pur non avendo le doti millantate, se ne convincerà al punto tale da non pensar mai di essere invece qualcosa di diverso e magari se nella sua vita avrà avuto la fortuna di incrociare soltanto una o al massimo due persone che avranno voluto sfoggiare la loro idea contrastante, queste persone non saranno credute, o a limite saranno la classica eccezione alla regola, venendo catalogate come "persone sbagliate", "persone che non ti hanno compreso", perchè quella persona, avendo solo in rare occasioni ascoltato qualcosa di diverso, continuerà a pensare di essere sempre bello, bravo, simpatico ed intelligente, ma non perchè creda particolarmente nei propri mezzi, ma perchè in fondo non gli si sarà mai presentata l'occasione concreta di analizzarli, facendosi bastare la voce della maggioranza, essendo condizionato da tutto questo senza nemmeno esserne a conoscenza. 
E così se ad una persona per un'intera vita viene detto di starsene in silenzio, la stessa crederà che parlare non sia importante, o troverà altri mezzi per farlo quando ne avvertirà il bisogno che non sia il proferire parola. E così se tutti quelli che sono attorno a te ti ripetono quanto sia fallito te ne convincerai al punto da non credere di poter vincere mai o viceversa.
Se nella tua vita hai conosciuto persone che in te si sono avvolte come ad un lenzuolo profumato senza mai lasciarti andare e senza mai pensare di abbandonarti, dubiterai del fatto che molte persone invece siano capaci del gesto diametricalmente opposto a quello che invece a te è stato riservato.
Ma se invece nella tua vita hai sempre assistito in veste di umile spettatore o di indiscutibile protagonista alla precarietà degli eventi, ad assaggi prelibati che però non ti hanno mai visto sazia abbastanza, a persone che in te si sono avvolte come attorno ad un lenzuolo che poi non facevi a tempo ad annusare che aveva già perso il suo profumo, a persone che da nuove in poco tempo erano riuscite già a portarsi addosso la puzza di stantio, a persone che hanno pronunciato un "ti amo" e con la stessa leggerezza dopo pochi giorni hanno fermamente cominciato a negartelo, a persone che in punta di piedi o rumorosamente sono entrate nella tua vita per poi improvvisamente dissolversi nell'aria come bolle di sapone senza darti il tempo di chiedere spiegazioni perchè ti hanno in fondo imposto il silenzio che col tempo hai cominciato a farti bastare, in cosa potrai mai credere o non credere? Crederai nel poco che non basta mai, nella fugacità come un treno in corsa su cui farai a mala pena in tempo a salirci e per rischiare talvolta ti schianterai sulle rotaie, crederai che non ci si può sedere a tavola per ore alzandoti solo quando sarai sazio perchè sei sempre stato portato a miseri buffet dove l'unica prerogativa era semplicemente assaggiare, crederai che tutto ciò che apparentemente possa profumare di lavanda in breve tempo potrebbe trasformarsi nella peggior puzza che ti sia mai passata sotto il naso, le parole le ascolterai senza mai crederci fino in fondo, nemmeno gli abbracci riusciranno a dirti qualcosa, crederai che nessuno vorrà restare e che da tutti, nessuno escluso, potrai aspettarti qualsiasi cosa, anche becere ed ingiustificabili sparizioni ove addirittura il silenzio sarà così rumoroso da perforarti i timpani. Ma non ditemi che questo approccio alla vita sia normale. Non ditemi che il non avere nessuna aspettativa sia appagante, che il lasciare che sia senza mai stringere le redini sia gratificante, nè che dobbiamo aspettarci di tutto dagli altri, anche quello in cui non vorremmo mai credere che le persone siano in grado di compiere, perchè non è normale l'essere classificati come persone per i soli tratti somatici ma poi assumere le vesti di fantasmi o risultare più fastidiosi di merde di cani che si incastrano sotto le suole delle scarpe. Forse il miracolo si verifica quando riusciremo a non farci condizionare, ma probabilmente dovremmo annoverare tra le possibilità quella di isolarci dal mondo, spegnerci, svuotarci di tutto, attualmente non troverei una diversa alternativa. O è possibile che si verifichi quando riusciremo a credere in qualcosa nonostante tutto, ma è proprio il "nonostante" il gradino più alto da dover superare, perchè è come spiegare ad un cieco la sinuosità delle colline, la lucentezza di un cielo terso, la compenetrazione del rosa, del giallo, del rosso e dell'arancione che lascia spazio all'imbrunire. Ma credo che se qualcuno si armasse di buona volontà, restando per ore, giorni, settimane, anni, come se il tempo non fosse una priorità, a spiegare a quell'uomo affetto da cecità ciò che non ha mai visto, probabilmente pur non riuscendo a spalancare gli occhi comprenderà ed assorbirà ogni minuziosa descrizione, sino a pensare di aver recuperato la vista, nonostante tutto, perchè l'immaginerà ad occhi chiusi, ne percepirà i sapori, nè annuserà i profumi. E' questo il più grande miracolo che può un uomo verso un altro, e questo non sa di divino, ma è profondamente umano. Ed il punto è sempre lo stesso: dovremo dare agli altri la possibilità di inculcarci nuove idee, le stesse in cui potremmo credere come no, ma certe convinzioni saranno in noi radicate perchè sono state le persone, nel modo a loro noto, a trasmettercele, o gli eventi, ma in fondo anche quelli nascono, vivono e muoiono entro una cerchia di persone che avremo avuto la fortuna o meno di incrociare.
Ma ai miracoli intesi in tal senso in fondo non ci si crede più perchè in fondo non c'è tempo. Chi vorrebbe perdere il suo prezioso tempo a raccontare della bellezza di paesaggi a chi non ha la vista? Credo che qui scatti la volontà o semplicemente il bisogno dell'essere "migliori", mai di qualcun'altro, ma semplicemente di ciò che potenzialmente potremmo invece essere. Non c'è tempo perchè in fondo non c'è desiderio, perchè in fondo è normale ciò che sa poco di una certa umanità e soltanto pochi non temono di essere inseriti nel girone degli "anormali". Ecco perchè è complicato "credere in qualcosa nonostante tutto", troppa fatica, troppi rischi, troppo di tutto che potrebbe rivelarsi niente.
Ma ad una convinzione oggi sono arrivata. Mi dicono di "saper scrivere" e allora me ne sono convinta, fin quando da giorni un pensiero mi si è inculcato autonomamente nel cervello: il non riuscire più a farlo trasmettendo qualcosa, come se avessi così tanti pensieri da non riuscire nemmeno a districarli. Ma forse uno dei tanti, al di là di ciò che possa arrivare e al di là del fatto che possa essere condiviso, l'ho scritto, comunque, nonostante tutto. Non so se si tratti di un "miracolo" o semplicemente di un crederci avendo superato il gradino più alto del nonostante tutto, o presumibilmente, di entrambe.

mercoledì 30 gennaio 2013

Partenze e saluti.

Nella mia vita ci sono due costanti: partenze e saluti. 
Spesso sono partita io, qualche volta ho visto anche partire, con l'unica differenza che le mie partenze mi hanno visto sempre tornare, con tristezza e rammarico, ma alla fine, sono tornata, gli altri molto spesso non l'hanno fatto e mi hanno lasciato su di uno uscio della porta ad aspettare che si aprisse fin quando poi ho compreso che era necessario chiuderla.
Ho sempre salutato e l'ho fatto pronunciando frasi che in fondo volevano trovare conferme nell'altro, alcune che non necessitavano di tante parole, altre che hanno lasciato spazio ad un silenzio che solo col tempo ho capito che mi stava dicendo che non avrei dovuto chiederle, perchè in fondo non esistevano.
I miei saluti coincidevano con un "Ciao, ci vediamo presto", nonostante quel ciao talvolta si sia tramutato in un addio ingiustificabile, quel ci vediamo presto era invece per prendere in giro me stessa, per quel mio solito vivere nell'attesa, pur conoscendone in fondo l'epilogo, pur sapendo che non ci saremmo più visti, pur sapendo che presto tutto sarebbe stato spazzato via come le foglie d'autunno per lasciar spazio all'inverno, al fresco venticello primaverile ed infine all'estate, le stagioni che con il loro alternarsi avrebbero reso la mia immagine sempre meno nitida, una persona da dimenticare.
I miei saluti hanno visto porte sbattute e telefoni che continuavano a squillare a vuoto senza nemmeno lasciare un messaggio in segreteria.
I miei saluti si sono sempre fusi con abbracci. Per me l'abbraccio è importante più di ogni altro atto fisico. Parlo di quelli così stretti da farti mancare il fiato, di quelli dove non sai mettere le mani e allora le poggi sulla schiena dell'altro, chinando il capo sulla spalla, in un avvicinamento di busti così stretto che è come se i corpi si compenetrassero, come se non ci fosse bisogno di alcuna penetrazione perchè questo gesto bastava per sentirsi l'uno appartenente all'altro, come se un pezzo di anima si fosse fuso con quella altrui per danzare insieme. Ho dato anche abbracci che vorrei dimenticare, di quelli che dai solo tu pur non percependo il calore dell'altro, pur constatando che le mani altrui pendono senza mai appoggiarsi alla schiena, perchè sono fredde, vuote, come l'anima di chi ti sta dicendo addio e vorrebbe che tu non ti avvicinassi perchè nell'abbraccio non crede o ci crede così tanto al punto da dovertelo negare.
In fondo ho proprio innescato io questo meccanismo delle partenze, dei saluti, del seminare senza mai mettere radici, del tornare dove tutto era iniziato, ricominciando sempre da capo, con pochi superstiti o da sola, coltivando l'idea che nessuno resta e che tutto di punto in bianco potrebbe finire, come un libro, un film, una tazza di cioccolata calda, lasciandoti in bocca l'amaro, il dolce o il salato, a volte la sensazione che avresti desiderato un epilogo diverso o che tutto sia in fondo finito troppo presto.
Ma oggi non lo capisco. Perchè mi dico che dopo tante partenze, ritorni, saluti sono diventata esattamente questa. Ma forse sono anche diventata una persona che sa già a priori che il suo ciao potrebbe essere un addio, che lei partirà ma sicuramente tornerà ritrovando quei rapporti che non necessitano di conferme ma timorosa di perderne altri che probabilmente non torneranno e allora dovrà dire che è la vita, che va bene così, che tutto è tremendamente temporaneo, che bisogna vivere in fondo senza aspettative per non restare delusi, che tutto dovrà scivolarti addosso con distacco, pur sperando in fondo di avere torto, almeno una volta.
 
Non so se ne è valsa la pena correre invece di restare perchè si temeva di aver pazienza e che nulla sarebbe contrariamente arrivato.
Tutte queste partenze e questi saluti li ho voluti nella stessa misura in cui poi li ho detestati. Perchè in fondo ho innescato io tutto questo, io ho deciso di partire e deciso il momento in cui sarei tornata, ho deciso il momento in cui avrei dovuto salutare, ho assunto un atteggiamento che poco sapeva di certezze eppure fremevo al pensiero di non poterne avere. In fondo mi sono convinta che queste due costanti facessero parte di me, ma in realtà me le sono soltanto imposte quando pensavo che fossero l'unica alternativa, quando avevo ferite dappertutto, sensi di colpa che non riuscivo a lavare, bisogni di cui mi si negava il soddisfacimento.

Ma allora, è stato proprio necessario imporsi di abituarsi a tutto questo?

lunedì 28 gennaio 2013

Sorridere è essere belli.

Credo che la bellezza debba far sorridere.
Sarà bello il sole che ti riscalda in un pomeriggio d'estate che ti costringe a socchiudere gli occhi e provoca una smorfia sul viso, proprio simile ad un sorriso.
Trovo bello quel sorriso che compare sul volto di chi è come se volesse pronunciare la frase "E' tutto qui quello che volevo dire" dopo essersi confidata con un'amica, aver sbattuto i pugni per il troppo nervosismo, aver pianto di stanchezza, lasciando senza alcun imbarazzo scorrere lacrime rendendo gli occhi lucidi, come se il cuore stesse sussurrando "Grazie", come se quel sorriso successivo alle lacrime fosse un'arcobaleno dopo una tempesta, che riesca a racchiudere una bellezza incommensurabile.
Trovo bello quell'accenno di sorriso tra chi si perde fra la folla per poi ritrovarsi.
Trovo bello il sorriso di chi sa che c'è qualcuno fuori la porta ad aspettare.
Trovo bello il sorriso di chi nell'esprimersi paleserà il proprio sapere, ed il sorriso di chi dall'altra parte starà ad ascoltare.
Trovo bello il vento che spazza le foglie.
Trovo bello il sorriso degli innamorati, di chi è curioso di scoprirsi.
Trovo bello tutto ciò che in fondo faccia sorridere, perchè forse la bellezza, quella eterna ed intramontabile, consiste proprio in questo.
Ma noi, che alla cattura dell'essenza e alla scoperta della verità non siamo più così abituati, ci accontenteremo di una piacevole apparenza, che non è bellezza, perchè in fondo sarà fugace. 
E la bellezza, pronunciata con vocali aperte ed il suono rimbombante delle doppie consonanti, può essere eterna, proprio come un sorriso, quella smorfia delicata che compare sul viso di tutti, che è bellezza.
Ma siamo stati così imbottiti dell'idea che tutto sia profondamente temporaneo, che all'eternità non ci si crede più. Forse è anche per questo che si preferisce inciampare in piacevoli apparenze, vuote, spente, che non è detto che facciano sorridere.
Forse è proprio per questo che ci lamentiamo sempre troppo, ridendo sempre meno. 
Ma ogni sorriso negato è un pezzo di bellezza che ci abbandona.
Per essere belli bisogna anzitutto sorridere.

venerdì 25 gennaio 2013

I primi della classe.

A scuola sono sempre stata la prima. 
Ero in prima elementare e la mia insegnante nell'ora di italiano ci teneva a farmi leggere sempre per prima così che i miei compagni mi vedessero come esempio. 
Una volta quando ero in prima elementare ricordo di essere stata prelevata da un'insegnante di seconda, mi portò nella sua classe per farmi risolvere delle operazioni di matematica che i suoi alunni non riuscivano a risolvere. Per me invece fu più semplice del previsto, e ricordo che mentre ero alla lavagna, sentivo il vociare dei bambini di seconda elementare dietro le mie spalle che silenziosamente sussurravano: " Com'è brava, ma come ha fatto?" e l'insegnante che con voce perentoria esclamava: "Prendete esempio da questa bambina!"
Uscii poi da quell'aula con volto chino e le spalle incurvate e credo che sul mio volto si leggesse che in fondo non avevo fatto niente di speciale, niente per cui valesse in fondo la pena di riconoscermi un valore degno di nota che potesse pormi su di un piedistallo per potermi distinguere. 
Ed è proprio questa immagine che porto con me, da sempre, perchè è in effetti proprio la stessa che riscontro attualmente quando la mattina mi sveglio e guardo la mia immagine riflessa allo specchio.
Perchè sono stata sempre la prima della classe alle scuole elementari e alle medie, al liceo ero considerata non la prima ma una delle più brave, quei punti di riferimento a cui tutti potessero appigliarsi, e così anche all'università. Ma in fondo un certo valore non me lo sono mai riconosciuto. Ho sempre pensato che fosse semplice assumere il ruolo della prima della classe, perchè in fondo basta impegno e buona volontà per farti aprire un libro ed inglobare nozioni che ti renda agli occhi degli altri un esempio da emulare. Ma talvolta l'essere primi in questo modo non sempre appaga come vorresti. Perchè diventi un esempio e allora non puoi sgarrare, ti senti quasi in dovere di rispettare il ruolo che in fondo tu non hai mai preteso, nè forse riconosciuto, ma sono stati gli altri a farlo per te e spesso senza nemmeno chiederti il permesso. E' come se gli altri riponessero in te delle aspettative che sebbene tu consideri troppo grandi per te o non pienamente affini, è come se le volessi far tue comunque sforzandoti il doppio per non deludere nessuno. E mentre il tuo cervello a fatica preserva l'idea di non voler deludere nessuno, intanto stai deludendo quella voce che dentro di te ti imporrebbe di spogliarti per lasciare che non siano ruoli precostituiti ma la tua reale natura a prevalere.
A scuola ho sempre avuto buoni insegnanti e forse è per questo che mi è risultato semplice diventare la prima. Ma nonostante possa sembrare assurdo, talvolta avrei tanto desiderato, e tuttora, non esserlo, così da poter essere libera di esplicarmi, senza che alcuna etichetta ti imponesse di sostenere un ruolo che contrariamente a quanto si possa pensare, è oltremodo difficoltoso in certi momenti. 
La prima a scuola e nella vita? Nella vita che posizione rivesto? Non esistono libri ma soltanto esperienze e saranno le persone a ricoprire il ruolo di insegnanti, quel ruolo che spesso ti verrà girato per camminare da sola, per mettere a frutto ciò che avrai imparato e che in alcuni casi ti verrà chiesto di trasmettere. Posso dire che le esperienze non mi sono mancate. Quelle esperienze che mi hanno portato a toccare il cielo con un dito, per poi lasciare che il mio sedere sprofondasse nel fango. Quelle esperienze che mi hanno fatto battere il cuore così forte sino a farlo scoppiare, fino talvolta a farlo fermare. Quelle esperienze che ho condiviso con altri, ma tante altre da sola. Quelle esperienze che mi hanno resa più forte, altre tremendamente timorosa. 
Ho incontrato persone che sono stati per me degli insegnanti modello, di quelli a cui pensi come esempi da emulare. Ma ho incontrato anche persone assolutamente banali, poco interessanti, quegli insegnanti tremendi che non avranno mai la tua stima ma che in fondo non riesci a non temere. Persone che mi hanno idolatrato facendomi leggere davanti a tutti chiedendo agli altri di seguire le mie orme, persone che mi hanno chiamato alla lavagna per risolvere un'equazione che non sono riuscita a risolvere, che hanno ridotto la mia autostima, facendomi sprofondare in una vergogna che non aveva ragion d'essere eppure c'era, me la sentivo addosso, come una puzza che non riesci a togliere. Ho incontrato persone che non mi hanno insegnato nulla, persone che mi hanno insegnato qualcosa o tutto quello che c'era da sapere. Persone che mi hanno insegnato che la vita è bella, altre che la vita può talvolta tramutarsi in un inganno, quell'inganno di cui loro stessi si facevano portavoce. Persone che sono diventate dei profumi che non facevo a tempo a spruzzarmi addosso che evaporavano nell'aria. Per qualcuno ho sentito l'esigenza di annusare vecchi indumenti che ne conservassero la fragranza, per altri ho sentito invece il bisogno di gettare quei vestiti per non sentirne più l'odore, per non ricordare di quanta puzza possa esserci in un profumo che con l'andar del tempo non apparirà dolce come appena spruzzato. Ho incontrato persone come insegnanti che giungono in aula dicendo alla platea di restare in silenzio perchè hanno delle faccende da sbrigare, leggere un giornale, o semplicemente un lieve mal di testa che impedisse di fare lezione, quelle persone che non danno tempo a te ed inevitabilmente anche a loro stessi, o come quegli insegnanti per cui basta un intervento da posto per capire se tu sia preparato o meno, per mancanza di tempo, o semplicemente di desiderio di comprendere, senza mai andare oltre.
Allora nella vita posso dire di essere stata insegnante ma spesso ho sentito l'esigenza di sedermi tra i banchi e lasciare che la vita mi insegnasse ciò che c'era da sapere per sentirmi più preparata. Sono stata l'alunna modello ma spesso anche la più impreparata. Ho maturato il bisogno di far battere forte il cuore come quando si tocca il cielo con un dito, un bisogno che ricerco costantemente come fosse il motore della mia esistenza, nonostante il timore di sbucciarmi le ginocchia, con quella costante ansia sul come gestire una vita, sul dove andare ed in cosa o chi credere, nonostante per amor proprio abbia dovuto talvolta fermare questo cuore che altrimenti mi avrebbe fatto troppo male nel continuare a battere. Ho maturato il bisogno di ascoltare e di essere ascoltata, nonostante abbia spesso incrociato chi tempo per farlo non voleva darmene, perchè è come se la gente non abbia mai tempo o mai desiderio, il che equivale a dire lo stesso.
Nella vita in fondo non ci sono libri né certezze, le tue guide non riuscirai sempre a riconoscerle e spesso dovrai ergere a guida te stesso per timore di inciampare. Ci sono solo strade, viottoli, salite e discese. Ci sono paesini e grandi città. Ci sono persone.
Ed in questo turbinio di lezioni come esperienze e di persone in veste di insegnanti, mi sono a volte sentita la prima ma molto più spesso l'ultima, altre volte invece la mia posizione non sono riuscita a definirla. 
La vita è una lezione che non si smette mai di imparare, che quando meno te lo aspetti ti interrogherà e non è detto che tu sia sufficientemente preparato, una lezione che dovrai ascoltare da altri o spesso tenere tu, come un insegnante mai preparato abbastanza. Ma chi può dirsi in fondo il primo della vita? Credo nessuno. Allora forse servono braccia forti, petto in fuori ed un volto fiero per tuffarsi nel mare della vita, ma per nuotare e cavalcare le onde talvolta occorre farsi un bagno di umiltà, incurvare le spalle, chinare il capo, lasciare che siano gli altri a riconoscerti un valore che tu potrai vedere come fosse niente di speciale ma soltanto un dovere. E' forse soltanto così che si impara, un modo che non ci farà essere primi perchè di primati la vita non ne conosce, ma nemmeno gli ultimi, semplicemente così, semplicemente persone e non pagliacci.

mercoledì 23 gennaio 2013

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo: una metafora di vita.

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo. La fotografia scattata dal padre fa il giro del mondo, catturando inevitabilmente la mia attenzione. Questa fotografia trasuda vita, trascinando via con sé il suo più intrinseco senso, non solo per essere stata scattata nel topico momento del parto, ma per questa mano, nuda, fragile, così piccola, che non appena intravede uno spiraglio di luce si aggrappa ad un dito più grande per cominciare la sua vita.
Manifesto, questo gesto che si intinge di profonda commozione, di una recondita verità: il bisogno innato di aggrapparci a qualcuno o qualcosa che ci infonda la fiducia necessaria per abbandonare il buio e venire alla luce. Un bisogno che si palesa sin dalla nascita per poi accompagnarci per tutto il resto della nostra vita. Un bisogno dei piccoli, ma talvolta soprattutto del mondo adulto, perchè il ciclo della vita non è semplicemente quella fase compresa tra la nascita e la morte biologica di un essere umano, ma può iniziare in ogni momento, ad ogni età, quando esperienze passate ci abbiano visto morire maturando dentro di noi l'esigenza di rinascere ancora. Un bisogno che non deve confondersi tra i germogli di una letale dipendenza, perchè quest'ultima punge, ci fa aggrappare a qualcuno o qualcosa in cui la nostra personalità viene inevitabilmente divorata, annullata, destinata comunque al buio, non è un qualcosa di profondamente innato e naturale, ma cresce successivamente quando il sentirci soli ci svuota, bistrattando la natura umana. E' invece un bisogno ingenuo, delicato, spontaneo, che nasce dai semi piantati nel cuore per poi espandersi silenziosamente nell'anima umana più piena. Un bisogno che i cinici hanno imparato a negare, celandolo dietro l'affermazione "Non ho bisogno di nessuno, sto bene così, sto bene da solo", senza che l'altro carpisca dietro quella negazione del bisogno il reale significato di quella frase, forse un bisogno ancor maggiore di chi avrà il coraggio di esprimersi. Perchè anche quella minuscola mano si sarà staccata dal dito per cominciare a muovere da solo i suoi primi passi, ma come ogni creatura che impara a camminare avrà avuto la necessità di reggersi a qualcosa per timore di cascare. Probabilmente sarà anche caduto provocandosi degli enormi bernoccoli sulla fronte, ma alla fine sarà riuscito ad andare per la sua strada per le continue cadute il cui numero si sarebbe forse triplicato in mancanza di appoggi.
Non è forse questa la più incredibile metafora della vita? 
La differenza è che un bambino riesce a cogliere il bisogno nella sua naturale essenza, perchè non conosce vergogna, al contrario si dimenerà se qualcuno non correrà presto in suo aiuto, avendo tutto il necessario a sua disposizione per aggrapparsi e soddisfare quel bisogno. Gli adulti, che dal mondo delle loro esperienze hanno assimilato stereotipi, inganni, orgoglio e vergogna, quanto di meno umano possa esistere, forse si dimeneranno, ma lo faranno nel silenzio della loro anima senza mai riuscire ad esprimersi, bistrattando l'unico elemento umano che accomuna tutti, consci, nel caso, di avere a disposizione solo qualcosa o qualcuno cui aggrapparsi perchè la loro mente nel buio di una gelida stanza non sarà in grado di nutrire l'immaginazione, perchè in fondo un adulto farebbe meno tenerezza di un bambino, un adulto nell'immaginario collettivo può riuscire a stare da solo. Ma se forse capissimo che il ciclo della vita non è unico ma in un'intera vita potremmo disporne anche di dieci, cento, mille, se riuscissimo a carpire la ciclica essenza della vita, potremmo forse capire che il bisogno, che non è dipendenza, di aggrapparci a qualcuno o qualcosa per trovare la spinta per venire alla luce, è profondamente umano, innato, di tutti, soprattutto di chi continua a negarlo. E l'umanità ha ben poco a che fare con una disumana vergogna. 
In un mondo ideale dovremmo assimilare la saggezza dei nostri nonni e la tenerezza che sa di verità ed umanità dei bambini, dimenticandoci di essere posizionati esattamente al centro di questo ciclo che non si arresta mai, che può finire ma che inizia di continuo.

martedì 22 gennaio 2013

Cotone su seta.

Tempo per telefoni muti, porte sbattute ed un buio che divora non ce ne è stato nemmeno.
Perchè non mi hai dato tempo di telefonare, nè di sbattere una porta, ma è giunto subito il tempo di un ingiustificabile silenzio in una stanza dalle pareti bianche, ove trapelavano spifferi attraverso le fessure delle finestre, osservando con distacco dietro i vetri le foglie ingiallite spazzate via dal vento, quelle finestre che ho preferito lasciar chiuse per timore di conoscere la forza del vento che potesse farti mancare la terra sotto i piedi, per timore di essere spazzata via come quelle foglie anche se in fondo tu l'avevi già fatto, nonostante avessi mantenuto le finestre chiuse.
E forse ti detesto nella stessa misura in cui io adesso stia detestando me stessa.
Ti detesto per le frasi non sussurrate ma anche per quelle pronunciate con fermezza che come delle tempere ad olio sono restate sulla tela senza che la combinazione di tutti quei colori lasciasse spazio all' immaginazione.
Ti detesto per avermi dato la conferma di convinzioni di cui avrei voluto assaporarne per una sola volta il torto. E mi detesto perchè in fondo non è un cuore ferito a parlare, bensì un orgoglio di donna bistrattato, il desiderio di voler essere la prima, soltanto questa volta, almeno questa volta, come forse mai è successo.
 E mi detesto perchè della tua presunta felicità non riesco ad esser felice anch'io e per questo mi sento di valer poco in veste di persona rancorosa, come un cestino che non fa a tempo a riempirsi per poi essere svuotato. E forse mi detesto perchè dovrei tacere, forse ti detesto perchè hai assimilato tutte le mie frasi sull'amore e di quanto sia indispensabile crederci per rinascere ancora, le hai apprese come un alunno dalla sua insegnante, per poi seminare e coltivare i semi del tuo amore con chi fortuitamente è giunta subito dopo. Mi detesto perchè di questo tuo modo di utilizzarmi come strumento per apprendere come si riesca ad essere pronti al cospetto dell'amore non riesco a farne motivo di vanto.
Mi detesto perchè in fondo sapevo sin dall'inizio di non c'entrare nulla con te, ma ho voluto provarci lo stesso, ritagliarmi uno spazio che assomigliasse più che altro ad una toppa di cotone ricucita su di un tessuto di seta. Ma la verità è che se non c'entravo niente con te, è valso lo stesso anche per il precedente, e per quello ancora prima, e ancora prima, e ancora. Temo di esser sempre stata una toppa ricucita maldestramente su di un vestito dal tessuto diverso dal mio. 
Allora, alla fine, io con chi c'entro?

Cos'è la "cazzimma" per un napoletano.

Non so quanti di voi napoletani si siano trovati a parlare con qualcuno proveniente da un'altra città d'Italia e nel pronunciare la frase "Uaaaa, che cazzimma!" si siano sentiti puntare gli occhi addosso, come se provenissimo da Marte, e con lo sguardo attonito ed il tono perplesso si siano sentiti rivolgere la domanda "Che cos'è la cazzimma?", e noi rispondere "Come te lo spiego?E' impossibile!"
In effetti è notevolmente complicato. Il napoletano è noto per il suo spiegarsi con estrema concisione, esprimendo concetti lunghi grazie la fusione o la creazione di termini dialettali che ne riassumono il fulcro.
Dal termine cazzimma si ricava l'aggettivo "cazzimmoso" o "cazzimmosa" a seconda del sesso dell'interlocutore. In effetti potremmo definire la cazzimma una fusione di scarsa generosità, lealtà, onestà, un atteggiamento di menefreghismo che si sposa ad una carenza di correttezza, un atteggiamento di furbizia opportunistica, un pensare esclusivamente ai propri interessi danneggiando spesso gli altri, ma come direbbe un napoletano "non è solo questo, c'è qualcosa in più, la cazzimma è un'altra cosa!"

Ma allora, cos'è la cazzimma?

La cazzimma è quando da piccoli, mentre si giocava, un bambino particolarmente capriccioso non metteva a disposizione i suoi giocattoli, o quel bambino che, mentre si stava giocando al pallone, decideva di punto in bianco di prenderlo e portarlo via.

La cazzimma è quando qualcuno, nel cuore di un discorso che desta la nostra attenzione, omette volutamente dei dettagli che se svelati potrebbero cambiare il nostro punto vista, un segreto che non vorrà rivelarci, cedendo il passo alla classica affermazione "Che CAZZIMMA che TIENI!"

La cazzimma è quando un arbitro chiama un fallo che avrebbe potuto anche non segnalare.
La cazzimma l'ha mostrata Drogba durante la partita di Champions League, Chelsea Napoli, quando negli ultimi minuti di gioco per temporeggiare, accasciatosi al suolo, ha finto di non riuscirsi a rialzare, e all'inquadratura del suo volto coperto dalle mani e delle sue dita che si aprivano per gettare l'occhio sulla decisione arbitrale, molti dei tifosi avranno di certo esclamato "Che cazzimma", qualcuno l'ha definita "Esperienza dei grandi giocatori", ma per noi era in primis cazzimma, non si discute.

Quando a scuola il nostro compagno di banco non ci passava il compito, o se, come spesso sarà capitato, il primo della classe non si offriva per essere interrogato e salvare il resto della classe impreparata, in quel caso non è soltanto cazzimma, bensì una CAZZIMMA ESAGERATA. Perchè il napoletano per rafforzarne il concetto, aggiunge spesso l'aggettivo "esagerato", ed in questo caso è assolutamente doveroso per intendere che quel compagno di classe ha una cazzimma che parte "dai capelli fino all'ultima unghia del piede".

La cazzimma è del professore universitario che in seduta d'esame ci rivolge la classica domanda complicata di cui ignoriamo la risposta, o del nostro datore di lavoro, che pur conoscendo le nostre esigenze, volutamente decide di non venirci incontro.

In fondo c'è un po' di "cazzimma" in ognuno di noi, praticata quotidianamente senza nemmeno accorgercene.
La "cazzimma" è un termine coniato nel napoletano, ma che in fondo appartiene a tutto il mondo, Lega Nord compresa, perchè come direbbe un napoletano "Nella vita, c vò nu poc e cazzimm!"

domenica 20 gennaio 2013

Un posto dove trovare stimoli.

C'è un posto che è la fonte di tutti gli stimoli di cui necessitiamo, molto spesso ignorato, ricercandoli altrove.
Andiamo allora in una libreria pensando che un libro riposto su di uno scaffale possa catturare la nostra attenzione per il suo titolo curioso, o perchè ne conosciamo l'autore o semplicemente perchè qualcheduno ce ne avrà parlato.
Andiamo al supermercato e troveremo in una confezione di yogurt magro la soluzione alla nostra dieta, o in confezioni di dolciumi la soluzione al nostro cattivo umore.
Andiamo in un negozio di scarpe pensando che l'acquisto di quella calzatura in vetrina possa fungere da terapia alla nostra noia, alla nostra stanchezza mentale.
Andiamo in discoteca, in un pub per una birra e qualche ora di svago, cerchiamo in luoghi ed in persone quegli stimoli che dopo qualche tempo si tramuteranno in palliativi, quelli che attenuano il dolore ma che non guariscono. Ricerchiamo all'esterno ciò che invece dovrebbe nascere e maturare dentro di noi, trascurando che siamo proprio noi la miglior medicina. E' il nostro cervello il luogo più giusto in cui trovare stimoli. Lo stimolo è lì che deve essere seminato, innaffiato per crescere, ed una volta maturo abbastanza raccolto con estrema attenzione. E' il nostro cervello che decide se il nostro umore dovrà conformarsi ad un tempo uggioso o ad un cielo sereno, se essere arrabbiati, stanchi, annoiati o allegri e leggeri. E' lì che tutto nasce ed è lì che tutto spesso si consuma. Ma il cervello lo si può gestire contrariamente a quanto si possa credere. 
Possiamo alzarci di buon mattino e rassegnarci ad essere arrabbiati nonostante il cielo sereno, o imporci di essere allegri nonostante il cielo grigio. E' essenzialmente questione di volontà, quella stessa che dovrebbe ogni giorno suggerirci la domanda: "Oggi come vogliamo essere?" e ascoltare i bisogni del cuore che suggeriranno la risposta. 
Ma condividere stimoli è un bisogno umano, è il passo più difficile, perchè saremo costretti ad interrogarci sul dove andare. Dovremo andare esattamente dove il cuore avrà scelto di condurci, in una finta passività che ci vedrà paradossalmente esseri attivi per il semplice fatto di avere avuto il coraggio di ascoltarlo. Ma il nostro cuore dovrà aprirsi, soltanto così riusciremo a condividere i nostri stimoli e a trovare persone altrettanto stimolanti. Dovremmo forse partire dal presupposto che siamo tutti profondamente diversi e che se vogliamo che le persone comincino a capire arrestando le classiche lamentele, dovremmo aprirci, esprimerci nella nostra totale pienezza, senza più nascondere lacrime dietro falsi sorrisi, senza più bistrattare le nostre esigenze celandole dietro frasi da copione che inorgogliscono senza mai soddisfare nè definirci, liberandoci come un soffione trascinato dal vento. Soltanto così forse ti riconoscerai tra la folla e potrai esser scelto da chi avrà desiderio di entrare nel tuo mondo dove non tutti avranno il piacere di entrare, ma qualcuno il coraggio ed il desiderio di restare. 
Farsi delle domande è da persone intelligenti quanto vere, è da persone nella loro costante ricerca di stimoli, persone che a furia di seminare e raccogliere ne hanno fatto una parte fondamentale del proprio essere. Ma le persone stimolanti esistono, basta cercarle, basta aprirsi, perchè sono silenziose, purtroppo è la stupidità ad essere tremendamente rumorosa. 
La felicità non è un diritto, ma una possibilità che va seminata, curata per poi all'occorrenza esser colta, ascoltando il cuore ed aprendo il cervello.


venerdì 18 gennaio 2013

La vita va avanti, comunque.

Ci sono giornate che cominciano con un cielo grigio per poi lasciar spazio a tiepidi raggi di sole, ma nonostante il loro timido filtrare non riescono a riscaldare, nè a rendere meno grigio il cuore la cui tinta sarà sempre più intensa, tra cui poter scorgere venature di nero, quello che non lascia spazio ad alcuna immaginazione. E allora ti rendi conto che la tua giornata è cominciata in questo modo ed è esattamente così che dovrà terminare, semplicemente così, come il 18 gennaio di ogni anno.
Ci sono giornate in cui pensavi di rimanere imbottigliata nel traffico, invece sei stata semplicemente risucchiata da pensieri e ricordi che nella tua mente generano un traffico peggiore delle tante automobili in una strada stretta, perchè è un traffico silenzioso, nessun rumore, nessun clacson assordante, ci sei solo tu, in una strada larghissima di cui non riuscirai a scorgere la fine fin quando non ti scontrerai ad un muro che ti farà capire di esserti immessa in un vicolo cieco.
Ci sono giornate in cui ti soffermi sulla frenesia dei passanti ma tu vorresti restar ferma. Quelle giornate in cui assapori la triste verità di quanto la vita vada avanti comunque, ma ci sono dei giorni, uno, due, tre o anche sette all'anno, in cui avverti l'esigenza di spegnerti, di far correre la vita senza correre con lei, perchè non hai bisogno di accelerare il passo, non adesso, non oggi, ma con il fiatone desideri fermarti, con il groviglio dei pensieri e dei ricordi, forse a farti male, ancora una volta, a tentare di lavare un senso di colpa che credevi rimosso ma che è sempre lì in agguato a farti inciampare, a farti male due volte.
Ci sono giornate in cui sai di avere quel solito appuntamento importante, di quelli che ti fanno salire l'ansia con una settimana di anticipo, quelli che non si rimandano, nè da cui puoi scappare, in qualunque città tu abbia scelto di rifugiarti.
Il 18 gennaio è per tutti una data sul calendario, per me è peggio di un appuntamento dal dentista. 
Un appuntamento con la vita e con la morte al tempo stesso. Un appuntamento che mi rende schiava e debitrice, salva e sconfitta. Un appuntamento con i miei classici sensi di colpa che il tempo non fa altro che cementificare rendendoli sempre più grandi. Un appuntamento che ti vede con un fiore da riporre su una tomba come se oramai soltanto questo fosse rimasto per sentirti meno sporca nonostante a volte ti ci senta il doppio. Un appuntamento che ti costringe a meditare sul perchè di gesti estremi, di gesti che inglobano nella loro pesantezza al contempo una leggerezza inaudita, un'altra faccia della medaglia di questa vita che a qualcuno scoraggia al punto da desiderare di abbandonarla, al punto da essere un gesto coraggioso ma al tempo stesso da vigliacchi. Un appuntamento che ti irrigidisce i muscoli, ti offusca la mente, ti fa mettere nuovamente in discussione la scala dei tuoi valori al punto da pensare che niente attorno a te valga ma per i restanti giorni, per sopravvivere perchè la vita va avanti comunque anche senza di te allora tanto vale correre insieme a lei, dovrai dargli un valore comunque. Un appuntamento in cui ti fai tante domande a cui non riesci a rispondere se non con condizionali del tipo "Avrei potuto ascoltare", quelle frasi che rendono tutti innocenti ma in fondo non meno colpevoli. 
Quelle giornate che non vedi l'ora che finiscano sperando in un domani in cui ricomincerai il tuo conto alla rovescia, in attesa del prossimo 18 gennaio.

mercoledì 16 gennaio 2013

Basterebbe restare.

Che assurda ossessione quella di tornare, quando invece basterebbe semplicemente restare.
E' come se non fossimo più abituati alla semplicità, ai piccoli dettagli che per la loro scarsa cospicuità trascuriamo calpestandoli costantemente, guardando sempre troppo lontano, dimenticando ciò per cui basterebbe abbassare lo sguardo per trovare esattamente ai nostri piedi. E' come se cercassimo costantemente conferme, come se stessimo alla costante ricerca della domanda giusta che richieda la risposta esatta, ma se l'esattezza della domanda non si sposa con quella del momento, se non riusciremo ad indovinare la risposta corretta, è come se avvertissimo dentro di noi una rottura, un crack lancinante che pervade lo stomaco, che ci costringe a lasciar perdere, ad allontanarci prima di spingerci troppo oltre, avendo la presunzione di capire quando sia il momento di andare, quando quello di frenare, dando la definizione di "oltre" a tutto ciò che ci renderebbe fragili, nudi, timorosi, autentici, molto spesso frenando quando sarebbe il tempo di andare o viceversa, frenando ancor più spesso quando oramai siamo giunti a quell'oltre la siepe, oltre l'ignoto, oltre ciò per cui varrebbe in fondo la pena di restare.
Ma spesso la masochistica tendenza di cercare incessantemente senza mai soffermarci sui dettagli e raccoglierli come fiori appena sbocciati che necessitano di essere innaffiati, quella becera tendenza a dover per forza schematizzare, definire e catalogare mettendo punti fermi, esclamativi, interrogativi e virgole, quell'esigenza di dover uscire necessariamente da qualcosa per poter osservare e anche capire ciò che stiamo lasciando andare alle nostre spalle, ci impedisce di assaporare la pienezza, la felicità, la vita stessa. Quando sprechiamo il nostro tempo nella formulazione di domande a cui non troveremo in fondo mai risposte che ci rendano appagati, ci poniamo già fuori da un pezzo di vita ed inevitabilmente anche fuori quelle persone che ne fanno parte in cui basterebbe restar dentro per soddisfare i nostri interrogativi, quell'atto razionale che rischia di farcele perdere, quel rischio che si tramuterà in certezza al nostro temporeggiare.
Allora dovremo perdere quel qualcosa per vincere le nostre paure, per scoprirne il senso, per comprendere di quanto invece sapesse del tutto ciò di cui avevamo bisogno, al punto da rimpiangere di averlo lasciato alle nostre spalle, al punto da far tutto ciò che è in nostro possesso per recuperarlo. Recuperare con estremo sforzo fallendo o talvolta riuscendo nella nostra impresa, recuperare quello che in fondo avevamo già, mancando però della giusta dose di maturità che ce lo facesse capire, di quel pizzico di amor proprio e di rispetto per ciò che la vita non manca mai di offrirci anche quando pensiamo non ci stia offrendo nulla, che forse non ci renderebbe pienamente soddisfatti, ma di certo più gentili, più riconoscenti. 
Passiamo invece una vita ad ossessionarci di dover recuperare quello che abbiamo lasciato sui marciapiedi delle strade della nostra vita, quando invece sarebbe bastato chiudere gli occhi per un sol momento e ascoltare le risposte del cuore, perchè il cuore non tradisce, è sempre esatto anche nelle sue leggerezze, non offre mai spazio ai rimpianti, ci impedirebbe di lasciare, ci costringerebbe a restare perchè ci vuole pieni, felici, stracolmi di quella vita che spesso il cervello vuole che calpestiamo per ciò che si è soliti chiamare dovere, orgoglio, tiepida rassegnazione alle vicissitudini.
Chi ha avuto quel qualcosa che non ha avuto la maturità di definire come tutto, lasciandolo per questo andare, non godendone abbastanza, maturando solo in seguito l'ansia di volerlo recuperare a tutti i costi, si riconosce tra mille. Perchè chi ha avuto tutto non riesce ad accontentarsi di molto e rimarrà inerme, dall'alto del suo piedistallo, ad attendere, a temere che forse nessun altro sia in grado di riscaldare il cuore, che nessun altro abbia voglia di quel fresco venticello all'atto dello sventolamento del cuore. Avrà timore di non sentire più niente.
Perchè i suoi occhi saranno lucidi e spenti, passando da persona in persona, custodendo quel noi perso come modello da ricercare, da emulare senza mai riuscirci. Il suo volto sarà pallido e rassegnato alla visione di quel volto che potrà a tratti essere simile ma mai lo stesso. Le sue labbra saranno sempre pronte ad esser baciate, il suo corpo sarà probabilmente denudato, ma avvertirà un sapore più amaro o forse più acre quando quelle labbra simili ma diverse si avvicineranno alle sue, non annegherà più in nessuna anima incrociata, non lascerà in fondo che nessuno riesca a perforare la propria. Vedrà in un "ti amo" la più bugiarda delle verità o la più veritiera menzogna. Non crederà più in nessuna delle parole pronunciate da qualcuno che vorrebbe vederla accanto come un fiore appena sbocciato perchè si sentirà sempre un ramo secco, uno stelo strappato. Quegli abbracci crudi e violenti non emaneranno alcun calore, ma solo un gelido freddo invernale, di quelli che sono il preludio di incessanti nevicate.
Si vorrebbe in fondo tornare a lì ed allora, a quelle labbra dal dolce sapore, a quell'anima che abbaglia prima di conoscere le smorfie del volto, la sinuosità del corpo, la tenerezza delle movenze. Tornare a delle gote di un roseo vivace, ad annegare silenziosamente senza difese in quell'anima lasciando che l'altro faccia lo stesso, perchè è solo quel ti amo che si aspetta, saranno soltanto quelle braccia in grado di accalorarci, solo quel respiro si vorrà ascoltare.
Ma perchè abbiamo bisogno di perdere tutto questo per capire in fondo di desiderarlo come quel qualcosa che in fondo ci completa? Perchè siamo poco abituati alla grandezza dei dettagli, a prenderci cura dei nostri gioielli reclamandone la proprietà solo quando ne saremo stati derubati, convinti di non aver bisogno di alcunché erroneamente perchè il bisogno di amore è profondamente umano, appartiene a chiunque, nessuno escluso. Non è il bisogno dei fragili, ma l'indole di chi si palesa nella sua umana natura, facendone il più autentico punto di forza. Perchè siamo anime predisposte all'eterna insoddisfazione, sempre alla ricerca di qualcosa ma se ci chiedessero cosa stiamo cercando sapremo dare solo risposte vaghe, come se cercassimo senza mai volutamente trovare.
Perchè è più facile lasciare andare, ma più rischioso, coraggioso, umano, l'atto del restare.
Rischiamo sempre troppo poco, non siamo mai coraggiosi quanto basta, ci allontaniamo dalle mille sfumature di un essere umano, dalla possibilità di cogliere la felicità, di calpestare fili soffici di erba e non più quel ruvido asfalto che ci massacra i piedi, chiamando paura ciò che andrebbe invece definito come bisogno. 
Vorremmo recuperare quell'umanità che ci appartiene soltanto dopo, solo dopo averla persa.
Ma non basterebbe forse restare?

martedì 15 gennaio 2013

Dall' Oriente con amore.


E' opportuno procedere con una premessa.

1. Ogni riferimento a persone, cose e circostanze non è puramente casuale.
2. Chi si sentirà menzionato dovrebbe, per coscienza, controllare se è in possesso del permesso di soggiorno.
3. Esistono più clandestini di quanto possiate immaginare.
4. Redimersi non è mai troppo tardi, bruciare il Corano in Italia non costituisce reato.
5. In caso contrario si incorre nel rischio di espulsione e ritorno ai Paesi natii dei continenti dell'Asia e dell'Africa.
6. Non ditemi che non vi avevo avvisato.
7. Ciò che sto per scrivere non è sottotitolato alla pagina 777 del televideo, per l'assurdità dei contenuti che sembreranno fantascientifici ma mai così reali.
8. Tratto da storie vere.

La religione musulmana dilaga prepotentemente nel nostro Paese, inculcandosi soprattutto in quelle mentalità che sanno del provincialismo più reietto. Il Corano non sarà il testo più letto, ma di certo quello più osservato specialmente da alcune coppie che chiamarle tali rappresenta una mortificazione perchè una coppia è un uomo e una donna, in alcuni casi saremo invece dinanzi ad un giullare del circo e la sua scimmia ammaestrata, quelle coppie che ci inducono costantemente ad un solo interrogativo: "Sono stato catapultato attraverso una macchina del tempo nel 1700 senza saperlo o sono stato sedato e portato privo di coscienza in un villaggio africano?" Mi spiace, ma siete nel 2013. Siete proprio in Italia. Siete in Occidente, eppure esistono ancora quelle che definisco "coppie musulmane" operando un'estremizzazione in quanto lo saranno pur senza rispettare il periodo del Ramadan, donne che pur non indossando il burka vengono trattate come tali dai propri uomini, uomini che si impongono e donne che glielo lasciano fare annegando la loro personalità in una tazza di latte in cui il proprio uomo inzupperà le pagine del Corano.
Ho sempre ascoltato racconti o assistito con una sottile ironia pirandelliana a scene tragicomiche di questo tipo senza mai essere la diretta interessata, per fortuna. Perchè in fondo la scimmia ammaestrata non la so fare né ho mai voluto farla, i giullari li detesto, credo nell'integrazione ma molto più nella rivendicazione del ruolo della donna, nella parità che non significa sopraffazione, nella libertà che non significa aver scarso rispetto per l'altro ma averne così tanto al punto di fidarsi, al punto di non irrompere prepotentemente in una vita come un avviso di garanzia, amare senza la pretesa di possedere, vivere con dignità e lasciare che anche l'altro lo faccia, per sé, per l'altro, per la coppia.
Coppie di questo genere utilizzano di rado espressioni affermative, quasi sempre invece negazioni. I loro verbi preferiti sono il "potere" ed il "dovere", vivono in una simbiosi imbarazzante con un'incredibile forza annientatrice, che si annida nel cervello al punto da farlo scomparire, al punto che ci troveremo di fronte a non più due cervelli ma uno soltanto, se siamo fortunati, perchè spesso, andando avanti, anche quello sarà disintegrato e rimarranno solo le poche briciole rosicchiate dai criceti.
Ma in una "coppia musulmana" che si rispetti, cosa gli uomini POSSONO pretendere, e cosa le donne invece NON POSSONO fare?

1. Non si possono avere amiche single. Tutte le amiche single non saranno solo single, ma delle incredibili bagasce perchè se sono single significa che nessun uomo le avrà volute al loro fianco.

Magari la ragazza vorrà prendere un caffè in compagnia delle sue amiche. Non potrà farlo. Il Corano non lo annovera fra le possibilità. Se deciderà di contravvenire alle regole, sarà spiata a vista, dovrà sorbirsi un interrogatorio che durerà più del periodo del Ramadan, 350 telefonate e 413 messaggi per un caffè che ingerisci in meno di un minuto. Una pressione psicologica tale da indurre la ragazza a pensare: "No grazie, il caffè non lo voglio più. Mi rende nervosa!"
Ho sentito addirittura di persone che al mare non possono andare se non in compagnia del proprio ragazzo. Povero ragazzo, che figura ci fa se si sapesse in giro che la propria donna va al mare svestita, in costume, ma stiamo scherzando?
D'altronde in Oriente ...

2. Le donne devono indossare il burka. Niente minigonna occidentale, niente trucco eccessivo, il corpo di una donna potrà vederlo solo il proprio uomo.

Che state dicendo, che volete andare a ballare senza il vostro fidanzato che magari non avrà voglia o è fuori per lavoro? Secondo me rischiereste la ghigliottina, come la regina Maria Antonietta. Le cortigiane di basso borgo vanno a ballare, quelle si possono divertire in luoghi come le discoteche dove si va per rimorchiare, ma voi, dico, voi che ci andate a fare? Siete fidanzate con l'uomo di Neanderthal, lo dice stesso la parola << non-vi-potete-divertire-fate-andare-le-vostre-amiche-single-e-quindi-bagasce-sempre-che-ce-le-abbiate-ancora-ma-dubito>>. Imparate l'italiano, cavolo!

In palestra?Insieme. In vacanza?Insieme. Che state dicendo, che una vostra amica si è trasferita all'estero e vorreste andarla a trovare ma il vostro uomo in quel periodo non può? Non si va. Non chiedetelo nemmeno. Quando poi l'uomo-di-neanderthal si sarà liberato, organizzerà un viaggio, con la compagnia dei suoi amici papponi che vi sarete convinti di amare soltanto perchè l'omicidio in Italia costituisce reato, magari ad Amsterdam, e ve lo farà sapere con una settimana di anticipo. Ma voi, che siete donne devote esclamerete: "Amore vai, sei stato così leale nell'avermi avvisato con così tanto anticipo. Non ti preoccupare, io resto qui ad aspettarti, a casa, non metterò nemmeno il naso fuori al balcone, sono una ragazza seria, mica come le mie amiche SINGOL!"

Il cellulare? Va controllato almeno una volta al mese.
Non è previsto che tu abbia potuto avere, in una vita precedente, un ex o una ex. Se il caso vi farà incrociare dovrete far finta di niente, dovrete abbassare il capo senza salutare civilmente perchè se lo farete sarete destinati alla sedia elettrica, almeno così sarete destinati comunque soltanto ad un periodo successivo di forti tensioni e ripensamenti sul se e chi ha guardato prima chi, della durata pari al periodo del Ramadan, sempre.
Facebook? I più moderni ce l'hanno, ma "amore siamo una cosa sola, anche su facebook". Da qui è nato lo scempio di accounts comuni del tipo "Lello&Luisa", "Nico&Stefania", "Eufemia&Geronimo", alcuni ci mettono anche un cuoricino, non sia mai che gli altri capissero che non sono fidanzati ma semplicemente fratello e sorella?

Che stai dicendo, che la tua amica che vive altrove torna a casa per il weekend e vorrebbe trascorrere una serata in tua compagnia? Rischieresti la fucilazione. Il weekend è OFF-LIMITS, e purtroppo a quanto pare non soltanto quello.

Adesso vi chiederete, cosa succederebbe se si lasciassero? Ecco, il bello viene proprio adesso.
Perchè si passa dalla clausura al libertinaggio più sfrenato, che poco a che vedere con la libertà da me all'inizio citata, ma sa più di finzione, di carta pesta, di burka bruciati nel fuoco come se la vita precedente non fosse stata mai vissuta. E forse sì, perchè queste donne, ma anche questi uomini che dopo una rottura di ammalano costantemente della sindrome da collezionismo volendo emulare John Travolta in Grease pur assomigliando nelle goffe movenze molto più a Mr Bean, non vivono mai ma dipendono sempre da qualcuno o qualcosa, ragion per cui i semi della libertà genuina e profonda, quella silenziosa e non per forza sfrenata, non riusciranno mai a piantarli. Sono un po' come gli "orientali" che giungono in Occidente pensando di trovare donne nude per strada, coppie che scopano come conigli sui marciapiedi, uomini tatuati dalla testa ai piedi, perchè in fondo si tratta della patria della droga, del sesso e del rock and roll. Passano in fondo da un estremo all'altro senza mai smettere di essere ridicoli, goffi, tristi.

Onestamente questa religione non fa per me. Preferisco l'agnosticismo o a limite lo zen.

Ma una cosa ve lo vorrei chiedere, per curiosità: " Il permesso di soggiorno, quello almeno, ce l'avete? "

Ecco. Lo sapevo. Contrariamente alle mie ideologie devo dare ragione ai leghisti: in Italia sono tutti clandestini. Cominciamo allora a bucare anche i gommoni!

domenica 13 gennaio 2013

Le regole della casa del sidro.

Cosa fate quando siete particolarmente pensierosi?
Io spesso preferisco sedermi in poltrona, preparami una tazza di thea e guardare un film.
Molto spesso finisco tra una valanga di fazzoletti, e quando sono particolarmente bagnati, all'occorrenza, utilizzo anche i cuscini per asciugarmi le lacrime. Ma se sono fortunata riesco a trarre le risposte ai miei pensieri in una geniale ripetizione di suoni, in quella incessante concatenazione di immagini che raccontano storie, che trasmettono esempi, che divulgano messaggi, che hanno poco a che fare con l'inverosimile, molto più attinenti invece alla vita vera.
L'ultima volta mi sono seduta in poltrona e sono stata per due ore con gli occhi che ogni tanto divenivano umidi a vedere "Le regole della casa del sidro", un film del 1999. Racconta della storia di un giovane infermiere, Homer, cresciuto in un orfanotrofio sotto la tutela di un medico convinto abortista, il dottor Larch. Quel luogo per tutti coloro che ci vivono rappresenta un'isola incantata, una campana di vetro che tiene tutti lontano dal dolore, dalle amarezze, dai pericoli, tiene tutti distanti dal cinismo della vita, ove l'unico motto è rendersi utile, fare qualcosa per l'altro. Homer, nonostante sia un adulto, nutre la stessa freschezza, genuinità d'animo, lo stesso disincanto di un bambino. Ma un giorno arriva in orfanotrofio una coppia benestante, un uomo ed una donna che chiedono un aborto. Dopo l'operazione, una volta che la donna si è rimessa, Homer decide di unirsi a loro, di lasciare quell'ambiente ovattato che sino ad allora lo aveva visto crescere, per darsi finalmente alla vita, per vedere l'oceano che non aveva mai visto, per vedere un'aragosta di cui non conosceva nemmeno le sembianze. Si dedicherà alla raccolta delle mele, mansione ottenuta dal marito della donna che poco dopo parte per la guerra, credendo di lasciare sua moglie in ottime mani. Ma a quella vita Homer non era pronto, le regole dell'orfanotrofio erano troppo sane, troppo pure, troppo poco reali per combaciare con quella vita spesso cruda e violenta. Allora Homer le dovrà imparare, da solo, ogni giorno, per sentirsi uno di loro, per sentirsi uno che come il resto del mondo trascura la volontà di essere utile per qualcosa, l'esigenza di far qualcosa per l'altro. Scoprirà l'amore per quella donna che alla notizia del ritorno del marito, tornato paralizzato, abbandonerà Homer, affermando di averlo amato nonostante sappiano bene entrambi che non è stato così. Lui l'ha amata, lei aveva soltanto bisogno di qualcuno che le stesse accanto, per timore di restar sola. Ciò che accade in questa vita, violenta, cruda ed oltremodo vera, ma non sotto quella campana di vetro, non dove si respira gioia e freschezza nonostante il triste destino di quei bambini che forse non troveranno mai una casa, in quell'orfanotrofio dove non c'è bisogno, nè desiderio, nè esigenza, ma lo scambio di calore, di amore, il voler fare sempre qualcosa per l'altro è naturale, loro in fondo sono nati esattamente così, ed in questo stato ci sono restati, per un tragico scherzo del destino, o per fortuna, perchè sono riusciti a mantenere quella che è l'essenza di ogni essere umano, quella che si perde per colpa della meschinità delle vicissitudini, ma che dovremmo esser più attenti a preservare. C'è un bambino che teme di non essere mai adottato, ma Homer gli ripete sempre che è il migliore, ed i migliori devono attendere persone eccezionali, non si danno via così. In quel luogo tutti sono migliori. Tutti lo sono perchè sanno ridere, sanno gioire dei dettagli, di un libro che gli viene letto la sera prima di addormentarsi, della frase rituale prima di spegnere le luci "Buonanotte principi del Main, buonanotte re della nuova Inghilterra". Tutti lo sono anche perchè sono capaci di piangere, di esclamare a gran voce "Non andare via", ma anche di lasciare che un dignitoso silenzio si renda lo scenario di quell'ingestibile dolore provocato dal dover lasciare andare. Tutti lo sono anche perchè si dilaniano a causa di un allontanamento che provoca una mancanza simile ad una profonda voragine sino a morire, come il dottor Larch, morto per una mancanza troppo profonda da poter contenere a lungo. Morto per quel troppo amore che lo aveva spinto a far credere ad Homer di avere una malformazione al cuore, per tenerlo lontano dalla guerra, per tenerlo in fondo accanto a lui. Un amore così in quella vita reale cui Homer si era voluto affacciare per conoscere il mondo non c'era. Perchè l'amore dilania ed il timore di perdere qualcuno considerato come un nostro "prodotto", un "figlio", come Homer per il dottor Larch, ogni giorno ci ferisce e a poco a poco ci uccide. In quella vita reale c'è invece una cinica assuefazione alla violenza, alla crudezza, alla menzogna, c'è il sostenere di doversi abituare a mancanze perchè è così che la vita ci vuole: freddi, spenti, senza emozioni nè lacrime. In quella vita c'è un lasciare andare senza mai pensare di chiedere se si preferisce invece restare, c'è un gettare prepotentemente in  faccia scomode verità in virtù di quell'amore tanto osannato. Ma forse per il troppo amore si è anche in grado di mentire, semplicemente perchè quella potrebbe essere l'unica strada di non perdere qualcuno che poi perderemo forse lo stesso, ma quanto meno avremo avuto la possibilità di tenerlo in vita, al sicuro, al caldo. Quando si ama forse basta questo, e forse questa è tra le bugie la più bella delle verità, è forse la menzogna più sincera, il manifesto del più naturale dei sentimenti. In quella vita vera, in quella "casa del sidro" qualcuno alla fine l'ha capito. Un operaio che molestava la figlia credendo così paradossalmente di proteggerla, quella figlia che poi, dopo aver abortito grazie l'ausilio di Homer, dopo la redenzione paterna, decide di scappare nel cuore della notte. Il padre quella volta non voleva fermarla, aveva capito, solo dopo i suoi innumerevoli sbagli, proprio come accade nella "vita vera", che era giunto il tempo di lasciarla andare, ma prima avrebbe voluto soltanto toccarla, per l'ultima volta. Perchè in fondo quando qualcuno decide di andare il nostro timore è di non poter più palpare quell'epidermide, è quello che manca, altrimenti il dolore per una mancanza non avrebbe alcun senso se riuscissimo ad incamerare tutto lì, in quella soffice scatola dei ricordi. Ma lei non l'aveva capito e allora lo colpisce con un pugnale. Ma prima di spegnersi quell'uomo dirà ad Homer di dire alla polizia che si è ucciso perchè triste al pensiero di non poter rivedere più sua figlia, in modo da non crearle alcun problema. Homer avrà forse assorbito tanti insegnamenti affacciandosi a quel mondo, ma lì, ai piedi del letto, stava forse realizzando un miracolo: il ritorno all'essenza, alla protezione dell'altro, al desiderio di morire perchè senza l'amore più grande della vita non si riuscirebbe comunque a vivere. Ma la vita reale è meschina, e te lo fa capire soltanto dopo esser scivolati nel fango, perchè, come dirà quell'uomo in fin di vita "talvolta occorre violare le regole per rimediare". A quali regole si riferiva? A quelle che crediamo ci assicurino una degna sopravvivenza, ma che in effetti dalla vita ci allontanano: un possesso che confondiamo con l'amore, uno scrollarci di dosso scomode verità per sentirci meno colpevoli fatto spesso passare per sincerità, la più meschina e la più vigliacca che poco sa di verità; un abituarsi in fretta a mancanze provvedendo a celeri sostituzioni invece di lasciare che lacrime solchino il viso, che il silenzio nella sua dignità prenda il sopravvento, di arrenderci al pensiero che qualcuno sia andato via solo quando siamo certi di aver fatto tutto ciò che era in nostro potere per trattenerlo, e non per possesso, ma per amore, per quel bisogno naturale di avere accanto chi andandosene via potrebbe procurare un dolore insostenibile, perchè sì una mancanza dilania, ferisce, uccide se è troppo profonda. Ma possiamo rimediare violando queste regole congetturali ed ipocrite, sprigionando un'incredibile energia che sa di libero amore che vuol fermarti ma che al contempo ti lascia andare, sperando presto in un ritorno.
Ed infatti Homer alla fine ritorna. Ritorna in quell'orfanotrofio a fare il dottore pur essendo un infermiere, perchè nonostante non avesse i titoli richiesti di quella professione conosceva ogni cosa. Perchè un titolo non fa di te necessariamente chi desideravi diventare. Chi vuoi essere spesso lo decide il tuo cuore, ponendoti di fronte scelte che non potrai ignorare, quella scelta che illuminerà il tuo tragitto come un faro, rendendoti libero, vicino al cuore, dentro la vita. Ritorna dai sorrisi raggianti di quei bambini, in quell'ambiente così magico, puro e disincantato. Alcuni penseranno che alla fine torna perchè oramai dalla vita aveva appreso tutto ed era pronto ad insegnare ciò che aveva imparato anche a loro. Ma forse non è proprio così. Forse Homer ha avvertito semplicemente il bisogno di ritornare alle origini, di tornare alle sue radici che lo avevano reso forse non abbastanza cinico per superare all'inizio le vicissitudini di quella vita cruda e violenta, ma paradossalmente forte, una forza derivata da una profonda umanità, dall'essere così diverso eppure così simile a ciò che ogni uomo dovrebbe essere, dal suo essere migliore, come chi era cresciuto in quell'orfanotrofio, dove non c'erano regole perchè talvolta occorre violare le regole per rimediare, ma chi vive in questo modo non ha bisogno di rimediare a niente se non di trasmettere all'esterno questa straordinaria essenza capace di compiere miracoli. L'unica regola è sempre stata quella di fare qualcosa per l'altro, è questo che rende migliori, è questa l'unica regola di cui necessitiamo, e le regole servono a questo, non ad allontanarci dalla vita, dall'umanità, dalle nostre radici. Solo se ci sforziamo ad essere migliori saremo capaci di incontrare persone migliori, di rendere migliore l'ambiente in cui viviamo, o a compiere miracoli avvicinando altri al miglioramento, avvicinandoli in fondo alla vita. Spesso è proprio dalle radici che trarremo le nostre risposte, è proprio alle radici che occorre tornare per capire dove siamo, dove siamo diretti, chi vogliamo essere, sono spesso le stesse radici a renderci migliori.

Un film che consiglio di vedere, quanto prima, a tutti. Sono certa che anche a voi piacerebbe conoscere un posto come quell'orfanotrofio, che trasmette un ineguagliabile scambio di naturale amore, un posto ove il dovere di aiutare l'altro si mischia alle calce delle pareti perchè in assenza di quell'imprescindibile dovere la stessa vita non avrebbe senso. Un film che insegna, che cela una tremenda bellezza in un'ineguagliabile semplicità, che finisce esattamente come aspettavi e speravi, proprio come la piega che la stessa vita dovrebbe prendere, ma che nonostante tutto non può non commuoverti.

Un libro, un film, una canzone, tutto ciò che sa di comunicazione, serve anche a questo: a trarre le risposte che cerchiamo, se siamo fortunati, o forse semplicemente particolarmente attenti.

venerdì 11 gennaio 2013

Si chiude una porta, si apre un portone.

Di fronte a grandi o piccole sventure quotidiane recito spesso tra me e me il detto "Si chiude una porta, si aprirà un portone", quasi come se volessi darmi la carica, per non smettere di sperare di alzare gli occhi al cielo e di intravedere un giorno un arcobaleno che prepotentemente si ritaglia uno spazio tra le nuvole grigie come la cenere che hanno mandato giù schizzi di pioggia che hanno bagnato l'asfalto sino ad impedire la visibilità dei marciapiedi, delle strade, delle albe e dei tramonti.
Ho aperto e chiuso così tante porte al punto da diventarne un'esperta, al punto da credere che in fondo sapessi fare soltanto questo, aprire e chiudere senza mai varcare però l' uscio della porta, restando poco o per niente. Tante altre volte pensavo di averla aperta rendendomi conto soltanto in seguito che in realtà quella porta non era mai stata spalancata del tutto bensì socchiusa, ancora altre la spalancavo ma dietro di me c'era sempre qualcuno che non mi permetteva di varcare l'uscio e che con indicibile arroganza me la chiudeva in faccia, costringendomi a vagare alla ricerca di altre porte da aprire. Ogni volta che dietro di me una porta si chiudeva ho sempre creduto che fosse arrivato il momento di aprire il portone, tramutatosi regolarmente in una porta ancora più piccola di quella chiusa precedentemente, in un cancello che non poteva essere scavalcato, talvolta ho avuto addirittura l'impressione di essermi imbattuta in una cuccia per cani. Credo di aver aperto e chiuso innumerevoli cancelli, porte di media grandezza, porte piccole e strette, talvolta nell'attesa mi sono fatta andar bene anche delle strettissime cucce per cani, ma non credo che i portoni mi siano mancati, solo che sono durati sempre quanto basta per un breve assaggio, i bocconi più prelibati che abbia mai ingerito, per poi essere costretta a chiuderli alle mie spalle per dovere, per esigenza o per amor proprio, o essere costretta a vederli chiusi da qualcun'altro al mio posto che forse credeva che quel portone era troppo grande o addirittura ancora troppo piccolo per me, nonostante in fondo nessuno glielo avesse ordinato. Il problema è che in realtà è proprio con le persone che non riesco ad indovinare mai la chiave giusta per aprire la porta. Talvolta ho voluto aprire porte a chi sembrava entusiasta di entrare, a chi si è accomodato per consumare il pasto, ha chiesto il conto e poi come un turista passato lì per caso è andato via chiudendo la porta alle sue spalle, talvolta senza lasciare una mancia, senza salutare, senza lasciare alcun messaggio. In effetti mi sono convinta di non pretendere mai niente di tutto questo, ma mentirei se dicessi di non aver mai sperato che qualcuno diventasse un cliente abituale, che in fondo qualcuno non si limitasse a complimentarsi del buon cibo gustato ma che decidesse di restare. 
Le persone invece mi hanno deluso parecchie volte, hanno spesso mentito palesandosi nella loro cruda e meschina essenza che non credevo potessero avere, assumendo atteggiamenti di indifferenza e di distacco indicibile che non sono riuscita a comprendere. Ma credo di aver deluso e mentito anche io, non così tante volte, ma qualche volta forse l'ho fatto anch'io. Perchè la verità è che quasi sempre cerchiamo negli altri l'alibi per discolparci, cominciamo la frase con "le persone", ma non siamo forse persone anche noi, io che scrivo e voi che ritrovando un po' di voi stessi in ciò che sto scrivendo state avvalorando la mia posizione?
Riesco in fondo a spiegare solo in questo modo i comportamenti deludenti, il chiudere porte poco dopo averle aperte, il non trovare mai la chiave giusta, riesco a dare una spiegazione a tutto questo solo convincendomi del fatto che la vita sia un ciclo e così tutto ciò che ne fa parte. Allora mentre diremo che qualcuno ci delude saremo forse noi l'oggetto della delusione di qualcun'altro senza nemmeno accorgercene, mentre qualcuno sarà l'oggetto dei nostri desideri proibiti lo saremo al contempo anche noi per qualcun'altro, mentre ci vedremo sbattere porte in faccia senza aver avuto nemmeno il tempo necessario per varcarne l'uscio staremo intanto forse chiudendo in faccia la porta a qualcuno, nonostante l'assurda convinzione di essere sempre e soltanto noi le vittime e mai i carnefici. Non lo so, forse questa risoluzione risolleva il morale, o forse questo tentativo di comprendere sempre tutto è sbagliato, perchè in fondo se la vita ed in particolare le persone potessero essere in qualche modo "spiegate", ognuno ci darebbe la possibilità di farlo, di aprire la porta con la chiave giusta, o a limite ci offrirebbe un libretto illustrativo per evitare gli effetti collaterali, che ho il talento di non aver mai evitato.
Un portone ove ripararmi dalle intemperie, di quelli che ti consentono di restare, di quelli imponenti e decorati, così belli da restare incantati, non sono riuscita ancora a scovarlo, non so nemmeno se esiste in realtà, non so se il destino me lo abbia riservato.Ma in effetti non ho mai temuto l'azione dell'aprire e chiudere porte, che talvolta ho chiuso piano per non far rumore, altre volte le ho sbattute per provocare volutamente un gran clamore. Non temo di non trovare il portone tanto desiderato al punto da essere in grado di superarlo e di restarci, ma temo molto di più che il mio incessante vagare alla ricerca di qualcosa di cui non conosco nemmeno la certa esistenza si tramuti in noia, in stanchezza, in disillusione, al punto di esser così stufa di vagare, di aprire porte che sai di dover presto chiudere, da non volerlo più fare, al punto di pensare che forse questo vagare non troverà mai un'unica grande meta. E' questo che temo più del continuare ad aprirmi e a richiudermi, forse il prezzo del non accontentarsi di guardare il mondo restando seduta sull'altalena legata al lampadario della tua stanza. Talvolta è avvilente anche l'ostinato tentativo di dover comprendere a tutti i costi, come se si stessero cercando colpevoli che nemmeno esistono.

mercoledì 9 gennaio 2013

Sei un degno utente di facebook se ...

3...2...1... Ready!
Sei su facebook! Gli americani ci sono riusciti anche stavolta ad inserire nel tuo linguaggio l'ennesimo termine americano la cui traduzione in italiano significherebbe "faccialibro", ossia "Una cagata pazzesca" per dirla alla Fantozzi, un po' come l' hot dog che evitiamo di tradurre per non pensare di mangiare un "cane bollente", "chattare", "spam", "post-it", "hotel", per non parlare del "bed and breakfast" che suona meglio dell'ospedaliero "letto e colazione", o del termine "single" che fa più figo del termine tradotto in italiano "solo", dietro il quale potrebbe nascondersi un "sono stata mollata per un'altra", "il mio ex ha scoperto di essere gay", "sono sfigata perchè incontro sempre uomini sbagliati", perchè oggi in fondo tutti temono la solitudine, nessuno vuol essere solo, ma tutti vogliono stranamente essere "single". Che paradossale contraddizione, eppure si tratta di termini, di definizioni, una questione per così dire, di "traduzioni". Quasi come se la lingua italiana dovesse fare un passo indietro, lasciar spazio a nuove terminologie, essere all'avanguardia rispetto la conclamata "globalizzazione", venendo mal visti quando sbagliamo la pronuncia dei termini di nuova importazione, mentre invece George Clooney è stato strapagato per ripetere "Immagina, puoi!" nonostante appaia come un balbuziente. Data questa breve premessa, vorrei però soffermarmi su questo fantastico social network che è facebook (altrimenti denominato faccialibro a dispetto di tutti gli anglosassoni), una delle più incredibili innovazioni della nostra era. Ma in Italia (parlo della mia Nazione perchè purtroppo o per fortuna non sono in grado di consultare anche le piattaforme internazionali) quando puoi dire di essere un degno utente di facebook, degno perchè riceverai un minimo di 30 mi piace agli status o tra i 40 e 60 mi piace alle tue fotografie?
Sei un degno utente di facebook se citerai Bukowski, Fabio Volo, Alda Merini, Marilyn Monroe, Oriana Fallaci, pur non avendo mai letto un loro libro, ma scoprendone l'esistenza attraverso citazioni pubblicate da altri amici di facebook che desidererai emulare con un rapidio "copia ed incolla" perchè vorrai essere degno anche tu di entrare a far parte di questa congrega di finti intellettuali, perchè se riuscirai ad ottenere almeno 30 mi piace ti convincerai di piacere e di essere in gamba. Sarai un degno utente se tu donna scriverai frasi sul vero amore e su quanto sia complicata la ricerca del principe azzurro dopo aver fatto conoscere il tuo corpo all'intero reame, cavalli compresi. Sarai un degno utente se tu uomo scriverai quanto sia difficile trovare una ragazza seria e con degli stimabili contenuti se continuerai a mettere al tuo fianco delle notorie bagasce. Sarai un degno utente se avrai famiglie allargate, contando due madri, tre padri, quattrordici sorelle, dieci fratelli, otto cugini, a limite anche una zia ed un nonno.
Ti convincerai di essere intelligente però solo quando scriverai frasi che verteranno sulla politica italiana nonostante tu non abbia mai ascoltato un telegiornale, abbozzando frasi del tipo "Il Governo fa schifo, mandiamo tutti a casa, tagliate gli stipendi ai parlamentari invece di aumentare le tasse", tutti salvatori della patria, in effetti non capisco perchè Monti non li abbia chiamati al suo fianco per risolvere la crisi economica.
Vogliamo poi parlare di questa invadenza nel voler conoscere la tua "situazione sentimentale" a tutti i costi? Vogliamo parlare di quello scostante "impegnato" optato dagli uomini e del "fidanzata ufficialmente" cui tendono invece le donne? Così facendo gli uomini subiranno la sindrome da "incatastamento", le donne si sentiranno messe da parte. Questo provocherà litigi e fraintendimenti nell'attesa che uno dei due possa cedere, o nei casi più estremi delle vere proprie rotture che saranno ufficializzate da una modifica al tuo stato sentimentale: Anastasia è passata da fidanzata ufficialmente a single. Trenta mi piace, ventiquattro commenti, tra cui l'estraneo di turno che inopportunamente scriverà quel banale "Ma che dici?Come mai?Vedrai che tutto si aggiusta". 
In effetti Mark avrebbe potuto risolvere il problema con la via intermedia del "fidanzato ufficiosamente", così da gettare un po' di fumo negli occhi alle donne, e garantire sogni tranquilli ad uomini timorosi.
Per non parlare delle coppie che decidono di iscriversi su facebook con un unico account, creando inverosimili profili con nomi e cognomi tutti attaccati tipo LinaDiGirolamo&EspositoStefano, con annesse foto profilo e foto di copertina con loro che si baciano fingendo passionalità mentre al momento dello scatto magari l'uno diceva all'altro "Amò, mi fa male il braccio, facciamo presto, dai va bene questa!" "Ma no amò che dici? Sto male, scattiamone un'altra", tutte rigorosamente ad occhi chiusi, di profilo, mentre le loro labbra si toccheranno. Si scambieranno in bacheca frasi che potrebbero scambiarsi anche in privato ma di cui, per essere dei degni utenti, renderanno partecipi anche noi, provocando per i più sensibili una sensazione di rigurgito.
Sei un degno utente di facebook se ti scatterai prima di uscire di casa una fotografia per far conoscere a tutti il tuo abbigliamento, se inserirai la tua posizione anche quando sei al cesso o andrai a dormire nel tuo letto (pensavo dormissi nella cuccia del cane), se ti scatterai foto con l'improponibile boccuccia a culo di bottiglia, che modificherai sino ad apparire una strafiga pazzesca, al punto che certe per strada non riesco a riconoscerle, pensando tra me e me "Ah ma tu sei quella figacciona? Eh beh, scusami tanto se sono una tecnologicamente ritardata e non so usare Photoshop!"
Alla fine Facebook è geniale, fa bene, è bello, ma ciò che è virtuale non significa che sia per forza reale. Credo che nemmeno Mark fosse pronto ad una piattaforma tramutatasi in un addescamento tra uomini e donne incapaci di comunicare in altri modi,ad una piattaforma da molti interpretata come fosse il muro del pianto, a volti, amori, amicizie, intelligenze e capacità propagandate per reali, ma pur sempre e solo virtuali.
Mark l'avrebbe forse evitato, in fondo gli americani temono la concorrenza.

martedì 8 gennaio 2013

Gli aeroporti.

Amo l'immagine di quelle persone che attendono in aeroporto chi sta per arrivare, avendo tra le mani un cartello con su scritto "Miss Murple", "Mr Giorgio Pinto", "Miss Alice Castellani". 
Amo osservare quelle persone che sapendo della presenza di qualcuno che li attende volgeranno lo sguardo tra i tanti cartelli per scovare il proprio, amo il sorriso di chi legge il proprio nome sul cartello e quegli sguardi luminosi che si intersecano tra chi con quel sorriso non dirà altro che "Ti ho trovato" e chi con la medesima smorfia sul volto vorrà dire senza pronunciarsi esplicitamente "Sono qui per te". 
Amo gli incontri in aeroporto, quasi come fosse quella la vera meta del viaggio, di quel vagare da città in città, per poi ritrovarsi in un abbraccio ristoratore che vuol dire nel suo silenzio "Sono tornata". 
Amo osservare l'andare e venire di persone di diverse nazionalità nelle sale d'attesa degli aeroporti. Talvolta mi sono soffermata anche ad osservare le lacrime e gli abbracci di chi lasciava sul pavimento non troppo distante da se il suo bagaglio prima della partenza. Immagino che quanto più sia intenso l'abbraccio, quanto più sia lungo il silenzio alternato da quel dignitoso rumore dei singhiozzi che lasciano spazio a lacrime che solcano il viso, più sia dura la partenza, più sia lungo il soggiorno di chi parte, più sia dolorosa quell'assenza per chi resta. Ma gli aeroporti mi piacciono, non solo perchè fanno pensare a viaggiare, una delle cose che adoro maggiormente fare, ma perchè in questo luogo credo che attraverso l'immagine delle persone che impugnano quei cartelli si nasconda una trepidante attesa, credo che avvenga uno scambio di un profondo quanto umano affetto che pur lasciandoti il cuore a pezzi, fermo, a tratti freddo è come se al contempo invece si dilatasse, corresse, ti desse conferme al decollo dell'aereo, perchè quella persona sta andando via e la sua mancanza ti irrigidisce i muscoli ma se sei lì significa che quel cuore che porti in petto quella persona che sta andando via l'ha riscaldato come nessuno ha mai saputo fare prima. C'è un enorme scambio di amore anche quando fremi al pensiero del suo ritorno, anche quando giungi in aeroporto in anticipo nonostante tu non sia una persona puntuale, quando l'entusiasmo ti gonfia, ti fa sembrare forse addirittura più alto, alla notizia che l'aereo è atterrato. 
Adoro quei posti come gli aeroporti che riassumono tutto quello che in fondo la vita comprende: arrivi, partenze e ritorni, atterraggi e decolli, ritardi, attese estenuanti, abbracci di riconciliazione, lacrime di nostalgia, scambi di amore, di affetto, di gratitudine che avvengono nel silenzio di due anime come se attorno non ci fosse altro, tra il rumore della folla che passa che loro non riusciranno minimamente a percepire perchè conta troppo quel saluto che sperano sia un arrivederci pur conoscendo il rischio che possa tramutarsi in un addio, sorrisi e sguardi che aspettano di ritrovarsi nei sorrisi e negli sguardi di chi li attende impugnando cartelli con su scritto un nome che in realtà significa semplicemente l'esserci per l'altro perchè certi rapporti sono destinati a vagare in uno spazio che sa di ignoto per poi rivedere la ricongiunzione dei fili che in fondo non si sono mai persi del tutto, che in fondo sono legati da sempre, per sempre. Amo quei posti in cui puoi percepire la fragilità dell'uomo dinanzi un allontanamento che provoca dentro ogni corpo un vuoto profondo quanto una voragine, il ricominciare di chi decolla, il mettere radici di chi atterra, lo sguardo perplesso ed ansioso di chi teme di non arrivare in tempo, il coraggio di chi aspetta e la gioia di chi sa che esiste qualcuno che ancora vuole esserci, quell'incredibile scambio di amore che avviene senza troppe parole ma nel silenzio lucente di sguardi e sorrisi che si scrutano per poi riconciliarsi, la dignità di chi resta inerme di fronte a saluti che intanto fanno il cuore a pezzi. Amo quei luoghi che raccontano tutto questo, quei posti dove le persone si incontrano trasmettendosi un pezzo di se l'un l'altro, quei posti che sanno di umanità, di vita, quella vera, quella che ti fa piangere e ridere, quella che ti strazia e ti entusiasma, quella che vuole che attendi perchè il tuo momento ancora non è arrivato, quella vita che ti costringe spesso a decollare per poi atterrare. Mi piacciono i posti così, dove se sei particolarmente attento riesci a palpare la vita, a percepirne il senso anche solo osservando in silenzio senza far troppo rumore, quei posti dove c'è talmente tanta vita da poterla tagliare a fette e conservarne un pezzo da portare nelle tasche, perchè ovunque ci siano persone c'è sempre un ineguagliabile scambio di vite.

lunedì 7 gennaio 2013

A Londra per una tazza di thea.

Ritornare in una città come Londra per soli tre giorni, una città che per parte della tua vita ti ha visto protagonista e allo stesso tempo spettatrice, sognatrice e disillusa, star e cameriera, cuore e cervello, è stato meno semplice del previsto. Con lo sguardo alto verso il Big Ben, tra le strade di Oxford Circus e Regent Street che conducono a Piccadilly circus, tra la folla dei venditori e turisti di Portobello, tra la stravaganza di Camden Town o gli artisti di strada di Covent Garden mi sono spesso sentita in un equilibrio precario, con la mente a lì ed allora, a quei mesi splendidi di vita che raffioravano come boccioli, come se ogni angolo di strada avesse un ricordo da cogliere, ma con il corpo qui ed oggi, in un momento diverso eppure così simile, con la gioia di chi ripercorre strade che è come se avessero lasciato le tue orme su di un asfalto ancora fresco, la lucidità degli occhi di chi comprende che nonostante l'aria che si respiri in fondo sia sempre la stessa, mentre tu ti sei fermata Londra correva, ed insieme a lei anche le persone. Pensavo di essere ritornata ma forse non è così, perchè a tratti ho avuto come l'impressione di non essere mai tornata del tutto, di essere rimasta lì come se i mesi successivi al mio ritorno li avessi vissuti ad occhi chiusi, sono rimasta lì, all'indirizzo Parmiter Street 23. Dovevo tornare a riprendermi. Non so se questa volta ci sono riuscita, perchè generalmente lascio un pezzo di cuore ovunque vada, in tutti quei posti che ti donano tanto e allora un pezzo di anima la lascio anch'io, quei posti che ti spingono a tornare per respirare aria diversa, in quei posti che per un po' hai chiamato casa, per ricordare, per vivere, per sognare, per toccare le corde più intime del tuo essere, una città in cui non mi sono mai fermata se non in metropolitana o su degli scalini quando volevo scrivere qualcosa su quell'agenda che porto sempre con me. Allora forse da città come queste io non torno mai, vado solo e ci resto. Ma forse stavolta una piccola parte di me è tornata, per dovere o forse proprio per il desiderio di pensare a me stessa senza lasciare che i ricordi prendessero il sopravvento, sono tornata da legami che pensavo fossero inossidabili ed invece oltre ad ossidarsi si sono addirittura sporcati del marcio di quelle persone che hanno l'attitudine di rimuovere, sostituire e gettarti come un fazzoletto che non serve più, lasciandoti senza parole, nonostante in genere ne abbia sempre tante da pronunciare in ogni occasione. Chi ha letto il post precedente sarà forse curioso di conoscere come sia andata, se abbia fatto o meno la fine dello Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre. Con profondo rammarico dico di sì. Ma mi sono accorta di aver fatto soltanto io la fine dello Sputnik perchè in fondo un noi già non c'era più da tempo, ancor prima della mia partenza. Io nei miei pensieri in quel caffè londinese sono entrata, al tavolino mi ci sono seduta e ho anche ordinato una tazza di thea fumante che ho lasciato raffreddare per gustarlo meglio. Ho aspettato per ore o forse giorni il suo arrivo, ma quella porta è rimasta sempre chiusa. Ho provato per l'ennesima volta a comprendere e a cercare giustificazioni fin quando mi sono detta "Basta, devo tornare". Non c'è più tempo per vagare senza mai incontrarsi come lo Sputnik, non c'è più un noi, non c'è più tempo per i ma i se ed i forse, allora ai rimpianti ho preferito delle amare e laceranti delusioni, scontrarmi contro un muro le cui pareti ho scoperto essere di cartapesta, perchè in fondo esistono anche queste persone: quelle che alla tua partenza ti salutano con gli occhi gonfi, ricordandoti di quanto tu sia una bella persona per loro, quelle senza le quali non avresti mai pensato ad una permanenza migliore di quella vissuta ma che quando torni anche un saluto riescono a negarti, anche i ricordi riescono a sporcare, seminando dentro di te la convinzione che forse è vero che chi si accontenta gode ed io forse mi sarei dovuta accontentare del lì ed allora senza aspettarmi altro, perchè così forse quei ricordi sarebbero restati intatti senza mai sporcarsi, il mio cuore non avrebbe smesso di credere nell'esistenza di persone speciali, l'amore che covo verso qualsiasi persona, cose o città non mi avrebbe bruciato. Ma forse questo era necessario per tornare da quei legami che altrimenti sarebbero restati sempre appesi ad un filo, in balia dei condizionali, per cavalcare quello che è in fondo il mio motto, la politica del "Lasciare che sia", per non mortificarmi più del dovuto, per lasciare che tutto passivamente scorra sul mio corpo, per sperare, nonostante con un cuore colmo di delusione sia difficile, di incrociare un giorno persone che riescano a cavalcare la mia stessa onda, con meno parole, più silenzi, maggiore rispetto e profondità d'animo. Altri invece mi hanno allietato, infatti una delle domande più belle che abbia ricevuto in questi giorni da un'amica lasciata a Londra in settembre e incontrata in questi giorni è stata: "Ma quando scrivi un libro?Io sarei la tua prima lettrice!Ti seguo sempre ..." e so bene che alla lettura del tanto atteso "post del ritorno" starà proprio in questo momento sorridendo. Tutto questo mi è servito per comprendere una cosa molto importante. Quando sono ritornata in Italia a settembre ero completamente vuota, schiacciata dai ricordi e dai rimpianti, ancorata a legami che avrei voluto continuare ad alimentare credendo che la distanza non fosse un ostacolo così insormontabile per rapporti improntati sull'autenticità e sulle parole mai pronunciate per caso, con un'anima colma di mancanze. Adesso il mio ritorno mi vede invece tutta intera, con dei ricordi che avrei voluto lasciar puliti ma che le persone o forse il fato per suo dovere ed esigenza di proteggermi ha voluto sporcare, senza parole ma solo certezze, legami che ancora ci sono ma altri spazzati via da quel tempo che ha moltiplicato le distanze gettandomi in un pozzo. Ho avvertito una sola vera mancanza che sembrerà per molti assurda ma non meno di quanto lo siano certe persone che ho il "talento" di incrociare lungo il mio tragitto, non meno di certi atteggiamenti che non lasciano spazio a commenti: scrivere. Devo dire che questa volta rispetto ad allora ho sentito di tornare da qualcosa che avevo l'esigenza di riprendere per non sentirmi a metà: la tastiera del mio pc, le dita che veloci scorrono sui tasti, la mia ispirazione che prende forma in un conglomerato di parole che sono solo il frutto delle mie sensazioni che in modo diverso da questo non sono in grado di sciogliere. 
Avevo in fondo bisogno di tornare ad essere tutta intera, qui, adesso. Oggi lo posso dire, nonostante in fondo al mio cuore penso a Londra come a quell'uomo di cui conosci ogni dettaglio, ogni smorfia del viso, che ami follemente nonostante talvolta abbia il vizio di tradirti, ma che tu ogni volta perdoni, perchè credi che il perdono sia la virtù dei pochi che sappiano cosa significhi amare, perchè sai che a suo modo anche lui ti ama, sai che in fondo è l'uomo della tua vita o di parte di essa ed allora sarai anche in grado di aspettare, di andar via, ma di tornare di tanto in tanto, per poco o per restargli accanto, ma sempre tutta intera, senza mai lasciare che gli eventi ti mortifichino e ti annullino, come fa chi ama e chi proprio per questo perdona.

giovedì 3 gennaio 2013

Un trolley, un libro, un'agenda.

Ho un trolley di un arancione inconfondibile nell'angolo della mia stanza accanto alla porta contenente pochi vestiti, quanto basta per un weekend. Ho anche un'agenda, quella che da un po' porto con me nella borsa perchè talvolta mi piace appuntare quello che vedo, magari troverò ispirazione stando stesa sul prato con lo sguardo alto verso il Big Ben. Ho un libro che sto leggendo nella borsa, dal titolo "La simmetria dei desideri", di un autore israeliano, un altro sulla scrivania che comincerò quando finirò il primo, dal titolo "La ragazza dello Sputnik" dello scrittore giapponese Murakami Haruki, uno dei miei scrittori preferiti. L'ho acquistato giorni fa ed ero indecisa, ma mi è bastato leggere i primi righi della recensione per sceglierlo: "Sumire è una ragazza impulsiva, disordinata, generosa, con il mito di Kerouac e della scrittura. Myu è una donna matura, sposata, molto ricca e molto bella. Sumire ama Myu come non ha mai amato nessun ragazzo e Myu parrebbe provare lo stesso sentimento, ma uno schermo invisibile sembra separarla dal sesso e forse dal mondo. Riusciranno ad incontrarsi o si perderanno senza lasciare traccia come lo Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre?" Lo prendo. E chi mi conosce ha subito capito perchè. Perchè parla di una particolare quanto attuale e reale forma d'amore che non appartiene alla mia persona ma la verità è che a me basta che si parli di amore e trovo tutto molto affascinante. Mi sono rivista forse in Sumire quando la si definisce "impulsiva, disordinata, generosa, con il mito della scrittura". Ho anche io il timore di non lasciare alcuna traccia. Ho immaginato uno stralcio di vita alla lettura della domanda finale, paragonando un po' di me stessa allo Sputnik. Non pensavo al momento dell'acquisto che questo interrogativo fosse in parte anche la trama dei prossimi tre giorni a Londra, non pensavo di venire a conoscenza delle solite verità scomode che anzitutto feriscono il mio orgoglio di donna così presto, così vicino ad una partenza che fino a ieri mi rendeva entusiasta, oggi quell'entusiasmo si sposa con un po' di paura e un sottile velo di rammarico. Forse deciderò di prendere una tazza thea in un qualche caffè del centro, vi entrerò trafelata mentre tento di chiudere l'ombrello o forse ci sarà un inaspettato splendido sole. Forse mi aspetterà al tavolino o forse dovrò io aspettare lui. Forse saremo imbarazzati perchè è passato tanto tempo per lui, per me è come se ci fossimo salutati solo l'altro ieri. Forse cominceremo a parlare a vanvera senza toccare l'argomento, cominceremo a sorseggiare il nostro thea solo quando si sarà raffreddato ed una volta finito ci saluteremo e andremo via, di nuovo, ognuno per la sua strada. O probabilmente ci sputeremo in faccia le nostre verità sin da subito, non potendo sbattere porte cominceremo ad inveire l'uno contro l'altro, ma alla fine il risultato sarà sempre lo stesso. Ci saluteremo, e andremo via, per le nostre strade diverse nonostante il mio tentativo di cogliere una qualche minuziosa similitudine in un quadro che nulla più in fondo racconta, io seguirò la mia dai contorni indefiniti, lui andrà da lei. Non so quanto senso abbia tutto questo. Non c'è amore, passione, orgoglio, sembra non esserci niente se non l'amarezza dei ricordi, se non il desiderio ancora una volta di andare a fondo e risalire, come in fondo sempre mi accade, se non il desiderio di affrontare paure, esprimere opinioni, vedermi gettare in volto verità che forse nemmeno mi interessano ma le esigo, alzandomi poi come una donna fiera, svoltando l'angolo con una triste lucidità degli occhi che ancora una volta non troverà colpevoli, ancora una volta non sarà per nessuno ma semplicemente per ciò che avrei potuto avere in quella vita a me troppo distante, oramai lontana, passata, irraggiungibile, che in fondo non mi è mai appartenuta pienamente.
O forse faremo esattamente come lo Sputnik: vagheremo senza mai incontrarci.
Il vagare è un po' il motore della mia vita, ma anche l'amore lo è. E' questo il più grande paradosso, perchè vorrei tanto piantare radici vagando, ma è come pensare di far fiorire boccioli senza mai innaffiarli: una contraddizione in termini. Ma io questa vita in fondo l'ho scelta perchè mi rende viva, e c'è sempre un prezzo, a volte parecchio costoso, perchè la vita non fa sconti nè regala alcunché. Ma oggi c'è un trolley di un colore vivace nell'angolo, un'agenda con pagine da riempire nella mia borsa, un libro da leggere che attende di essere ultimato nella borsa ed un'altro da iniziare sulla scrivania, il primo un inguaribile manifesto sul tema dell'amicizia, il secondo su di una particolare forma di amore, quasi come se quest'ultimo non volessi portarlo con me, non per mia scelta, ma credo sia giusto che attenda sulla scrivania il suo tempo che talvolta ho come il timore che possa non arrivare mai, ma lo lascio qui perchè il mio cuore non venga dato in pasto al migliore offerente, perchè sia sempre io quella che dovrà scegliere a chi donarlo, passeggiando sulla mia strada. Allora oggi scelgo di essere un trolley non troppo pieno ma di un inconfondibile e vivace colore arancione, pagine di un libro che dovrò terminare, pagine di un'agenda quasi nuova che desidero riempire, lasciando che sia, come le note di una delle mie canzoni preferite. Perchè sono quella che in fondo porto sempre con me ed è importante che me ne ricordi, di tanto in tanto.
Non ho ancora letto il libro che è sulla mia scrivania, ma in fondo da inguaribile romantica spero che Samire e Myu riescano a ricongiungersi ed amarsi, nonostante il loro incessante vagare, lo spero nonostante in fondo credo che anime come loro siano destinate ad un'unica fine, una fine che per molti potrebbe apparire triste ed insoddisfacente, ma in fondo è solo il prezzo da pagare per chi sceglie di non fermarsi al corridoio della propria casa, ma sperimentare sempre nuove e diverse strade, nonostante spesso i loro passi ritorneranno a calpestare lo stesso ruvido asfalto della propria unica e sola strada: quella dello Sputnik. 
Vi aggiornerò sull'epilogo quando terminerò la mia lettura.