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sabato 12 febbraio 2022

Bisogna avere il coraggio di essere fragili

Ho lasciato che le mie piante ed i miei fiori appassissero.

L’ho fatto di nuovo, solo che questa volta ho deciso di prendermi del tempo prima di rimpiazzarle.

Le posiziono sempre in vari angoli della casa. Alcune su di un mobile accanto alla finestra, per far sí che l’aria fresca e qualche raggio di sole possa tenerle in vita. Le innaffio, non quotidianamente, ma quanto basta, affinché non si dimentichino di avere qualcuno che si prenda cura di loro. 

Oggi le guardavo appassire, e ho pensato che fosse troppo tardi per recuperarle. Non ne avevo voglia, senza avvertire alcun tipo di pentimento. 

E ho pensato anche a quanto tutto questo rappresentasse in pieno come mi sento.

Ho lasciato che le vicissitudini mi assorbissero al punto da pensare di non avere più tempo per me, per scrivere, per inventare, per fare, insomma, tutte quelle cose che mi hanno sempre fatto sentire viva. 

Ho lasciato che certe cose appassissero e ho avuto paura di gettarle via. 

Le ho posizionate altrove, sperando che nascondendole tra i mostri che ognuno si porta dentro, me compresa, si facessero compagnia senza fare troppo rumore, né esigere mai il palcoscenico. 

Ho continuato a prendermene cura, innaffiandole, forse più del dovuto, pensando sempre che a me spettasse questo ruolo di quella che c’è sempre, a qualunque costo, e per chiunque. Quella che davanti a qualcosa o qualcuno che ti svuota, accenna un sorriso di circostanza e va avanti, immaginando che quel vuoto possa colmarsi da solo, o magari, sia solo frutto di decisioni sbagliate, di castelli di sabbia destinati a sgretolarsi, di pensieri che non poggiano su convinzioni reali. 

Ho sempre creduto che fossero le mie piante ad avere bisogno di me.

Mi affannavo pur di non lasciarle morire, per quel senso di responsabilità che mi cucio addosso ogni volta, facendo sí che mi caschi a pennello.

Poi ho letto da qualche parte che bisogna avere il coraggio di essere fragili. 

Mi sono chiesta cosa significasse e se stessi mostrando, a me stessa, di averlo questo coraggio.

Ho pensato che il modo migliore che avessi per dimostrarlo, a me stessa, fosse mettere tutto nero su bianco e lasciarmi andare, come l’acqua che scorre e che anche di fronte ad un ostacolo trova sempre una via alternativa per non arrestare il suo flusso.

Ho scritto meno perché scrivere per me ha sempre significato dare forma alle proprie fragilità.

Dar loro un volto dai tratti angelici, a volte spigolosi. Disegnarne i corpi, associarle ad un profumo, ad una canzone come fosse una preghiera che la mente, da sola, non smette di recitare. Dar loro un nome, come fosse un’etichetta per riconoscerle tra tante.

“Bisogna avere il coraggio di essere fragili,” – l’ho letto e riletto mille volte.

“E non fa niente se diamo a tanti l’illusione del bersaglio facile, se mostriamo quella crepa che gli altri possono allargare,” – il testo continuava. 

Così, tra una pausa e l’altra, ho capito che io questo coraggio ce l’ho, l’ho sempre avuto, non l’ho mai nascosto. Tutto quello che ho fatto è stato semplicemente adattarmi ad un ambiente in cui mostrarsi fragili equivale all’essere deboli, farsi trovare in affanno significa disordine, mostrare una crepa significa diventare un bersaglio facile. 

Invece io ho proprio bisogno di sentirmi fragile.

Di entrare in contatto con tutte le mie debolezze, prenderle per mano e andarci a fare una passeggiata. 

Ho bisogno di mostrare le crepe, tutte quelle che ho, perché me le sono conquistate e mi permettono di essere quella che sono. 

Le crepe sono storie da raccontare, con un finale ancora da scrivere, o a cui si è già messo un punto. Sono un apostrofo, tra una consonante e una vocale, che unisce tasselli che non avrebbero trovato altro modo per proseguire. Mi piacciono per quella loro innata propensione ad unire e lasciare, allo stesso tempo, la libertà di decidere se fare un salto nel vuoto, o salire sul ponte. Mi piacciono perché sono libere, autentiche, senza menzogne, né ambiguità. 

Ho sempre provato una sorta di reticenza nel farmi trovare in disordine, in debito d’ossigeno, in fuorigioco, in ritardo rispetto certi ritmi, lontana dalla gente, dai miei porti sicuri, persa.

La stessa reticenza l’ho trasmessa alle mie piante. Non mi sono mai arresa. 

Però oggi osservarle mi ha fatto capire di quanto fossi io ad avere bisogno di vederle appassire per capire che per quanto la fatica non ci lasci dormire, bisogna accettare che certi ambienti non sono fatti per lasciarci sbocciare. Bisogna comprendere che non tutto ció che accade è a noi destinato, ma che talvolta si tratti di ponti che ci aiutano a traghettarci al versante opposto da quello in cui ci troviamo. 

Comprerò nuove piante, ma questa volta diverse.

Mi prenderò del tempo, per prendermi cura delle mie crepe, non solo di quelle degli altri.

Mi prenderò del tempo per capire a chi destinarle, perché gli unici destinatari meritevoli sono quelli che a vederle non avvertono alcun disagio. Sono quelli che ti prendono per mano, e insieme alle tue crepe, ti portano a vedere il mare. Sono quelli che in questo coraggio vedono forza. Quelli che se sei in affanno, rallentano, insieme a te. Quelli che se sei in disordine, ti invitano a sederti perché a mettere un po’ di ordine ci pensano loro. Quelli per cui non sarai mai un bersaglio facile, ma una conquista inaspettata, perché in quegli occhi si rivedono più umani. 

Tutto il resto non conta. Sono piante destinate ad appassire.

Non c’è bisogno di alcun cenno di pentimento.

Lo sapevano già anche loro. Non le avresti mai salvate da loro stesse.

Possiamo salvare solo noi stessi, ma ci vuole coraggio. Quello di essere fragili. 


martedì 6 ottobre 2020

Come un telo da mare

Con l’arrivo dell’autunno ho messo via un po’ di cose. Ho lavato in lavatrice il telo da mare, l’ho piegato e conservato al suo solito posto. Lo riprenderò il prossimo anno, quando correndo a piedi nudi sulla sabbia in pantaloncini e canotta sarò pronta per lasciarmi dondolare dalle onde del mare e riscaldare dai raggi di sole, ancora una volta.

Ogni cosa gode dei suoi tempi.

Sa già dove e quando deve essere conservata.

Come tante altre, sanno già che prima o poi dovranno essere gettate via.

Non sono brava a disfarmi delle cose, mi ripeto spesso che molte potrebbero tornarmi utili, prima o poi. Ma questa volta ho deciso di conservare solo il telo da mare e tutto quello che gli rassomiglia, ovvero tutto ciò che basta semplicemente scuotere dopo l’utilizzo per rimuovere ogni granello di sabbia che potrebbe appiccicarsi alla schiena la volta dopo.

Ho pensato di conservare cose così, quelle che richiedono cura ed energia, ma mai in eccesso, rispettando i miei spazi ed i miei tempi. 

Ho deciso di fare lo stesso con le persone, tenendo per mano solo chi, con uno sguardo attento e mai una parola di troppo, ha la capacità di trasformare la pioggia battente in arcobaleno, una brutta giornata in un’altra più serena, un terreno arido in uno in cui si possa concimare ed aspettare la bella stagione per la raccolta.

Seguendo questo principio, sono tante le cose da gettar via, più di quelle che immaginassi.

Come le pillole per dormire che adesso non mi servono più, perché ho imparato a respirare lentamente, a non correre, a non aspettarmi nulla da un futuro di per sé incerto, ma a fare un passo alla volta e a seminare, con pazienza, ciò che un giorno mi piacerebbe raccogliere, senza ansia da prestazione.

Ho fatto lo stesso con qualche ricordo diventato troppo ingombrante.

Anniversari che al solo pensiero ti fanno star male.

Fogli di carta su cui un tempo scrivevi delle cose che basta rileggere per capire che adesso sei cambiata rispetto a qualche tempo fa.

Con le persone ho deciso di fare più o meno lo stesso.

Ho scelto di allontanare quelle che non sanno respirare lentamente prima di rivolgerti parola.

Quelle che aspettano già al traguardo, ma a correre o passeggiare insieme a me non ci hanno mai minimamente pensato. 

Quelle che non sono in grado di prendersi cura del proprio terreno e quindi nemmeno dell’altro, perché da quella terra non spunterà alcun bocciolo. 

Quelli ingombranti, che ti rendono la vita un luna park senza alcun divertimento ma solo capriole e luci al neon che dopo un po’ ti danno la nausea.

Quelli che non lasciano che tu cresca, mettendo in luce la parte migliore di te, ma solo quella che non vorresti mai essere.

Mi piacciono le cose come le persone che come un telo da mare porti con te al braccio fino alla spiaggia, e che pur sgualcendosi nel corso della giornata, saranno sempre quelle di cui non potrai fare a meno.

Quelle a cui basterà una scossa o una folata di vento per ripulirle.

Quelle che ti ricordano il mare e lasciano che tu sia esattamente come lui, infinito.

Mi preparo ad un autunno diverso rispetto a quello dello scorso anno, fatto di alberi spogli da rivestire e foglie secche tutte da colorare, di volti opachi da allontanare, di esperienze da imballare in scatoloni che non dovranno essere più riaperti, di anime spente cui comunicare che il tuo lavoro è terminato per poterti prendere cura di te stessa e della tua luce che non dovrà spegnersi mai, a qualsiasi condizione.

Così mi godrò l’autunno senza aspettare l’inverno e l’inverno senza aspettare il profumo dei fiori freschi di primavera. E godrò questi ultimi senza fremere per l’arrivo di una nuova estate.

Ho già soltanto una certezza sino ad allora: che con le infradito malconce, in pantaloncini e canottiera, correrò sino a raggiungere il bagnasciuga. Una volta lì, scuoterò il telo e mi metterò a respirare, lentamente, come sto imparando a fare.

domenica 21 luglio 2019

Londra-Barcellona, solo andata

Seduta su un muretto a bere una lattina di birra fredda, con gli occhi fissi sull'insegna di un supermercato con la saracinesca abbassata a metà. Profumi poco distinguibili nell'aria, spazzati via di colpo da una leggera brezza estiva. Il cigolio delle sedie di plastica trascinate in strada e posizionate in circolo, come un'abitudine che sa di estate, di voglia di stare insieme, tra lo schiamazzo dei bambini ed il rumore di un pallone lasciato rimbalzare in strada.

Sarà questa la prima immagine che porterò con me quando penserò al viaggio di sola andata dalla terra d'Albione al capoluogo della Catalogna.
Con uno sguardo perso di chi non contempla il vuoto, ma che cerca di mettere insieme tutti i punti di un percorso lunghissimo, per ricordare come sia potuto accadere che sia stata concessa proprio a me l'opportunità di ricominciare una nuova vita altrove, dove le strade più strette, le distanze 'meno distanti' ed il mare visibile non soltanto in cartolina una settimana all'anno, siano in grado di farti sentire meno piccolo e se forse pur sempre un numero, questa volta perlomeno a due cifre.
Quell'altrove che diventava sempre più irraggiungibile, mentre vivere seguendo uno schema macchinoso una di quelle abitudini insane di cui poi ad un certo punto non riesci a farne a meno.

Così, proprio quando mi stavo perfezionando nel triplo salto nel vagone affollato di una metropolitana in partenza al punto da suggerirlo come nuova disciplina olimpica e candidarmici certa di conquistare almeno una medaglia d'argento, proprio quando le corse pesavano meno, così come gli scatoloni del terzo trasloco in pochi mesi, e proprio quando Brexiful veniva addirittura superato dal Pratiful in quanto a dinamiche da soap opera, è suonata la sveglia.
È sempre accaduto tutto così, nella mia vita. O almeno, dicono che le cose belle succedono quando non le stai più cercando, ma solo quando non lo fai più sul serio, non per finta.


La mia vita è sempre stata il trasloco peggiore che io abbia mai fatto in termini organizzativi: non riesco a gettare nemmeno un cesto in vimini.
Così per settimane ho immaginato in che modo sarebbe cambiata la mia vita, e forse anche io, da cosa partire, cosa lasciare alle spalle.
Poi ad un certo punto ho capito che il cambiamento repentino sarebbe stato pieno del nulla, che avrebbe puzzato di finzione, e che pianificarlo mi sarebbe stato impossibile.
Le incertezze sono belle proprio perché ne si può conoscere una parte giorno dopo giorno, scrivendole al contempo non per deviarne il suo corso, ma per renderle più autentiche e conformi alla vita che abbiamo scelto per noi.

Così, sarebbe stato inumano e privo di cuore gettare tutto per ricominciare.
Delle tante vite vissute finora ho deciso di non buttare nulla, se non i sensi di colpa.
Ho deciso di fissare una saracinesca abbassata a metà, come a prendere il mio tempo per riassettare tutto ed immaginare tutto quello che è possibile creare.
Di lasciarmi scompigliare i capelli da una leggera brezza estiva, ma decidere sempre io se lasciarmici trasportare o restare dall'altra parte.
Di non lasciare che siano gli eventi a cambiare me, ma di cambiare marcia quando necessario.
Di ascoltare il cuore quando lo sento battere forte.
E di custodire ed alimentare quel desiderio sempre presente di creare una nuova casa, con i gerani sul balcone, le tende colorate e un paio di fotografie appese al muro.
Una di quelle in cui ti ci senti al sicuro, perché é calda abbastanza e piena di sorrisi reali.
Anche qui partirò dai dettagli, su cui costruire o demolire.

La mia unica promessa è quella di assorbire tutto il bello che possa far diventare il mio cuore sempre più grande, mantenendo insieme ciò che è stato, che è e che sarà, riconoscendo a ciascuna la stessa importanza.
Perché di me e della mia vita non getto nulla. E nemmeno il cesto in vimini: può sempre servire.


domenica 6 gennaio 2019

Con il piede all'insù


L’altro giorno ero seduta in metropolitana accanto ad un uomo che sfogliava un libro sul linguaggio del corpo, “What your body says”.
Ho immaginato che si addicesse perfettamente ad un luogo come quello, dove il materiale umano da analizzare non è mai abbastanza e lascia spazio alla più fervida delle immaginazioni. Più che i loro corpi, mi piace fantasticare sulle loro storie: chi sono, dove sono diretti, cosa desiderano quando mettono la testa sul cuscino prima di addormentarsi?

Tuttavia, credo che quell’uomo sedutomi accanto non la pensasse come me. La sua attenzione era rivolta ad un’immagine di una donna con le braccia conserte e con la punta del piede rivolta all’insù. Sbirciando con la coda dell’occhio, ho letto nella descrizione che la punta del piede rivolta verso l’alto è un buon segno, significa che alla persona in questione piace ciò che sta ascoltando, si sente a suo agio.

Facile intuire quale fosse lo scopo di un uomo sulla quarantina quando ha acquistato un libro del genere, ma forse questa potrebbe essere un’altra storia: quella in cui la punta del piede rivolta verso l’altro diventa un’inconsueta pratica d’adescamento. O forse, è semplicemente quello ho voluto immaginare io, complice lo scarso sonno ed il rientro dalle vacanze natalizie che mettono sempre di cattivo umore.

Se a stilare la lista dei propositi del nuovo anno fossi tanto brava quanto a costruire castelli in cui farci abitare principi, principesse, fate e streghe cattive, probabilmente a quest’ora ne avrei già una e ne avrei almeno portato a compimento un paio. La verità è che però io e le liste abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale: è come se la vita ad un tratto si accorciasse, come se una porzione si presti a diventare necessariamente funzionale ad un’altra successiva. Non esistono parentesi, né punti, ma solo tante virgole. Come quando si legge un testo lunghissimo privo di punteggiatura e solo alla fine potrai tirare un respiro di sollievo, perché lo hai portato a termine.

Ho sempre preferito immaginare castelli che stilare liste: perché nei luoghi che la tua fantasia è in grado di disegnare sei libero ed il tempo non diventa un nemico da sfidare, perderesti in partenza. Diventa un compagno di viaggio, pronto a coccolarti quando la tua pazienza vacilla, ma anche a tirarti sberle quando ti dici stanco nel proseguire.

In quel castello fai entrare chi vuoi, forse chiunque, ma manterrai sempre la porta socchiusa perché non ti piace trattenere con forza chi non vorrà più farne parte. E alla fine andrai avanti lo stesso, senza mai rimpiazzare nessuno, perché ogni porzione di vita avrà avuto il suo senso, lì ed allora. Imparerai a rigenerare, te e ciò che ti circonda, perché quel castello non diventerà mai una prigione.

Immaginare castelli che non fossero costruiti con la sabbia ma che avessero pareti più spesse così da sembrare robusti come una qualunque lista è quello che ho fatto quest’anno: non sentirsi rinchiusi in un limbo con le gambe a mezz’aria, ma mantenere i piedi ben fermi sul selciato, così da potermi indicare una via da seguire. Non ha mai fatto parte di una lista di propositi, l’ho imparato strada facendo, non tralasciando alcuna via alternativa.

Se oggi qualcuno mi chiedesse di farmi un augurio, probabilmente sarebbe quello di concedermi qualche momento in più in cui rimanere a braccia conserte con la punta del piede rivolta all’insù. E questo non di certo per rimorchiare uomini in metropolitana che acquistano curiosi manuali per camuffare la scarsa abilità nel relazionarsi a qualcuno.

Mi auguro di provare piacere nell’ascoltare, di sentirmi a mio agio, in un castello aperto a chiunque, in cui farci restare solo chi conta.
In cui non esistono ritardi, ma semplici attese.
In cui spendere tempo in egual misura, per correre verso qualcosa, e per aspettare che qualcosa riesca a raggiungere te.
Quel castello in cui si nascondono sentieri che percorrerai silenziosamente e che d’un tratto ti imporranno di svoltare.
Quelli che dietro l’angolo nascondono piazze di piccole dimensioni, dove sentirai lo schiamazzo di bambini che giocano, il profumo del caffè, il rumore delle onde del mare.
E saprai già che dovrai sostare su di una panchina a caso, così da riuscire a farti entrare tutto dentro.
Non aspetterai che qualcuno, in quel castello, venga a salvarti, perché sarai in grado di farlo da sola. L’hai fatto tante volte ed ogni volta sapevi che non sarebbe stata l’ultima.

Per questo odi le liste, i resoconti ed i buoni propositi.
Preferisci tuffarti e cogliere l’inaspettato.
Quello che alla fine ti fa amare il tragitto che hai deciso di intraprendere e che ti sprona a sognare, sempre più in grande.

martedì 5 giugno 2018

Adelante, cómete el mundo

Ho cercato di trovare le parole ogni giorno in questi mesi in cui non ho scritto. 
Poi, come spesso accade, sono state loro a trovare me, proprio quando ho smesso di cercarle. Così mi hanno quasi circondata, impedendomi di scappare, perché stavolta non ci sarebbe stata una via d’uscita, un piano B, un’alternativa che avrebbe solo procrastinato il tutto, mai cancellato.

Sono state loro a chiedermi di uscire, dopo tutti questi mesi, in cui dicevo sempre dell’altro per camuffare. Ed io, che ho imparato col tempo a prendermene cura come un genitore attento, ho capito, forse tardi, che era giusto lasciarle andare. Come quando un figlio chiede il permesso per poter prendere la propria strada, e tu, nonostante la ferita di vederlo andar via, non puoi non concedergli di distaccarsi: è un percorso naturale.

Così, chiudo anche questo pezzo di vita.
E con questo, tante altre parentesi.
Perché so farlo soltanto in questo modo: apro e chiudo ogni cosa, nello stesso preciso momento.

Quello che mi ha visto diventare più grande, più donna, più forte. Ma anche quello che mi fatto capire quanto ancora potessi essere debole, senza per questo vergognarmene. 

Quello che mi ha visto credere in un amore che non c’era. Per poi applaudire, forte, al trionfo di quello degli altri. Quello che mi ha visto prendere e poi lasciar perdere. Quello che mi ha visto lottare per degli ideali, per poi capire che ad ognuno spetta la verità che i propri occhi sono in grado di osservare. Quello che mi ha visto vincere, ma anche perdere, tante volte.

Quello che mi visto sorridere, ridere a crepapelle, piangere da inondare un edificio, star male nel silenzio di una stanza che non emetteva alcun’eco.
Quello in cui la serenità a volte è stata spazzata via dal rammarico di non avercela fatta. Quello in cui certi traguardi che dovevano essere la fine di un percorso ad ostacoli sono stati percepiti come mura ancora più alte, mentre altri come i doni più belli che la vita possa concederti.

Quel pezzo di vita in cui ho dato valore alla solitudine. Ma anche quello in cui quest’ultima ha assunto la parvenza di una spina, quando ho appurato che se nessuno si sarebbe preso cura di me, dovevo farlo da sola, mentre intanto offrivo le mie spalle ai primi che vi si appoggiavano, per poi inarcare le proprie e voltarsi senza mai incrociare più il mio sguardo. Nemmeno per un arrivederci.

Quel pezzo di vita che mi ha arricchito e consumato, allo stesso tempo.

Quello in cui non ho mai avuto veramente paura, così da sembrare una ragazzina arrogante, prepotente, sicura di sé, solo perché volevo dimostrare di non averne, solo perché non potevo più permettermelo, senza dare tante spiegazioni a chi, per indifferenza o disattenzione, non le avrebbe capite comunque. Una che non faceva alcuna fatica ad esprimere un’opinione, a mandare al diavolo, a mettere tutte le cose al proprio posto, lì dov’era giusto che fossero. Ad ascoltare, incoraggiare, ad infondere resilienza, ad essere paziente. Ma ho fatto anche tanta fatica: ad ascoltare quando avrei voluto essere ascoltata. Ad accondiscendere a bugie quando avrei voluto gettare in faccia la verità. Ad ordinare o riparare vasi oramai rotti, quando avrei voluto che qualcuno me li avesse tolti dalle mani. Ad essere resiliente, quando tutto mi avrebbe imposto invece il contrario.

Quel pezzo di vita in cui ho rimproverato a me stessa un eccesso di empatia, di sensibilità, di accondiscendenza. Quello in cui a volte ho concesso ad altri il lusso di rimproverarmelo, quasi fosse un peccato capitale. 

Ho trovato famiglie che ho perso. Ho rischiato di perdere famiglie consolidate di cui poi ho capito di non poterne fare a meno. Ho trovato qualcosa, cui non so ancora dare un nome, ma sa di umanità e ho capito che è bello. Ho trovato qualcosa che avrei voluto trattenere, prima di rivelarsi uno scrigno vuoto e troppo piccolo per poter contenere il mio cuore.

Non so se non ho mai avuto veramente paura o semplicemente volevo mostrare di non averne. Oggi, mentre preparavo il mio terzo caffè della giornata, ho capito che non potevo più mentire e ho ammesso a me stessa di averne tanta, e che il timore di non apparire fragile è umano quasi quanto la voglia di sfidare ogni paura, quasi quanto il bisogno di mostrarsi per quello che si è, per quello che ci si porta dentro, di tanto in tanto. 

Così ho paura.
Di saltare la staccionata.
Di percorrere nuovi sentieri mai calpestati finora.
Di inciampare, di nuovo, sempre negli stessi punti.

C’è solo una cosa di cui non ho avuto mai paura. 
Di apparire allo sguardo dei disattenti una ragazzina arrogante e prepotente. Perché ho capito che sono gli altri, invece, ad averne: quando non riescono a mostrare lo stesso coraggio, quando fa comodo per incapacità di comprendere quella sicurezza che ti sei dovuta cucire addosso quando hai capito che si è sempre soli quando ci si getta nel mondo, con premura o con tutta la veemenza che ti appartiene.

Non ho mai avuto paura.
Di offrire il mio cuore, anche rischiando di farmelo restituire in pezzi.
Di seguirlo, anche quando mi dice di attraversare sentieri ripidi e bui.
Di esserlo, il mio cuore.
In tutte le sue forme.
In ogni lacrima, così come in ogni suo sorriso.
In tutti i suoi punti di forza, ed in ogni sua debolezza.

É questo che le mie parole volevano dirmi ed io non potevo aspettare: che le devo cacciar fuori, sempre, perché io sono loro tanto quanto loro sono me.
Di non aver fretta di divorare il mondo, ma di cominciare ad addentarlo a piccoli morsi, dopo un lungo periodo di astinenza.
E di non fermarmi, mai.
Anche quando avrà un cattivo sapore, quando non riuscirai a deglutire, quando ne avresti preferito di gran lunga un altro.
Che tutto ci forma e ci consuma, al contempo.
Ma niente deve trasformarci in qualcosa che non siamo.

Cómete el mundo, sento sussurrare.
Ed io prometto soltanto una cosa: ci provo, perché non ho paura.

sabato 24 febbraio 2018

Il tuo profumo e anche i tuoi occhi

Non manca molto, in fondo.

Per iniziare il mio ultimo anno che avrà il due come primo numero.
Chi lo sa come mi sentirò tra dieci anni, quando sarà il tre a lasciare posto al quattro.
E chi lo sa come mi sono sentita dieci anni fa. Questo nemmeno me lo ricordo.

Quando sono in prossimità di un traguardo, mi concedo del tempo per guardare tutto quello che ho lasciato alle spalle. Devo capire se merito di oltrepassare la striscia bianca segnata sull’asfalto, asciugarmi la fronte per poi ripartire in una nuova corsa. 

Una di quelle che avrà un selciato più o meno tortuoso, ma sicuramente un’altra destinazione. 
Una di quelle che comprenderà altri 365 insegnamenti, racchiusi spesso in dettagli che restano inosservati allo sguardo dei più. 
Una di quelle in cui saper cogliere quando sarà opportuno ingranare la marcia, e quando invece decelerare.

Lo faccio non per contare cosa ci abbia guadagnato, ma soprattutto cosa ho sbagliato. Cosa ho perso. Cosa non ho imparato. Cosa mi ha tenuto legata. Cosa non mi ha permesso di vincere con maggiore agilità. Perché, in fondo, è anche questo che la vita ci chiede ogni tanto, come fosse una sorta di conto da pagare. 

Un rendiconto che scrivi tu. Davanti ad un foglio bianco, senza remore, né paura di tradirti. 

Allora, nel mio penultimo anno con il due davanti, non ho ancora imparato a non dar troppo peso. Alle circostanze avverse, ai volti di plastica, alle sagome di cartone, alle parole scritte sulla sabbia.
Piuttosto, ho cominciato a dar peso al tempo che scorre, a considerare sacro ogni attimo, così da essere incapace a sprecarlo. Per tutte quelle cose destinate a diventare brutti ricordi nello stesso istante in cui le si vive, e con tutti coloro destinati ad essere chiusi in uno scatolone da custodire nell’angolo di una casa, come fossero l’ultimo pacco da scaricare.

Ho imparato a sbiadire quella linea di demarcazione che ostinatamente ricalcavo tra me e quella porzione di mondo che un tempo mi faceva paura. 
Ho imparato a lasciar sbiadita anche quella che custodivo dentro di me, per separare le parole da pronunciare dal mio reale stato d’animo. 
Ho avuto la conferma, però, che quello che sono lo esprimo soltanto scrivendo. Così, ho imparato a fregarmene: di quello che vede la gente, di quello che pensa, di come mi etichetta. 

Perché la verità é che ci sarà sempre qualcuno pronto a puntarti il dito, per farti un elenco di tutte le tue manchevolezze.

Ci sarà quello che ti biasimerà di non averlo amato abbastanza, o di averlo amato troppo. Così ho imparato ad amare e basta, senza preoccuparmi della dose da offrire, né di quella che forse non riceverò in cambio. E ho imparato che non amare non é peccato. Lo è imporsi di farlo, solo perché é scritto sul copione di un film che non sei più disposto a recitare. 

Ci sarà sempre qualcuno che ti darà dell’incapace, dell’inferiore, dell’inetto. Ho imparato che sono quelli che hanno paura di te. Allora se non sarai in grado di insegnar loro a non averne, dovrai imparare a scansarli. L’ho imparato, ma troppo tardi.

Ci sarà sempre qualcuno detentore di una verità che non collima con la tua. Perché, alla fine, ognuno avrà il diritto della verità che gli spetta. L’ho imparato, questo, a mie spese, appurando che ogni verità è il prodotto di diversi ingredienti che si miscelano, e la consistenza dipenderà dalle dosi. Una verità è fatta di coraggio, di amor proprio, di umanità, di senso del dovere, quello morale. La paura no, non c’entra niente. Quella produce solo grandi bugie.

Così, alla fine, ho capito anche un’altra cosa.
Che non sarò mai quella donna in grado di godermi il traguardo, senza però prefissarmene subito un altro. 

Che sarò sempre quella donna che sente di non meritare di appoggiare il suo piede oltre la striscia bianca segnata sull’asfalto. Potevo essere più svelta, decelerare in alcuni momenti per godere della bellezza del paesaggio circostante, potevo sudare di più.

Ma sarò quella che non avrà mai più paura di perdere ogni cosa, perché ha imparato a costruire quel poco che conta. Quella che agli altri mostra sempre di essere pronta, perché ha imparato a lanciarsi anche senza paracadute.
Quella che non conterrà nulla: né il troppo amore, né la paura di essere infelice.
Quella che, alla fine, avrà imparato a miscelare pochi ingredienti per creare un prodotto che non debba necessariamente piacere a chiunque, ma soprattutto a se stessa, al punto da non smettere mai di creare. 
Quella che, alla fine, avrà poco da insegnare, ma avrà imparato una cosa importante: sentirsi bene in dei piccoli spazi che l’immaginazione trasforma in regni incantati, e ad essere felice, con le piccole cose.


È così che immagino il mio ultimo anno, prima di salutare il numero due: pieno di tutta quella vita, anche quella che fa male, da cogliere a piene mani, che attraverso sentieri stretti ti conduce verso il mare, dove tutto é più familiare, perché avrà il tuo profumo, e anche i tuoi occhi.

domenica 8 ottobre 2017

La vita é una questione di cuore

La vita é una questione di scelte.
Soltanto di quelle che bruciano.

Che non ti fanno dormire la notte.
Che fanno male, per la grandezza delle loro conseguenze.
Per quello che potresti lasciare, o anche ritrovare.
Di quelle che poi, nonostante tutto, fungono da ossigenante.
Di quelle che spazzano via ciò che il tuo inconscio aveva già deciso da tempo di abbandonare.
Quelle scelte per cui ci vuole non soltanto coraggio, ma soprattutto amor proprio.
Quelle che spingono fuori come una cascata tutte le emozioni che hcosai gelosamente custodito, per poi mescolarsi come su di una tavolozza di colori ad olio, su cui le lacrime si tingono di sorrisi, le occasioni perse di soluzioni ritrovate.
Quelle che affaticano il cuore che poi, però, ritorna a battere, così forte come se qualcuno ce ne avesse consegnato uno nuovo. 
Quindi, forse, la vita é piuttosto una questione di cuore.

E di tempi.
Quelli che potranno essere accettati per quelli che sono.
O sfidati, quando qualche frammento di cuore non riuscirà a combaciare con quella frazione di tempo a noi per qualche ragione destinata.

Ma sarà in quest’eterna sfida tra titani che sul finale ci accorgeremo che non potranno esserci né vincitori né vinti. Il tempo non potrà battere il cuore, così come il cuore non riuscirà mai ad avere la meglio sul tempo.

Piuttosto, danzeranno.
Insieme.
Oltre le luci dell’alba.
Perché il cuore non ha bisogno di trovare ragioni per battere, così come il tempo alcuna giustificazione per essere sfidato.

Così, quando avremo l’impressione che uno sia riuscito a vincere sull’altro, in realtà nessuno dei due sarà veramente esistito. 
Non era quello il tempo a noi destinato e tutti i frammenti di cuore mai stati realmente ricomposti.
Perché il tempo seguirà sempre il cuore, ed il cuore cavalcherà sempre l’onda del tempo.

È così che mi piace immaginarli.
Come su di un’altalena in cui a turno l’uno spinge l’altro.
Su cui potranno sedersi entrambi solo in rare occasioni, quando saranno in grado di cogliere la folata di vento che li accompagnerà sino in cima.
Altrimenti, dondoleranno, l’uno sulla spinta dell’altro.


È così che mi piacerebbe immaginare le cose belle della vita: come un’energica spinta da quella frazione di tempo che ci è concessa che lancia il cuore sino al punto più alto, e nel frattempo il cuore aiuta il tempo a non lasciarsi consumare.

mercoledì 30 agosto 2017

Qualcosa che riscalda e al contempo rinfresca

L’altro giorno, mentre i miei piedi nudi toccavano l’erba fresca sottostante ed i raggi del sole mi accarezzavano la pelle, pensavo che è così che dovrebbe essere.
Tutto quello che appartiene già alla nostra vita.
Tutto ciò che abbiamo scelto ne faccia parte o che abbia scelto di inserirsi nella lista della nostra quotidianità senza passare alcun criterio selettivo, bensì seguendo un processo naturale.
Tutto quello che desideriamo ardentemente che possa entrare nel circuito delle cose di cui prenderci cura, per il semplice fatto che ci rinfreschi e che al contempo ci riscaldi.

È stato in quel momento, in quella contrapposizione di sensazioni, avvertendo la delicatezza dell’erba umida e la prepotenza di quel calore, così forte da farti sudare, che ho immaginato che così come nella vita si possa scegliere tra il bianco ed il nero, è possibile, nel passaggio tra i due estremi, fermarsi a metà strada per godere di entrambi, trovando una sfumatura che non lasci alcuna ambiguità né che sia eccessivamente sbiadita, ma condita dell’uno e dell’altro.

Forte quando è necessario, e debole quanto basta.
Impetuosa da far sentire la propria presenza, ma con la delicatezza che sia in grado di stemperare gli eventi per non percepirla ingombrante. 
Calda. Come una giornata di solleone in cui l’afa sembra toglierti il fiato.
Fresca. Come un venticello di fine estate.

Ed è così che intendo sentirmi d’ora in avanti. All’indomani di qualsiasi decisione importante che richieda una risposta secca, tra il bianco ed il nero, dentro o fuori, prendere o lasciare, tondo o quadrato, con o senza. Come una partita a scacchi al termine della quale ogni pedina ritorna al proprio posto, seguendo ciascuna il proprio ordine, per ricominciarne un’altra sapendo che alla fine ciascuna tornerà nel quadrante che gli spetta.

È così che vorrei sentirmi, per me stessa, ed anche in relazione ad altri.
Sono queste le persone che voglio.
Quelle che mi fanno sentire il calore di una giornata d’estate in cui la brezza ad un certo punto comincia ad accarezzarti in maniera inaspettata.
Quelle che scottano, ma che ti danno modo e spazio per mantenere i piedi nel terreno umido e percepire che il calore dell’altro non è un bisogno, ma un’aggiunta ad un valore preesistente, perché tu ci sei, esisti, non finisci, anche quando i raggi smetteranno di riscaldarti.
Quelle che senti perché lasciano su di te un segno, come il terreno bagnato che ti sporca le ginocchia quando tenti di rialzarti.

Quelle che se fossero profumo sarebbero orchidee.
Quelle che se fossero un rumore sarebbero mare.
Quelle che se fossero un colore sarebbero una tonalità di verde intenso, come risultato della combinazione del giallo e del blu.
Quelle che se fossero un momento da fotografare sarebbero un’alba, perché faranno pensare sempre ad un inizio, mentre i colori tenui del primo mattino si uniscono per divenire via via sempre più decisi. 
Quelle che se fossero un sentimento sarebbero amore, perché se lo porteranno dentro, lasciando che penetri senza alcun filtro in qualsiasi cosa che rifletta bellezza e, talvolta, trasformando, cose o persone o circostanze, per quel modo inusuale ma potente di trasmettere amore, in tutte le sue sfaccettature, in ogni sua forma che richiami alla memoria bellezza.

È come un bilancio. Una sorta di equilibrio. Precario, solo fin quando non si scopre la posizione che più ci rispecchi.
Al centro di un filo di spago legato a due angoli opposti a due metri dall’asfalto.
A metà strada, tra il bianco ed il nero, al solo scopo di non perdere niente e lasciare andare solo ciò che non conta.

Ciò che conta lo riconosceremo perché sarà ciò che ci farà star bene, aggiungendo valore senza mai intaccare il nostro.
Sarà qualcosa che avrà a che fare con l’intensità del nero, ma anche con la delicatezza del bianco.

Sarà qualcosa che riscalda e che al contempo rinfresca.

giovedì 20 aprile 2017

A metà strada

A metà strada tra l'equilibrio e la follia.
Tra l'amore per se stessi e quello che nelle forme più disparate si rivolge agli altri.
A metà tra l'individualismo ed il bisogno, umano, di riempirsi degli altri.
A metà strada tra la solitudine e lo stare con altri.
Tra occhi profondi e quelli che a volte necessitano di rimanere chiusi.
Tra sorrisi spontanei e quelli che gradatamente si spengono.
Tra volti estranei e quelli che profumano di familiarità.
A metà strada tra l'essere se stessi in questo tempo e quello che si potrebbe essere un domani.
A metà tra l'istinto ed i doveri morali.
Tra la spensieratezza e le responsabilità.
Tra il buio e la luce.
Tra un giardino fiorito ed una campagna bruciata.
Tra l'infinito del mare e il finito di se stessi.
Tra un soffione ed uno stelo di un fiore già appassito.
A metà strada tra il cristallo e la roccia.
Tra le debolezze di oggi ed i punti di forza di domani.
Tra quello che siamo e quello in cui dobbiamo migliorare.
A metà tra gli errori e la capacità di perdonare.

A metà strada. È lì che vorrei stare. È dove in fondo vorrei mi cercassero tutti.
Un posto in cui si procede a passo svelto e si decelera quando se ne avverte il bisogno.
In cui non si nasconde nulla. Niente di brutto, ma nemmeno di bello.
A metà, che non significa non sentirsi pieni, piuttosto venirsi incontro. Anche con quella parte di te che avevi imparato ad ignorare.
A metà, che significa accondiscendere, capire, perdonare, mai biasimare. Ma saper dire basta quando ti sembra abbastanza.
A metà, che significa saper agire più del subire.
A metà, che significa avere un cuore che batte e mostrargli rispetto. Almeno a lui. Che continua a farlo sempre, a ritmi costanti.
A metà, che significa compiacere mai al prezzo della propria dignità.
A metà, che significa crescere, con consapevolezza, ma mai più di quanto lo si esiga.

Sono lì. A metà strada. Non perché qualcuno venga a recuperarmi. Si sta bene, spesso, a metà. Con il ricordo dell'inizio, l'entusiasmo della traversata, la gioia di scoprire cosa ci sarà al traguardo.

Ma non saremo metà. Né avremo bisogno di metà cui aggrapparci. 

Saremo interi, in uno spazio che oscilla tra la fine di tutto e l'infinito delle cose che saremo in grado di creare.


A metà strada. È lì che creiamo la vita.