domenica 27 settembre 2015

Il viaggio più bello che una persona possa fare

Non ricordo il preciso momento in cui una mansarda per due sia diventata la mia casa.
Ma so che il suo divenire ha seguito un ritmo lento, mentre compravo piante da porre sul davanzale della finestra con il proposito di maturare il pollice verde (che non è mai nato), mentre compravo ingredienti per cucinare un dolce (che ho preparato solo un paio di volte), e mentre appendevo poster alle pareti evitando di lasciarvi segni (che inevitabilmente si sono trasformati in buchi).

Prima di allora c'era un appartamento per sei, ed ancora prima uno per dodici. In nessuno dei due ho comprato piante, preparato dolci per tutti i coabitanti ed avevo solo qualche fotografia attaccata con il nastro adesivo ai lati dell'armadio, per non macchiare le pareti. In nessuna di queste, in verità, ho provato una sensazione simile a quella del sentirsi pienamente a casa. Quella in cui hai la libertà di camminare scalza, senza pensare a quanti microbi stiano facendo capriole nella moquette che riveste il pavimento. Quella in cui puoi sederti sul divano, senza immaginare di dover chiedere un tuo spazio ad altri dodici. Quella in cui se ti scappa la pipí, non sei costretta a fare la fila come se stessi in un bagno del Mc Donald's.

Eppure anche quelle, assumendo toni differenti, erano la mia casa, pronunciandone i suoni in modo poco deciso, come quando leggi una frase tra parentesi che credi sia poco importante.

Ma il tempo insegna che quello che credi abbia un valore approssimativo, diventa spesso quel tassello che congiunge tutti i punti, ciò che si traduce nella causa di tutti i passi successivi e che ne spiega le conseguenze.

Allora sono partita dall'inizio, da quando desideravo di girare il mondo e poi ad un certo punto mi sono fermata. E non perchè stessi rinnegando i miei voleri. Ho semplicemente avvertito quel bisogno naturale di ogni essere umano di sentirsi a casa anche lontano da casa. Quel bisogno di costruirne una, che fosse per dodici, per sei o solo per due, in cui poter veder crescere o seccare le proprie piante, in cui comprare ingredienti per preparare una torta o riporli nel frigorifero, in cui appendere alle pareti i propri ricordi, per guardarli ogni tanto cosí da ridurre la responsabilità della mia mente: quella di raggrupparli tutti in cesta che pur diventando talvolta troppo pesante, decidi di lasciarla lí, proprio sopra la tua testa.

Ma ho cercato di fare un gioco con la mia vita. Come quando entri in un supermercato, compri quello che desideri, approfittando a volte delle offerte, altre accontentandosi di quello che si trova, altre ancora trovando esattamente quello che stavi cercando, pagandone il conto alla cassa al termine del tuo giro. Allora per ogni anno che passa, prima di gettarlo alle spalle e ricominciarne un altro, leggo la lista delle cose che ci ho messo dentro, la analizzo, e poi la pago, tutta.

Ed è stato allora che ho scoperto di quanto più che vagabondare, io desideri che ogni anno sia sempre diverso da quello precedente e dal successivo. Quanto io desideri sperimentare quanti nuovi prodotti sia in grado di mettere nella cesta. Quanto sia grande il mio bisogno di crescere insieme ai miei sogni, e di andare avanti, di anno in anno, nella loro ricerca, nell'appuntarli come su di una lista della spesa, nel pagarli, e nel cercare poi qualcos'altro da aggiungervi.

Credo sia questo il senso del viaggio, quello intimo che silente si insidia nelle fessure di un'anima pronta a sperimentarne tutte le sfumature, e certa di non volersi mai fermare. Pur mantenendo una casa in affitto, continuando a far seccare le proprie piante e a nascondere i buchi alle pareti con altri poster.

Ed è in quest'intimo vagabondare per sentieri che non si conoscevano che si scopre che c'è qualcosa che non cambia, nonostante ci si imponga di farlo. È una sensazione costante rispetto l'anno precedente, che forse l'anno seguente sarà attutita, o forse no, ma sarà sempre lí a chiederne il conto.
E tu forse non riuscirai a pagarlo, te lo trascinerai dietro, prima di capire che quelle sono le cose importanti. Quelle che non potrai appendere alle pareti, nè riporre in una cesta, quelle che credevi di aver cancellato dalla lista. Quelle di cui forse un tempo avresti dovuto prendertene maggiore cura, ma avresti inevitabilmente modificato il corso degli eventi. Quelle che nonostante tutto però restano lí, perchè è in quella zona grigia cui sono state destinate, perchè un tempo ti hanno fatto sentire a casa ed una persona migliore, forse.

Non so quanto sia vero ciò che si dice in giro, che si lascia un pezzo di cuore ovunque tu vada e si costruisce in ciascuno una dimensione che poi imparerai a chiamare casa. Io ho lasciato porzioni di cuore importanti o anche pezzi più piccoli. Tutto il mio cuore o proprio niente. Ma mi piace pensare che sempre, ovunque e con chiunque, io abbia fatto il più bel viaggio che una persona possa fare: ho vissuto, in tutti i modi in cui una persona possa vivere.

domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.

giovedì 17 settembre 2015

Homesick: la nostalgia non é una malattia

Nel posare la tazza di tea fumante sul tavolo, ho guardato il grigiore delle nuvole fuori dalla finestra che facevano da cornice ad una sequenza di tetti spioventi color rame, e ho realizzato quanto la stagione autunnale fosse oramai alle porte. Diciamo che in Inghilterra il suo spirito aleggia nell'aria anche prima, facendo in modo che tu non subisca alcun cambiamento climatico radicale e tenendo sempre la maglieria pesante su di una mensola dell'armadio anche in pieno agosto. Ma forse con l'ufficializzazione dell'autunno data dal calendario, mi sentirò in dovere di indossare il cappotto nuovo e di guardare alle decorazioni natalizie non più come fosse una data troppo lontana.

L'aria più fredda, i colori spenti del paesaggio circostante, le foglie ingiallite che tra poco cominceranno a staccarsi dai loro rami, lasciano pensare ad una nostalgia che non può risparmiare nessuno. E ci pensavo proprio quando in un vagone della metropolitana ho avvertito d'un tratto i profumi di casa, prima che una donna mi si sedesse accanto sgranocchiando patatine al formaggio, la cui puzza non avrebbe risparmiato nessuna narice, nemmeno se avessi avuto il raffreddore.

Come quando torni a casa e alla domanda "come stai?" vorresti trovare un termine adatto. Uno soltanto che eviti la perifrasi sto bene ma a volte ci si sente molto soli. Non soltanto in autunno. Non solo quando cadono le foglie. E neppure solo quando hai una tazza di tea tra le mani che ti riscaldi.
É come un singhiozzo che dura 365 giorni l'anno, anche quando pensavi di aver deglutito abbastanza per lasciartelo passare. È una nostalgia che non si attutisce mai, ma che può essere domata concependola non come fosse una malattia da cui non si guarisce.

Ogni volta basta pensare al tragitto fino ad ora percorso, a quei mattoncini che abbiamo con cura posto gli uni sugli altri, a tutti quei granelli di sabbia che abbiamo fatto scivolare tra le dita, a quella linea all'orizzonte che ogni volta appare sempre più nitida al punto da immaginare di oltrepassarla. Occorre pensare al perchè si è iniziato, ed allora anche la nostalgia diventerà meno amara.

Siamo noi a decidere anche questo: se morire di malinconia, o vivere di aspettative.

Io ho scelto di sentire i profumi di casa prima di realizzare che l'unico profumo esistente fosse quello di patatine al formaggio sgranocchiate dal vicino. Ed ho scelto di farmi entrare nelle narici anche quello, in un vagone che segna un viaggio verso una nuova destinazione. Ho scelto di bere una tazza di tea per riscaldarmi, di essere pronta alla caduta delle foglie prima del previsto e di guardare gli schizzi di pioggia che formano pozzanghere sull'asfalto perchè non posso guardare il mare.

Ma chi conosce la direzione da seguire, non si ammala di nostalgia, piuttosto impara a domarla.