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domenica 11 febbraio 2018

Goccia dopo goccia

L’ho fatto tante volte. Riempire gli spazi, in cui non riuscire ad identificare un punto d’inizio ed una fine. Così, con una goccia dopo l’altra, credevo di riempire il bicchiere. A volte ho aspettato lo facesse il tempo, raramente è stato il tempo ad aspettare me. 

Ci vuole pazienza a riempire la vita con un contagocce. Troppa fantasia ad immaginare il mondo riflesso in una goccia che brilla solo in controluce. Follia, un pizzico, a credere che possa bastare, ma resilienza, smisurata, per convincersi che, goccia dopo goccia, il mare non sia poi così lontano.

Allora, ho riempito il contagocce, l’ho agitato sino a svuotarlo tutto in una volta. Credevo bastasse un unico grande sforzo. Ma non sono riuscita a sentire il rumore del mare, delle sue onde che battono alle pareti rocciose per poi perdersi nell’aria, tornare indietro e ricominciare tutto da capo.

Così, ho riempito il contagocce, prestando attenzione. Al modo, alla misura, al tempo. Un gesto svelto, preciso, di un secondo appena. Istanti intervallati da silenzi così lunghi da sembrare quasi eterni, prima di essere interrotti da un altro istante, in cui la goccia si posa sul fondo del bicchiere, potendone avvertire persino il rumore. Ma il mare mi è apparso sempre troppo lontano.

Ho pensato, per un breve periodo, che ci si dovesse appropriare di uno strumento per equilibrare la vita, così da farla sembrare lineare in cui addirittura le sbavature riescono a seguire una linea retta. Uno strumento con cui misurare lo spessore delle persone da avere accanto, così da poter essere presenti ma non troppo. Uno strumento con cui misurare le relazioni, che avessero la parvenza di qualcosa di umano, senza necessariamente esserlo, restando in superficie. 

Uno strumento per essere cauti, ma non troppo.
Per fare delle scelte, ma non quelle che fanno paura.
Per concedersi, solo a piccole dosi.
Per immergersi in acque che abbiano la giusta temperatura, mai troppo calde o gelate.
Per arrivare a metà, tra la superficie ed il fondale, così da essere pronti a tornare indietro.
Per essere coraggiosi, senza però mai commettere sciocchezze.
Per dire sempre la cosa giusta al momento giusto.
Per credere solo alle parole scalfite sui muri, non a quelle sulla sabbia portate via da una folata di vento.
Uno strumento per discernere una sagoma da una persona, un volto da lineamenti facciali che esprimano un’emozione qualsiasi sia l’espressione assunta.

L’ho fatto, prima di capire che quello strumento non aveva nulla a che fare con me. Così, ho cominciato a credere che non dovessi farmi piacere necessariamente quello a cui per natura non mi sarei nemmeno mai accostata. Solo per riempire uno spazio. Ed è stato allora che ho appurato che ho sbagliato, senza credere però di aver commesso necessariamente un errore, perché poi ho imparato. 

Tutte le volte che ho usato il contagocce per voler essere cauta, quando forse avevo solo paura di fare delle scelte importanti. Quelle che poi sono esplose, alcune soltanto in un gran fracasso, altre in fuochi d’artificio colorati durati solo pochi minuti, di quelli che però agevolano lo slancio. Altre ancora silenziose, di quelle che però riesci a scriverti dentro, diventando non uno strumento ma un punto da cui partire con cui misurare la vita. 

Così ho sbagliato, tutte le volte che ho creduto di dividermi in dosi, perché sono una persona, tutta intera. Tutte le volte che ho voluto constatare la temperatura dell’acqua prima di immergermi e tutte le volte che sono rimasta a metà, tra la superficie ed il fondale. Perché alla paura di scottarmi, di gelarmi, di non riuscire a tornare indietro, ne è sopraggiunta un’altra: quella di non vivere abbastanza.

Così ho sbagliato, come tutte le donne convinte di possedere un’innata insicurezza, a temere di commettere sciocchezze. Il coraggio non è mai sciocco, ma consapevole che essere umani significa non essere esenti da errori, ma provarci comunque. 
Così ho sbagliato, a credere solo alle parole che sembravano eterne perché scalfite nella pietra, perché il tempo le consuma, anche quelle. Ed ho sbagliato, tutte le volte che mi sono imposta di capire chi avessi di fronte, perché anche a quello ci penserà il tempo. 

Così ho sbagliato, ma poi ho imparato. 
Che non sarò mai quella persona dedita a misurare il tempo, le persone, me stessa.
Che non ho bisogno di riempire il mio tempo, perché il mio tempo è tutto ciò che conta: non vuole che riempia vuoti con vuoti, che sia precisa a centellinare ogni singola goccia, che lo svenda con ciò che non voglio, che non trasmette, che non mi sa di vita.
Che non si può immaginare il mare se non si riesce prima a crearselo dentro.

Me ne dovevo liberare e adesso riesco a sentirlo.
Che con le sue onde batte violentemente contro le pareti di una scogliera, per poi perdersi nell’aria, tornare indietro e ricominciare tutto da capo.
Riesco a sentire il rumore delicato di quelle che sul bagnasciuga riescono a toccare a malapena i piedi che sprofondano nella sabbia umida.
Riesco a sentire il profumo della salsedine.
Il tiepido calore di una giornata di fine estate.
I colori pastello del sole che si nasconde all’orizzonte.
Il mare. Adesso riesco a vederlo.

domenica 7 maggio 2017

Per rinascere, ancora

A volte penso alla risposta da dare se qualcuno mi chiedesse a quanti anni sia iniziata la mia vita.
Non un numero che ci leghi ad una sfera anagrafica, piuttosto a quella emotiva.
Perché si può nascere a venti, a trenta o cinquanta. 
Lo si può fare tante volte.
O per qualcuno non capita mai.

Io credo di essere nata a 19 anni.
Una sera di gennaio dopo aver fatto la doccia, mentre pettinavo i capelli, allo squillo di un telefono. Dovevano essere circa le sei del pomeriggio.
È allora che sono nata.
Mentre lui se ne andava.
Come se ad una morte, inaspettata, avessi voluto far combaciare una vita, la mia.

Quando ho staccato il cordone ombelicale non credevo sarebbe stato così difficile. 
Non in quel momento, ma tutto quello che ci sarebbe stato dopo.
Cercare di stravolgere tutto quello che era stato e creare una nuova dimensione da stigmatizzare come fosse un credo cui poter apporre un'etichetta che tante volte ha cambiato nome, ma che in fondo avesse sempre il medesimo significato: sono questa. Adesso per allora, e non posso cambiarne i connotati.
Difficile immaginare il mondo che avrei voluto creare, dentro e fuori di me, negli occhi di qualcun altro.

Da allora sono nata tante altre volte.
Quasi come se non riuscissi a farne a meno. Ma ho pensato sempre, tutte le volte, a quel momento per ricordare quello che ho promesso di fare e dare un senso.
E che ci sarà sempre modo di migliorare, ma che indietro non posso tornare.

Come se avessi imparato, col tempo, a vivere non solo per una persona sola, ma per tante, troppe, tutte dentro di me. A dar voce ad ognuna di queste e ad accondiscere a ciascuno dei loro bisogni.

Allora, per esempio, ho imparato a non voltarmi dall'altra parte, anche quando l'amor proprio lo imporrebbe come condicio sine qua non per non farsi troppo male. A non abbandonarmi alle cose sterili, e nel voler ostinatamente trovare qualcosa di intimamente profondo anche quando un giorno ti svegli e scopri di averlo immaginato, ma che in fondo non é mai esistito. A fare tanti errori, uno dietro l'altro, da cui imparare che l'umanità é imperfetta e la sfida sta nel saper perdonare. Ad essere anima, prima che corpo. A mettere il cuore al centro di tutto e a dare cento anche quando avresti a mala pena dovuto concedere venti. A capire che non si vive a puntate e a scadenze, ma tutti i giorni, in ogni tempo, perché é questo che ci é dato. Domani chi lo dice che non possa essere tardi.

Ho imparato a dare valore alle cose, ma non ancora a riconoscere quelle cui attribuire il valore che gli spetta. 
A trovare forme d'amore in ogni cosa.
A cercare di capire.

Una volta qualcuno mi ha chiesto perché tentassi di capire anche ciò che non é dato comprendere e che poi forse non avrei potuto capire comunque. Ho risposto che non lo sapevo ma che ero fatta così. 

Credo che abbia a che fare con il fatto che sia nata per la prima volta a 19 anni, e che ancora con l'ingenuità che caratterizza i bambini io ci provi comunque, nonostante tutto, come se avessi appena nove anni.

Ma come un credo che ci si sviluppa dentro, non si può pretendere da se stessi di spiegarlo, né che qualcuno lo comprenda. Dovrà possedere la sensibilità di leggercelo negli occhi, e ci dovrà accompagnare tenendoci per mano.

Ogni volta mi sorprendo ma poi lo ricordo.
Nove anni fa ho siglato un patto col sangue. 
Mai più personcina, ma persona.
Mai più solo testa, ma anche cuore.
Mai più silenzio, ma tante parole se possono aiutare.
Mai più ignorare telefoni che squillano, ma alzare, forse, la cornetta per primi.
Mai più giudicare, ma parlare per capire.
Mai più bugie, ma solo verità.
Mai più abbandonarsi a ciò che appare, ma scoprire ciò che é. 

Non so se ci sono riuscita, anzi sono certa ci sia ancora tanto da imparare.

E vorrei un mondo circostante così.
Dove si entra pagando il biglietto perché tutto ha un prezzo.
In cui si resta solo se non se ne può fare a meno.
Un mondo in cui si impara a costruire, con pazienza, cose belle. 
Ma a demolire, in egual misura, ciò che non lo é. Tutta la finzione che trasciniamo e che é destinata a restare tale: un pugno allo stomaco dato per svegliarci.


Per rinascere, ancora una volta.

giovedì 20 aprile 2017

A metà strada

A metà strada tra l'equilibrio e la follia.
Tra l'amore per se stessi e quello che nelle forme più disparate si rivolge agli altri.
A metà tra l'individualismo ed il bisogno, umano, di riempirsi degli altri.
A metà strada tra la solitudine e lo stare con altri.
Tra occhi profondi e quelli che a volte necessitano di rimanere chiusi.
Tra sorrisi spontanei e quelli che gradatamente si spengono.
Tra volti estranei e quelli che profumano di familiarità.
A metà strada tra l'essere se stessi in questo tempo e quello che si potrebbe essere un domani.
A metà tra l'istinto ed i doveri morali.
Tra la spensieratezza e le responsabilità.
Tra il buio e la luce.
Tra un giardino fiorito ed una campagna bruciata.
Tra l'infinito del mare e il finito di se stessi.
Tra un soffione ed uno stelo di un fiore già appassito.
A metà strada tra il cristallo e la roccia.
Tra le debolezze di oggi ed i punti di forza di domani.
Tra quello che siamo e quello in cui dobbiamo migliorare.
A metà tra gli errori e la capacità di perdonare.

A metà strada. È lì che vorrei stare. È dove in fondo vorrei mi cercassero tutti.
Un posto in cui si procede a passo svelto e si decelera quando se ne avverte il bisogno.
In cui non si nasconde nulla. Niente di brutto, ma nemmeno di bello.
A metà, che non significa non sentirsi pieni, piuttosto venirsi incontro. Anche con quella parte di te che avevi imparato ad ignorare.
A metà, che significa accondiscendere, capire, perdonare, mai biasimare. Ma saper dire basta quando ti sembra abbastanza.
A metà, che significa saper agire più del subire.
A metà, che significa avere un cuore che batte e mostrargli rispetto. Almeno a lui. Che continua a farlo sempre, a ritmi costanti.
A metà, che significa compiacere mai al prezzo della propria dignità.
A metà, che significa crescere, con consapevolezza, ma mai più di quanto lo si esiga.

Sono lì. A metà strada. Non perché qualcuno venga a recuperarmi. Si sta bene, spesso, a metà. Con il ricordo dell'inizio, l'entusiasmo della traversata, la gioia di scoprire cosa ci sarà al traguardo.

Ma non saremo metà. Né avremo bisogno di metà cui aggrapparci. 

Saremo interi, in uno spazio che oscilla tra la fine di tutto e l'infinito delle cose che saremo in grado di creare.


A metà strada. È lì che creiamo la vita.

venerdì 14 aprile 2017

48 ore

Tra poche ore avrò il solito volo last minute per raggiungere casa.

Quelle 48 ore in cui vorresti farti una scorta di abbracci che ti possano bastare sino al prossimo ritorno. Che poi, non basteranno mai. 
Quelle 48 ore in cui deciderai di fare cose, rinunciando inevitabilmente ad altre. Quelle cose, che anche se te le senti di fare, non basteranno comunque.
Quelle 48 ore in cui cercherai il tepore di casa, pur avendone in fondo costruito un'altra con grande sacrificio. Ma anche quella, molto spesso, non basta.
Quelle 48 ore in cui cercherai di inseguire gli sguardi, nonostante nella tua quotidianità abbia imparato a guardare altrove. Pure quello, quando ti ci fermi a pensare, non basta.

Ma quando quest'anno ho soffiato la mia 28esima candelina, ho pensato che dovessi cambiare qualcosa. Non le circostanze che ho creato, né i mattoni che con premura abbia messo l'uno sull'altro, continuando ostinatamente a farlo. Che non si può vivere, serenamente, pensando che manchi sempre qualcosa. 
Credendo, in fondo, che nulla basti.
E non perché dobbiamo imparare a bastarci. Dobbiamo imparare ad amarci, é un'altra cosa. 
Così cominceremo ad amare anche un volo last minute di soli due giorni.
L'attesa di un autobus notturno che ci conduca a destinazione.
La valigia semipiena che diventerà stracolma al tuo ritorno.
Gli sguardi che non fuggono, ma che puoi incamerare e portare con te.
Il tuo poco tempo a disposizione. Soprattutto quello.

E non perché, come qualcuno dice, le circostanze esterne non debbano influenzare lo stato d'animo. Noi siamo fatti anche tutte le persone che incontriamo e di tutto ciò che ci accade.
Andare oltre significare ottimizzare quel tempo e fartelo bastare.

Ci sarà sempre qualcosa in più che pretenderai da te stesso.
Qualcosa che vuoi ma che questo tempo non potrà offrirti.
Qualcosa di più dolce.
Qualcosa che possa appagarti di più.
Più presenze.
Più abbracci.
Più cuore.

Ma la verità é che talvolta ce l'abbiamo già, sotto forme ed intensità diverse.

Allora dovremmo pensare che non c'è più tempo per pensare a ciò che non basta.
Non dovremmo maturarne il desiderio.
Non dovremmo dargli spazio.
A lui, come a chiunque ce lo lasci pensare.


Perché in fondo, forse, anch'io vorrei bastare.

mercoledì 12 aprile 2017

Le parole sono importanti

Le parole sono importanti, ha detto qualcuno una volta.
Ed io in effetti, ancor prima di conoscerne la grandezza, penso di averne fatto quasi un credo.

Quando ho deciso ad otto anni di scarabocchiare un diario inutilizzato e farne il primo libro di storie inventate. Gli diedi un titolo a caso, 'Polvere di stelle', perché ho pensato che forse potesse avere la stessa consistenza della polvere.
Quella che nascondi sotto il tappeto fin quando non decidi di spazzarla via. Quella che nonostante tutto poi riappare in ogni fessura. Quella che tra le mani scivola.
Ma allo stesso tempo qualcosa di affascinante, di magico ed inesplorato, come il raggiungimento di una stella mai scoperta, cui darai il tuo nome, forse. Perché ogni parola attentamente ricercata ed ogni punteggiatura mai messa a caso racchiude una parte di te.

Quando poi ho deciso di scrivere su pezzi di carta.
Di digitare qualcosa alla rinfusa senza sapere cosa ne sarebbe uscito fuori dietro lo schermo di un computer.

Quando ho deciso di farne un romanzo.
E poi un altro.
Non soltanto perché avessi qualcosa da dire.
Piuttosto trovavo la concatenazione di parole, virgole e punti più congeniale al mio modo di essere. Di chi parla, sempre troppo o troppo poco. Forse mai abbastanza. 

Perché forse ho creduto, da sempre, che le parole fossero veramente qualcosa di importante. Tutte quante.
Quelle che ringiovaniscono lo spirito per quanto appaiano fresche.
Quelle che ti attribuiscono responsabilità, perché certe volte occorrono parole perché tu ti senta finalmente addosso il peso dei tuoi doveri.
Quelle che ti accarezzano, come un soffio di vento primaverile.
O che ti bruciano, come i raggi ultravioletti in una giornata di solleone.
O che ti raffreddano, come il gelo pungente di una sera di gennaio. Come il silenzio.
Perché anche loro, le parole non dette, sono importanti.
E l'ho capito quando ho rischiato di perdere tutto in attesa di parole che non sarebbero mai arrivate soltanto perché avevo mani per scrivere ed una bocca per parlare, ma non degli occhi abbastanza profondi da poter vedere.

Perché col tempo, forse, si impara anche questo.
Non che le parole siano meno importanti delle azioni. Ma che queste, per la loro immensa portata, sono in grado di prendere le forme più disparate, di raccogliersi in un gesto, di intrappolarsi in uno sguardo, di incanalarsi in posti in cui non ci saremo mai diretti se non ce l'avessero chiesto o se noi non avessimo imparato a sentire.
Così ciascuno avrà i suoi modi.
I suoi canali.
Il proprio mondo di cui scoprire ogni confine, ogni angolo, ogni orizzonte.
La propria polvere di stelle.

L'importante sarà non rinunciarvi mai.
Farlo, a scadenze definite, solo quanto basta. 
Quando non si avrà la voglia di spiegare.
Quando il nostro mondo ci sembrerà troppo caotico e non sapremo da dove partire per poterlo ordinare.
Perché non si potranno usare parole a casaccio.
Non si potranno porre virgole al posto di punti fermi, né punti interrogativi al posto di quelli esclamativi.
Si dovrà avere la calma di ricercare le parole, dove nessuna sarà giusta o sbagliata. Quando si impregna di quello che sentiamo, quella che ha il volto di chi siamo, che se strizzate lasciano scorrere tutto ciò che mai vorremmo fermare. Quelle saranno da apporre, l'una accanto all'altra.
Sarà allora che avremo creato un qualcosa di nostro. Un pensiero, un gesto, una frase che possa fermarsi ad essere tale o crescere per formare dell'altro. Sarà allora che lo sentiremo, lo leggeremo, lo guarderemo, lo assaporeremo come fosse un frutto maturo caduto dall'albero ed esclameremo: sono io. 

Per questo le parole sono importanti.
O almeno è quello che diceva qualcuno.
È quello in cui mi è sempre piaciuto credere.
Perché se le leggiamo, le ascoltiamo, le scriviamo, ci donano consapevolezza.
Se le riconosciamo nei gesti, tepore.
Perché saremo a casa.
Nel nostro mondo.
Con la nostra polvere di stelle.
Ed avremo fatto un passo in avanti, perché indietro si torna solo per recuperarsi quando ci si perde.


giovedì 2 giugno 2016

La vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti


Molto spesso mi sono imposta delle scadenze al termine delle quali tiravo delle somme.
Questo lo facevo, e tuttora lo faccio, per capire se stia proseguendo nella direzione giusta, dove per giusto non pongo come condizione una serie di equazioni che diano tutte lo stesso risultato, ma numeri messi lì, anche a caso, che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, diano un risultato modesto, che possa essere solo il primo di tanti altri.
Come mattone su mattone, un passo dopo l'altro.

Ci sono stati dei momenti in cui il sottrarre mi sembrava la strada più comoda da seguire.
Altri in cui quest'azione proseguiva in modo inarrestabile e non ero io a gestirla.
Momenti in cui invece ho aggiunto numeri aspettando si moltiplicassero con altri.
Momenti in cui questo è accaduto, altri in cui ho capito che l'attesa doveva essere colmata da altro prima che questo accadesse.
Momenti in cui pensavo di condividere, e invece poi ci hanno diviso.

Ma se oggi dovessi dare un nome a tutto questo, non ce ne sarebbe uno appropriato.

Nè momenti, né lezioni di vita.

Perché i momenti fanno pensare a qualcosa di temporaneo, a quegli scatoloni chiusi con il nastro adesivo perché sono fragilissimi e non vogliamo toccarli, né tanto meno aprirli. 
Quelle bolle di sapone in cui soffiamo pochi istanti dopo averle create per annusarne solo il profumo nell'aria, che man mano sfuma, che odora già di passato.
Ed invece questi si collocano in una dimensione senza tempo ed in scatoloni rigidi e tutti aperti, in cui non si annusa la puzza di stantio delle soffitte in cui si nascondono cianfrusaglie inutilizzate.
Sono come numeri che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, non abbiano ancora portato ad un risultato esatto e definitivo, nonostante sembri tutto già accaduto.

Nè lezioni di vita, perché tutte le volte che pensavo di aver appreso la lezione, scoprivo che ci sarebbe stato ancora tanto altro da imparare o che, forse, non sarei mai riuscita ad imparare una sola pagina a menadito. 

Ma se c'è una cosa che ho imparato man mano che i momenti si susseguivano e che ricevevo pagelle al termine di ogni lezione, è che non si deve necessariamente dare un nome alle cose, perché non tutte le emozioni, gli attimi, le esperienze ed i bagagli che ci portiamo dietro ne hanno bisogno.

Perché esistono cose che possono avere un metro di paragone, di cui si possono descrivere i contorni, indicare le gradazioni di colori, per cui addirittura immaginare un suono o un profumo.
Ed altre che invece nascono così, prive di connotazione.
E non attendono che tu ne possa trovare una.
Si addizionano perché tu possa credere nella loro esistenza.
Si sottraggono perché tu non possa pensare di poterle possedere per sempre.
Si moltiplicano perché tu possa crederci.
Si dividono, come strade.

Perché la vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti.
Una serie infinita di tappe in cui ciascuna sarà come un ponte per l'altra.
Quella in cui non ti sentirai forse mai arrivato abbastanza, fin quando non ti volti e contando i passi che ti separano da dove sei a dove hai cominciato, capisci l'unica cosa che conta: ne è valsa la pena.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 24 aprile 2016

Le generazioni sono cosí, chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà

Ogni tanto mi capita di pensare a come sia accaduto.
Che sia passata dal far parte della generazione ah-perchè-è-già-arrivato-il-weekend a quella che odia il lunedì peggio del ketchup sulla pasta o che santifica il venerdì come fosse una festa comandata.
Che abbia fatto parte della generazione Erasmus, quella che a prescindere da un luogo geograficamente circoscritto, viveva quel momento della vita con slancio ascetico, come fosse un dono divino, un lusso che ci si era concesso, o entrambe le cose, per finire in quella del dove-ci-si-trova-conta-quanto-il-come, anzi talvolta lo influenza.
Che sia passata dal fare la fila per le patatine al Mc Donald's a poi cercare diete dimagranti su google.
Dieta dell'ananas, del limone, del minestrone. 
Perché al tuo posteriore con la forma di patate fritte nell'olio di una settimana, hai preferito una faccia con la forma di ananas, limone, minestrone, o checchessia.

Ma pensavo che le generazioni sono proprio così: finite. Un lasso temporale tra il prima ed il dopo che ci culla fin quando non giungerà il momento in cui sia giusto lasciarci andare.
E cosí saremo stati quella generazione prima di entrare in quella successiva che però non sarà mai la definitiva. Ma le saremo tutte, in egual misura. Ed il bello sarà riuscire a contarle e scoprire di non avere abbastanza dita per reggerne il conto.

Allora saremo la generazione delle corse il primo giorno di scuola per arrivare ad occupare l'ultimo banco in fondo a sinistra. Quella delle corse il primo giorno di università per trovare un posto dove sedere, uno qualunque. Quella delle corse il giorno del tuo primo colloquio importante per arrivare in anticipo. Quella delle corse, nella vita, per non arrivare mai ultimi.

Saremo la generazione di chi sceglieva il compagno di banco per condividere un intero anno spalla a spalla. Di chi, inconsapevolmente, sceglieva quelli universitari con cui condividere i propri dolori intestinali prima di un esame. Di chi poi, ad un certo punto, ha cominciato a selezionare i propri compagni di viaggio, quelli della vita.

Saremo la generazione che trovava amici dappertutto, quella che per trovarli doveva fare due passi e bussare un campanello, per finire poi in quella in cui per incontrarli deve prenotare un biglietto aereo e girare l'Europa, non più attraversare la strada.

Saremo la generazione delle farfalle allo stomaco, del contare le ore che ci separano dal primo appuntamento con il ragazzo cui abbiamo fatto il filo per mesi. Quella del se-non-mi-chiama-gli-invio-un-messaggio. Quella del se-non-mi-chiama-può-andare-al-diavolo. Quella del sono-qui-chiedimi-di-rimanere. Quella del resto-anche-se-non-me-lo-hai-mai-chiesto. Quella generazione in cui nessuno chiederà niente all'altro, perché l'importante sarà esserci. Lui per noi, e noi per lui.
Quella in cui forse il fato deciderà che dovremmo farne a meno, ma noi saremo lì, ad accoglierlo, comunque, perché in fondo, penseremo, l'importante è che siamo ancora vivi per affrontare la vita.

Saremo la generazione delle grandi aspettative, quella delle illusioni confezionate con carta regalo, per passare in quella del "No, grazie, a questo gioco non ci sto più."

Saremo la generazione che per un attimo penserà di avere il mondo in un pugno. Quella che sentirà il peso del mondo. Quella che poi, ad un certo punto, capirà che l'uno o l'altra sia servita per farci diventare quello che sarà più congeniale essere: un granello di sabbia che sfugge a chiunque voglia costringerci a spazi stretti, quello che seguirà i soffi di vento, prima di fermarsi sulla terraferma, dove ne saranno approdati altri, nella stessa modalità o forse diversa. E lí non saremo i padroni del mondo nè sarà lui a tenerci tra le sue mani, ma saremo i padroni del nostro destino, che potrà mutare tante volte, a seconda di come butterà il vento.

Saremo la generazione Erasmus, della vita vissuta come un attimo irripetibile, delle feste in casa, delle diagnosi partorite leggendo wikipedia, dello sperimentare il diverso, del comunicare in una lingua sconosciuta fino ad allora, del sentirci parte di qualcosa che abbia il volto di persone cui riserveremo sempre un posto speciale, nel luogo più profondo che un giorno avevamo chiamato casa per poi capire che sarebbe stato qualcosa di più: quello in cui, attraverso l'altro, abbiamo imparato a conoscerci senza mai dubitare di poter diventare quello che si sognava di essere.
Saremo quella che farà tesoro di tutto, anche quando un giorno si troverà ad osservare le proprie parrucche di colori differenti su di una mensola della propria stanza, le fotografie incorniciate per mantenere vivi quei ricordi, quelli che, sempre, ci faranno ridere di gusto, anche se un tempo non avevamo mai pensato di riuscirlo a fare.
Quella che sognava di scoprire a quale spicchio di mondo sarebbe stata destinata.
Quella che lo scopre e vi comincia a piantare radici.
Quella che, ignara, comincerà a chiamare radici mattoni, e mattoni poi casa.

Quella generazione che morirà di felicità, e poi di malinconia. Di malinconia e poi di felicità.
Prima di arrivare a quella in cui le due si combinano, perché non riuscirà a fare a meno né dell'una né dell'altra.

Quella generazione che credeva che le cose importanti non ci avrebbero mai lasciato, per poi passare a quella in cui conteremo quelle che invece non ci hanno abbandonato.
Ma poi, un giorno, entreremo in quella per cui l'una e l'altra ci avranno insegnato qualcosa che nessuno ci aveva detto in partenza: che nella nostra continua transizione, cambiamo come il passaggio delle stagioni, come la fine di una generazione e l'inizio di un'altra. Ed è così che scopriremo che talvolta le cose importanti le potremmo scoprire soltanto vivendo, e che spesso, come diceva qualcuno, devono ancora venire.

Le generazioni sono cosí: chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà.
E quante più ne passeremo, tanto più profondi saranno i nostri occhi.
Ignari che siamo noi a decidere tutto, la partenza così come la meta.






domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.

giovedì 17 settembre 2015

Homesick: la nostalgia non é una malattia

Nel posare la tazza di tea fumante sul tavolo, ho guardato il grigiore delle nuvole fuori dalla finestra che facevano da cornice ad una sequenza di tetti spioventi color rame, e ho realizzato quanto la stagione autunnale fosse oramai alle porte. Diciamo che in Inghilterra il suo spirito aleggia nell'aria anche prima, facendo in modo che tu non subisca alcun cambiamento climatico radicale e tenendo sempre la maglieria pesante su di una mensola dell'armadio anche in pieno agosto. Ma forse con l'ufficializzazione dell'autunno data dal calendario, mi sentirò in dovere di indossare il cappotto nuovo e di guardare alle decorazioni natalizie non più come fosse una data troppo lontana.

L'aria più fredda, i colori spenti del paesaggio circostante, le foglie ingiallite che tra poco cominceranno a staccarsi dai loro rami, lasciano pensare ad una nostalgia che non può risparmiare nessuno. E ci pensavo proprio quando in un vagone della metropolitana ho avvertito d'un tratto i profumi di casa, prima che una donna mi si sedesse accanto sgranocchiando patatine al formaggio, la cui puzza non avrebbe risparmiato nessuna narice, nemmeno se avessi avuto il raffreddore.

Come quando torni a casa e alla domanda "come stai?" vorresti trovare un termine adatto. Uno soltanto che eviti la perifrasi sto bene ma a volte ci si sente molto soli. Non soltanto in autunno. Non solo quando cadono le foglie. E neppure solo quando hai una tazza di tea tra le mani che ti riscaldi.
É come un singhiozzo che dura 365 giorni l'anno, anche quando pensavi di aver deglutito abbastanza per lasciartelo passare. È una nostalgia che non si attutisce mai, ma che può essere domata concependola non come fosse una malattia da cui non si guarisce.

Ogni volta basta pensare al tragitto fino ad ora percorso, a quei mattoncini che abbiamo con cura posto gli uni sugli altri, a tutti quei granelli di sabbia che abbiamo fatto scivolare tra le dita, a quella linea all'orizzonte che ogni volta appare sempre più nitida al punto da immaginare di oltrepassarla. Occorre pensare al perchè si è iniziato, ed allora anche la nostalgia diventerà meno amara.

Siamo noi a decidere anche questo: se morire di malinconia, o vivere di aspettative.

Io ho scelto di sentire i profumi di casa prima di realizzare che l'unico profumo esistente fosse quello di patatine al formaggio sgranocchiate dal vicino. Ed ho scelto di farmi entrare nelle narici anche quello, in un vagone che segna un viaggio verso una nuova destinazione. Ho scelto di bere una tazza di tea per riscaldarmi, di essere pronta alla caduta delle foglie prima del previsto e di guardare gli schizzi di pioggia che formano pozzanghere sull'asfalto perchè non posso guardare il mare.

Ma chi conosce la direzione da seguire, non si ammala di nostalgia, piuttosto impara a domarla.




martedì 28 luglio 2015

730 giorni, e sentirli tutti

Sono 730 i giorni che mi separano da quella valigia rossa che non sembrava mai piena abbastanza. Avrei voluto portare con me tutto l’amore che stavo lasciando, e forse anche il mare.

Ma è in questi 730 giorni che ho capito che l’amore non ti abbandona, e allo stesso tempo non permetterà a te di lasciarlo. Continua, sotto forme diverse. 
Ho imparato che non sei tu a scegliere quale di queste portare con te, saranno loro ad imporsi e tu a volte ad accettarle lo stesso, allo scopo di non perderle del tutto.

In questi 730 giorni, ci sono state troppe ore in cui credevo di poter cambiare le cose. A volte ci sono riuscita, altre ho fallito. Ma ho capito che certe cose non cambiano soltanto se ci si mette d’impegno, mentre per alcune il cambiamento é un imprescindibile postulato se le si è scelte. Così ho appurato l’inevitabilità che si annida nel progressivo mutamento delle cose, delle circostanze, ed anche delle persone, ed aspettarlo, come il passaggio delle stagioni.

All’inizio lo temevo, ma questi 730 giorni mi hanno insegnato che anche questo fa parte della vita, quella di cui non si può avere paura, mai. 

Ho capito che bisogna salire un gradino alla volta, per sentire sulle proprie gambe il peso della salita, per sperimentare passo dopo passo la bellezza di immaginare una meta nonostante questa sembri lontana, raggiungerla e prefissarne un’altra, nonostante la stanchezza.

Ho capito che non ci si deve per forza adattare, ma lo si può fare alle proprie condizioni. Che la libertà sta nel non avere pesi sul cuore e compromessi sulle nostre coscienze. È qualcosa che non va dimostrata agli altri, ma è necessario sentirla dentro, come l’unica voce che ci parla, come un vento che non si arresta mai.

Questi 730 giorni mi hanno insegnato che vale sempre la pena darsi delle possibilità, anche per sbagliare, perché in quelle occasioni si comprende dove stiamo andando, ed anche dove invece vorremmo essere, così da tirare il freno, sterzare, e ripartire da un nuovo punto, a patto che sia sempre differente da quello che si lascia alle spalle. 

Tanti giorni che hanno rafforzato la mia idea di progettare un luogo in cui non esistano orologi, né calendari, per avere la forza di creare e disfare senza imporci scadenze. Un luogo in cui ci si perde, ma nello stesso istante ci si ritrova e talvolta si ritorna. Ho impiegato 730 giorni per capire che quel significato che davo al verbo tornare era giusto per gli altri, ma non per me. Così ho dato un volto nuovo a quel luogo in cui tutti dicono un giorno di far ritorno: me stessa. 

Perché il tornare non implica necessariamente uno spostamento fisico, un dirigere i propri passi verso il punto di partenza. Piuttosto un ritrovarsi, un tornare lí dove è giusto restare, con quella parte di noi che sta sbocciando e che non possiamo più ignorare. Ci sono voluti 730 giorni per capirlo: che sono già tornata, ma che non sarà l’ultima volta. 

Ho imparato che si può vivere in case per dodici. Che la solitudine fa bene, ma scontrarsi con la diversità cambia la tua visione del mondo. Che la dieta sana ed equilibrata rigenera l’organismo, ma il cibo spazzatura aumenta gli anticorpi.

In 730 giorni se qualcuno mi avesse voluta davvero, lo avrebbe fatto. Le scuse servono soltanto a giustificare un non volerti abbastanza nonostante tu non gli abbia mai chiesto il perché. L’ho capito soltanto adesso.

730 giorni in cui ho imparato ad amare e detestare. A convivere con i sensi di colpa ed acuirli facendo una corsa al parco o piuttosto ripulire il frigorifero di tutti gli yogurt scaduti che avevo conservato per pigrizia. 

Troppi giorni, forse, per capire che quello che siamo lo dobbiamo solo a noi stessi.

Avrei voluto portare il mare con me, ascoltare il rumore delle onde, annusare l’aria fresca. Non ho potuto. Ma ho costruito 730 giorni, in cui mi ci sono tuffata, ne ho ascoltato ogni sussurro, ho annusato ogni profumo. 


730 giorni, e sentirli, tutti. 

domenica 19 luglio 2015

Quando torni?

Quel rumore fioco emesso dai tasti della mia tastiera, costante, che talvolta si prendeva delle pause per tornare indietro o proseguire, ad un certo punto si è arrestato. Conto i caratteri, faccio un respiro, guardo fuori dalla finestra: ho finito. È il primo pensiero che la mia mente sia stata in grado di partorire, mentre con gli occhi rossi ed un accenno di sorriso che riuscivo a scrutare attraverso lo schermo del computer, lo chiudevo per non pensarci più. Ancora con il fiatone, come se avessi fatto una corsa nonostante non ci fosse stata in fondo alcuna fretta.

Eppure sentivo dentro di me quel tremolio che mi imponeva di continuare e non perdere nemmeno un minuto prezioso. Ho finito, l’ho fatto di nuovo, e questa volta nemmeno tutto d’un fiato, per questo forse avevo fretta: non avrei di certo disperso i pensieri ma non volevo raffreddarli. Volevo fare tutto quando il fuoco fosse ancora caldo.

Ma questa volta non mi sono seduta ritagliandomi uno spazio dalle pareti rosa senza alcuna scadenza giornaliera. Le pareti erano bianche ed il soffitto più basso, e spesso, pur perdendomi tra le ore che scorrevano, ad un certo punto dovevo fermarmi. Non ho immaginato come potesse andare a finire, né chi metterci dentro che desse forma ai caratteri che seguivano al rumore della tastiera. Sapevo già come doveva andare a finire, le storie le conoscevo già. Ho immaginato, ma prima ho parlato con la gente, le ho conosciute, in parte. Non ho scritto tutto d’un fiato, mi sono presa del tempo. Dopo il lavoro, prima di fare la doccia, spesso in metropolitana. Non avrei avuto il tempo di concedermi quasi completamente come era già accaduto.

Ma ora che le mie dita hanno già scritto di altri, tocca a me rispondere a quella domanda che a questi ho formulato: Quando torni?

Credevo che ciascuno di loro potesse fornirmi degli indizi per provare a mettere insieme, come in una ricongiunzione di punti, quella che poi sarebbe stata la mia. Ma quelle sono le loro vite, le loro risposte. 

Ho puntato l’attenzione sul quando, e ad essere onesta non sono stata in grado di segnare alcuna data sul calendario che ponesse fine alla mia permanenza in una terra che non è la mia, ma a cui ho imparato a concedermi come se lo fosse. Allora ho cerchiato il verbo tornare, quasi come a spremerlo per carpirne l’essenza, credendo ci fosse un significato oggettivo da non lasciare alcun beneficio del dubbio. Ma non l’ho trovato.

Cosí ho pensato che forse non ci sia alcun luogo fisicamente esistente che ci imponga di tornare o anche di restare, se non siamo noi a crearlo. Ed io probabilmente non ho mai concesso alla mia mente di farlo, o almeno non del tutto e non nei modi precostituiti. Perché ho sempre creduto che ci fosse un luogo in cui non esistono orologi né calendari, in cui possiamo creare e disfare senza il bisogno di spostarci, in cui ci si perde, si resta e talvolta si torna. Siamo noi quel luogo in cui è sempre possibile ridisegnare il paesaggio, dare curve diverse ai sentieri, plasmarli così come il cuore ci impone di fare o non fare. Quello in cui a volte ci si perde, o basta restare per tornare. 
Perchè il tornare non implica necessariamente voltarsi all’indietro e dirigere i propri passi verso la direzione di partenza. Riscoprirsi, mettere ordine, reinventare: anche questo può assumere le parvenze di un ritorno, quello che ha come meta non un luogo fisico, ma una condizione, quella di star bene con se stessi, ed un volto, il nostro. 

Allora si può tornare, sempre, ed ovunque ci troviamo.

Perchè a volte tornare non significa per forza abbandonare, ma anche restare. Era a me alla fine che toccava rispondere a quella domanda per chiudere il cerchio, un grande vero e proprio capitolo che ho tentato di racchiudere in tanti. 

Quindi rispondo che non torno, perché in verità sono già tornata. E probabilmente non sarà nemmeno l'ultima volta.

venerdì 19 giugno 2015

Ricongiunzione di punti

Ho cercato di raggruppare questi lunghi mesi in uno soltanto che fosse in grado di ricongiungere tutti i punti in fila indiana. Fino a quando, a seguirne la sequenza, perdevo l'ordine delle cose. Trasformavo i volti in ombre di cui a stento riuscivo a definirne i contorni e le assenze in presenze, guardando ai sensi di colpa come chi ce li ha addosso ma non li sente, riconducendoli al circolo dell'inevitabilità delle cose, quelle che accadono e basta o che a volte non siamo in grado di prenderci.

Ho pensato a tutte quelle ombre proiettate su quell'unico angolo di strada su cui batte il sole che si sovrappongono creandone una soltanto. A tutte quelle figure che non erano piene di nulla, eppure io me le sentivo aleggiare addosso, rendendo presente chi aveva scelto la strada a me opposta.

Eppure in quel sovraffollamento di ombre, sono riuscita ad identificarne qualcuna cui ho dato un volto, dei contorni, persino dei colori. Le ho riempite di tutti i dettagli che credevo avessero importanza, di tutte le emozioni che avevo dentro, facendomele passare attraverso lo stomaco, la gola, sino ad arrivare a sovraffollare la mente e a stropicciarmi il cuore.

E allora ho pensato alle persone che senza nemmeno saperlo ti fanno esplorare il mondo, quello che appartiene a loro e quello che di te nemmeno conoscevi. È quello che ti danno, quando mettono in atto uno scambio armonico fatto di modi di comunicare differenti che convergono alla fine in uno soltanto. Quello che dice: voglio stare con te, nonostante tutto, qualunque ne sia il prezzo.

Ed è in questo lento ripercorrere degli eventi, scrivendo e pensando e pensando a furia di scrivere facendone una raccolta, che sono ritornata a ripensarci. Ed in questo circuito di cui ho sempre ignorato dove fosse la porta d'uscita, mentre mi ci perdevo mi ci sono ritrovata tutta intera.

Quindi forse possiamo scegliere mille e svariati modi per poterci stare e lasciare che le persone invadano la nostra vita pur essendo apparentemente assenti, come se l'assenza diventasse più palpabile
di tante altre presenze.

Credevo di non riuscirci, ma alla fine ce l'ho fatta. Sono accanto, pur essendo lontana. Spesso viviamo tante vite senza essere in grado di sceglierne una. Non è ricordo, né nostalgia, è l'aver appreso che dentro di noi possiamo essere tanti, ciascuno per l'altro irrinunciabile.

martedì 12 maggio 2015

Una sequenza di numeri

Sveglia. Corri. Doccia. Vestiti. Infila la giacca mentre con l'altro braccio mantieni una tazza di caffè la cui metà scorrerà probabilmente nel lavandino perché è bollente e tu sei in ritardo. Raggiungi la stazione o in alternativa mettiti alla guida. Auto, motorino o bicicletta non ha importanza. Lavori. Pausa pranzo. Chiudi. Torna a casa. Fai una corsa. Ceni. Guardi la televisione o un film. Ti rifai la doccia. Rimetti la testa sul cuscino.

Ho tentato di immaginare un seguito a questa sequenza. Ma la verità è che, nella stragrande maggioranza dei casi, il continuo di questa storia sarà scritto ripercorrendo ogni singolo passaggio.

Ci penso, ogni tanto, a dove sia finita quella persona che non si sarebbe accontentata di stendere il suo telo su di una striscia di sabbia, che avrebbe voluto conoscerne tante prima di capire quale fosse la più appropriata. Che fosse stata stretta o immensa, rocciosa o di sabbia sottile, lontana o vicina. Ci sarebbe stato il mare comunque. Generoso di natura, perché infinito.

Esistono persone che ad un certo punto lasciano tutto e si orientano ascoltando il vento che soffia. Quelli che vanno e al loro ritorno non dovranno raccontare del lavoro e del loro stipendio, ma solo di ciò che hanno visto, servendo questo abbastanza per nutrirli. Di entusiasmo e di gioia di vivere.

E lo so che qualcuno ci ha pensato pur credendo fosse una scelta difficile. Seguiamo schemi prefissati che ci riducono ad essere un numero in una sequenza infinita ma sempre uguale, dove la ricerca di una casa, di un lavoro, di un salario più alto arriva ad essere l'obiettivo, ma mai quello finale. Una sorta di predestinazione a tutte quelle abitudini che ad un certo punto diremo di odiare, ma le seguiremo a menadito comunque, senza fiatare.

Perché qualcuno un giorno ha deciso che una vita normale necessitava della connivenza di questi fattori, ponendo scadenze con dati anagrafici alla mano.

Allora diventeremo tutti numeri, schiavi di una sequenza di azioni. Ci convinceremo sia l'unica soluzione possibile e impareremo a dire che va sempre tutto bene, perché  l'importante é essere felici.

Per esempio, amare rende felici. Ma si sa, l'amore ha tante forme ma nessuno schema.

Beato chi l'ha capito. Peccato per tutti gli altri cui non resta nient'altro se non l'immaginazione.

martedì 3 giugno 2014

Scarpe in grado di portarti lontano.

E' un po' come quando indosso scarpe strette che non vedo l'ora di togliere, perché piuttosto preferisco camminare a piedi nudi. Come per le scarpe, così è per i rapporti. Non posso indossare scarpe troppo strette, di quelle che compri per entusiasmo, ma con cui a mala pena racimoli un'uscita che vedrà come epilogo un'occhio di pernice ad entrambe i mignoli, lasciandoti maledire quell'acquisto per tutto il tempo, donandoti un barlume di speranza il solo pensiero di tornare a casa e sfilartele.
Ma non posso indossare nemmeno quelle troppo grandi. Quelle che all'inizio sembreranno comode, ma a lungo andare lo saranno solo da ferma, perché quando comincerai a muoverti avrai come la sensazione che le suole calpestino l'asfalto prima di te, ed anche i tuoi piedi, ad un certo punto, vorranno sfilarsele per prendere una direzione diversa, perché i tempi non sono gli stessi, perché dentro c'è uno spazio così grande da farcene entrare almeno altri dieci. Sono come rapporti superficiali o di facciata, che come acqua attraverso un imbuto, troppo stretti o larghi che siano, troveranno il medesimo epilogo.
Le scarpe su misura sono invece come quelle persone in cui ti ci metti dentro e ti senti finito. Come quelle che percorrono la strada al tuo stesso ritmo, come quelle che bastano per riempire ogni spazio e tempo. Come quelle per cui non avrai magari nutrito alcun fervido entusiasmo all'inizio, ma che alla fine si riveleranno come l'acquisto migliore, perché te le porti con te, qualsiasi stagione si tratti, ovunque tu scelga di andare, senza che tu mai dica basta. 

Ed è così che vivo i miei rapporti, di qualsiasi natura si tratti. E non perché ami il concetto di connubio perfetto. Amo le persone che sanno essere così: come scarpe in grado di portarti lontano. 

Del resto, ho imparato a farne a meno.