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giovedì 7 dicembre 2023

Città come persone

Tratto le città come fossero persone. Cerco di capire se posso instaurarvi un rapporto, mi addentro nelle loro contraddizioni, seguendo il flusso naturale degli eventi, senza forzature, per capire se possano diventare il mio porto sicuro quando sento di volerle bene sul serio. Città che diventano quegli amici che puoi chiamare alle quattro di notte perché hai perso le chiavi di casa che poi ritrovi il giorno dopo nella tasca del cappotto, quelli cui raccontare senza reticenze tutte le tue miserie, o quelle persone con cui non si va oltre una chiacchierata leggera sorseggiando un calice di vino. Città come quei colpi di fulmine che durano quanto un gatto in autostrada, come l’amore della vita che s’incontra una volta sola - dicono in una notte d’estate - o come amanti che rivelano di colpo la loro indole tossica. Città che sono una sola cosa o che pian piano divengono anche tutte le altre, nel bene e nel male. A volte ci vuole tempo per scoprire, scoprirsi. Al contempo, vivo spesso le persone come fossero città, anche quando appaiono ostili come dei labirinti da cui si fa fatica ad uscire, sfuggenti, silenziose, a tratti invisibili.

Mi piace conoscere le loro storie fatte di viuzze che sbucano su piazze gremite e di stradoni illuminati da lampioni che creano ombre sui marciapiedi. I loro vicoli ciechi, le panchine poche illuminate, le strade sterrate che si teme di percorrere, i quartieri residenziali dove i bar restano aperti solo fino ad una certa ora, dove vanno a dormire anche i lampioni. Mi piace entrare a contatto con l’intimità dei loro silenzi, sapere che musica ascoltano, che dieta seguono, che libro stanno leggendo, il loro film preferito.

Mi piace trattare le città come persone e viceversa perché è attraverso questo processo di identificazione che si impara ad amarle, o odiarle, o tutte e due le cose.

Mi piace perché è in questo modo che riesco ad abbracciare il cambiamento, raccogliendo boccioli o spazzando via le foglie ingiallite a seconda delle stagioni. Ad ascoltare il rumore delle onde che ti culla con nostalgia verso cose passate, finché un raggio di sole ti riscalda e ti viene voglia di nuotare, o una folata di vento che ti scompiglia i capelli e ti dice di andar via. Mi piace perché ti offre un tempo in cui si impara a dosare, per piacersi, per farci l’amore e imparare ad amarsi anche dopo aver scoperto l’uno i vicoli ciechi dell’altro, e poi te ne offre un altro, in cui si impara a cedere, poi a togliere, a lasciar cadere ogni idealizzazione come cristalli, a lasciar andare, pian piano, e talvolta ogni cosa.

Ho sempre creduto fosse un limite, quello di pensare che una città sia niente altro che le persone che incrociano il tuo cammino, a cui leghi ricordi, piacevoli e non, a cui agganci tutto quello che si è creato, o anche distrutto. E invece forse ho compreso che finché avrò il coraggio di farlo, riuscirò sempre a trarne dei benefici: quello di guardarsi alle spalle al solo scopo di riportare alla memoria il proprio punto di partenza, chi si era e chi si voleva diventare, e guardare avanti, senza rimorsi né rimpianti, con la consapevolezza che in fondo si è dato tutto. Quello di guardare non solo agli stivali sporchi di fango, ma il terreno su cui si è seminato, e all’occorrenza scegliere un percorso alternativo. Quello di utilizzarle come specchi in cui ritrovare il proprio riflesso, a volte invecchiato, altre riscoprendone tratti da bambino. E quello di aver imparato l’arte del restare, solo quando non ci arrechi dolore, nonostante certe maree, perché abbiamo imparato a galleggiare.

Ci sarà sempre una viuzza che porterà in un posto che non si è mai esplorato, si finirà in vicoli ciechi o in quartieri poco illuminati, e poi su strade dal selciato fangoso. L’importante, però, sarà sempre riconoscere la strada per tornare a casa.

Non so precisamente cosa sia questa casa. E non si tratta solo di luoghi, spesso sono persone. O ancora talvolta sono emozioni: la associo ad una mano calda che ti prende il volto, poi si posa sul petto e gradualmente, senza farti male, te lo apre per accarezzare il cuore, per far sì che ci si possa guardare dentro, per recuperare le proprie radici e ripulirle dal superfluo, da tutto ciò che sopra di esse era stato depositato, anche maldestramente, sino a seppellirle.

Per me è questo il sinonimo di casa: ritornare alle origini, a quelle radici che non hanno subito cambiamenti nella loro essenza, ma sono solo diventate più forti per reggere il peso, a quel posto che scegliamo di tenere dentro, la cui porta rimane sempre aperta, anche quando per lunghi periodi avevamo scelto di non suonare il campanello pensando di aver perso le chiavi. E invece poi ce le ritroviamo nella tasca del cappotto. Scrivere, per esempio, è uno di quei luoghi che mi piace chiamare casa.


sabato 4 aprile 2020

Racconto breve: Scarpe strette

Atterrai a Dublino nel tardo pomeriggio di una domenica di fine estate. Mi affrettai per andare a recuperare il bagaglio e mi misi in coda per l’autobus, che in poco più di tre ore mi avrebbe condotto a Cork, una piccola cittadina al Sud dell’Irlanda. Il cielo era di un grigio cadetto e la pioggia così sottile da non bagnare nemmeno l’asfalto.  Occupai uno dei primi sedili, accanto ad una donna dalla corporatura robusta che si rannicchiò sul suo fianco destro per tutta la durata del viaggio, costringendomi a appoggiare la testa sul vetro del finestrino alla mia sinistra. 

Ho sempre amato la pioggia, il suo profumo e quell’inconsueta quiete che ne sussegue. Sin da bambina mi piaceva guardare come scorrevano velocemente gli schizzi di pioggia sui vetri delle finestre, immaginando fossero degli spermatozoi che passavano da una parte all’altra del fermavetro. Di questa mia fervida fantasia non ne avevo mai parlato a nessuno. Avrebbero pensato tutti che fosse una delle mie tante stranezze, anche se poi quell’etichetta me la cucirono addosso quasi tutti anche senza sapere delle mie bizzarre fantasie, quando una volta conseguito il diploma decisi di dare un taglio a quella che sino ad allora era stata la mia vita.

“Allora non ti iscrivi all’università?” mi chiedeva insistentemente Daniela, la mia storica compagna di banco delle superiori, a cui ho sempre passato tutti i compiti di inglese e matematica, le uniche due materie in cui ero sempre stata molto più ferrata degli altri.
“No, preferisco fare quest’esperienza all’estero. Magari apprendo l’inglese sul serio, mi trovo un lavoro. Preferisco guadagnare qualcosa”.
Era questa la risposta che avevo dato a tutti, pur percependo in ogni sguardo in cui mi imbattevo un velo di incredulità. Preferivo non farci caso, in fondo non avevo altra scelta.

Non sono cresciuta in una famiglia abbiente. Quando avevo dodici anni la gelateria che aveva preso in gestione mio padre fallì, così mia madre si ritrovò con uno stipendio da segretaria di poco più di mille euro al mese a prendersi cura di me, mio fratello e mia sorella, e a curare la depressione di mio padre.
“Però pigli troppi caffè e fumi assai Stefano”, mia madre rivolgendosi a mio padre.
“E c’aggia fa’ Rosà?”
“Vai a dare un poco d’acqua alle piante e porta fuori i cani”.

All’inizio pensavo che mia madre lo sgridasse. Forse, per non essersi preso cura abbastanza della sua famiglia. Poi capii che quello che sembrava fosse un ordine era l’unico modo che conosceva per spronarlo a non lasciarsi andare. Capii che spesso mia madre utilizzava quei modi bruschi per insegnare a me e ai miei fratelli ad essere responsabili. Intanto lei aveva imparato a gestire l’imbarazzo magistralmente. Come quando mia zia veniva a portarci la spesa e buste piene di vestiti che le mie cugine non indossavano più.

“Marì e mò tutta sta roba dove la metto?” mia madre, rivolgendosi a mia zia con tono di rimprovero.

“E te li conservi per quando cresce”.

“Vieni qua Claudia, misura qualcosa”.

Anche se le scarpe mi stavano strette o le maglie troppo larghe, mia madre era sempre in grado di trovare una soluzione.

“Questo vestito ti sta bene Claudia, poi mamma te lo stringe un poco.”

“Guarda qua pure sta felpa, quest’anno ti rimbocchi le maniche, per l’anno prossimo ti andrà giusta”.

Quando anche mia madre venne licenziata qualche anno più tardi, capii che avrei dovuto mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato e che sarei stata io stavolta a trovare una soluzione.

Comunicai ai miei l’intenzione di andar via per un po’. Acquistare un biglietto di sola andata rappresentava un’arma a doppio taglio dietro cui si celava un po’ di sano egoismo che mi avrebbe consentito di riaproppriarmi di quello che mi era sempre mancato e conquistare la mia indipendenza, così come un innato altruismo nei confronti dei miei genitori per ripagarli di tutti i loro sacrifici.

“Ma tu si piccerell, arò vaje?” mi disse mia madre.

“Mà ho diciannove anni. Mi trovo un lavoro, là pagano bene, vi mando qualcosa”.

“No figlia mia. Lascia stare”.

“Rosà, lassà sta tu. Se vuole andare, va buon accussì”, la interruppe mio padre, il quale sembrò non batter ciglio di fronte alla mia decisione.

Così mia madre mi aiutò a preparare le valigie, lasciando spazio in ogni angolo per qualche pacco di pasta e di caffé.

“Portati pure questo piumone.”

“Mà dove lo metto? Non c’è spazio. Poi me lo compro, non ti preoccupare”.

“Claudia là fa freddo. Te lo faccio entrare io, aspetta”.

In un modo o nell’altro, mia madre trovava sempre una soluzione. Così riuscii a portare con me anche il piumone.

“E mò quando torni?” mi chiese prima di salutarmi in aeroporto.

“Mà non lo so”.
Girai le spalle senza voltarmi. Non volevo vederla piangere. L’ho sempre fatto, tutte le volte che tornavo, perché col tempo ho capito che forse una madre non si abitua mai a vedere andar via un proprio figlio.

Venni assunta da Amazon e riuscii a mettere un bel po’ di soldi da parte, oltre ad inviare ogni mese una cospicua somma ai miei, il che mi fece credere per un bel po’ che avessi finalmente costruito una vita, la mia, degna di essere vissuta. Ogni cosa che profuma di libertà ha il suo prezzo da pagare, e credevo che quello fosse il mio: poco più di cinquecento euro al mese.

“Grazie Claudia, poi ti mando un pacco a fine mese”.

“No, mamma, non mi serve niente”.

“Come non ti serve niente? Non ti preoccupare, ho cominciato a pulire la casa della signora Carmela, quella che abita di fronte. Ha detto che ha altre signore da presentarmi”.

“Mi fa piacere”.

“Ascolta che ti serve?”

“Mà te l’ho detto, non mi serve niente”.

“Io ho due frullatori, uno te lo mando, può sempre servire. Poi ascolta, ti mando pure le tende così le metti nella tua stanza”.

“Le tende? Non ti preoccupare, non mi spedire niente”.

“Allora quando vieni te le porti in valigia. A proposito, quando torni?”

Le telefonate tra me e mia madre si concludevano sempre con la stessa domanda cui io davo quasi sempre la stessa risposta: “Presto mamma”, anche se talvolta voleva dire il prossimo mese, altre volte entro sei.

Prima di partire mi documentai su Cork, la città natia di un professore con cui avevo seguito un corso d’inglese ai tempi delle superiori. Decisi di trasferirmi in quella cittadina di poco più di 120.000 abitanti spinta dai suoi racconti sulla bellezza incontaminata dei suoi paesaggi. Poco dopo però mi resi conto che non aveva molto da offrire ai giovani della mia età, a parte lavori strapagati rispetto a quello cui ero abituata.

Durante quei tre anni in Irlanda mi sono fatta degli amici, ma mi sono anche abituata a vederli andar via. All’inizio cadevo in un profondo sconforto, poi col tempo ho imparato a lasciarli andare, mantenendo solo i ricordi. Nessuno voleva rimanere lì per sempre e man mano questa divenne una certezza anche per me.

Oggi sono su un altro autobus, quello che dall’aeroporto El Prat di Barcellona mi fermerà a Plaça Cataluñya, il punto di partenza da cui le mie scarpe, questa volta della mia misura, cominceranno a calpestare un asfalto diverso, come quello di viuzze strette che portano al mare. Come mi mancava, il mare. Non potrò di certo spedire ai miei conchiglie, pensai. Troverò un lavoretto e continuerò ad aiutarli, come potrò, la fortuna aiuta gli audaci, diceva sempre mia madre. Nel mio bagaglio avevo imparato a farci entrare tutto, proprio come faceva lei, compreso il piumone. Questa volta, però, i sensi di colpa li avevo lasciati dietro le spalle di quella ragazzina ingenua che indossava scarpe strette e che rimboccava le maniche alla felpa, perché tanto l’anno successivo le sarebbe calzata a pennello.

Quel tempo mi servii per apprendere una lezione che altrimenti mi sarebbe stata sconosciuta: che la libertà ha spesso il sapore di cose semplici ed il suono di quelle che avevamo rimosso dalla nostra mente, come il rumore delle onde del mare. Che quando pensavamo di possedere le chiavi per inseguire la nostra libertà, stavamo invece aprendo la porta di quella che sarebbe stata la nostra prigione. E che nessuno si salva da solo, ma chiunque ha il diritto di salvare dapprima se stesso.

giovedì 19 marzo 2020

Essere umani ai tempi del COVID-19

In queste settimane di quarantena forzata abbiamo trovato più tempo per noi stessi e al contempo anche per gli altri. In poche parole, credo che in circostanze a dir poco surreali, stiamo allo stesso tempo gettando le basi per la creazione di un mondo ideale, a patto che, quando tutto questo sarà finito, saremo in grado di ricordarcelo e mantenerlo intatto.

Abbiamo ricominciato tutto quello che avevamo lasciato in sospeso, stiamo dedicando del tempo a tutto quello che avremmo sempre voluto fare ma che abbiamo rimandato non solo per mancanza di tempo, forse più di costanza.

Avvertiamo la necessità di metterci in contatto più spesso con i nostri cari, anche solo per sapere se hanno fatto un colpo di tosse nelle ultime 12 ore.

Sentiamo il bisogno di metterci in contatto anche con chi avevamo dimenticato, o con chi speravamo di cancellare dalle nostre vite. 

Colmiamo distanze con tante parole, al solo scopo di sentirci presenti seppure da lontano e di avvertire la vicinanza dell’altro. 

Ci auguriamo di abbracciarci e baciarci presto, più forte di quanto facessimo fino a qualche settimana fa. 

Sentiamo il bisogno di organizzare raduni telematici, perché abbiamo scoperto l’importanza dello stare insieme anche senza toccarci, guardandoci negli occhi sebbene ci sia uno schermo a separarci. 

Credo avessimo bisogno di tutto questo, quasi come fosse una lezione di vita per l’intera umanità che recita più o meno così: non dobbiamo aspettare che ci vengano negate le nostre libertà per dedicare del tempo a noi stessi e a chi amiamo, anche di nascosto, perché  se è vero che talvolta il tempo aiuta a curare ogni ferita e allontana, altre volte riconcilia.

Non possiamo rimandare, perché ci sarà sempre tempo a sufficienza per porre le basi per inventare e costruire, per essere chi, un tempo, avevamo scelto di diventare.

Non dobbiamo aspettare che accadano circostanze fortuite per ricordarci quanto ci amiamo, quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro, quanto ci sta a cuore chi lì dentro, in fondo, ha sempre albergato.

Non dobbiamo aspettare di essere distanti per raccontarci tutto quello che proviamo o che desidereremmo fare, come prenderci per mano e correre sul bagnasciuga sino a cadere con le ginocchia sulla sabbia e ridere di gusto, sino a lacrimare. 

Dobbiamo trovare il coraggio di perdonarci e perdonare, prima che il tempo consumi i nostri sensi di colpa. 

Dobbiamo avere il coraggio di viverla questa vita, non oggi che siamo distanti, ma domani, quando saremo vicini, urlandoci a squarciagola tutto quello che proviamo, stringendoci fino a toglierci il fiato, baciandoci come se non lo avessimo mai fatto prima. 

In fondo sono queste piccole forme d’amore che salvano la vita, la nostra e quella di chi ci è accanto.

Quando tutto questo sarà finito, manteniamolo intatto questo mondo virtuale, fatto di quelle carezze che ora più che mai desidereremmo scambiarci, di tutte quelle parole che non avremmo voluto pronunciare, di tutto quell’amore che non sapevamo forse nemmeno di provare.

Occorre ricordarcelo più spesso. Per sempre. Che ci serva da lezione.

domenica 21 luglio 2019

Londra-Barcellona, solo andata

Seduta su un muretto a bere una lattina di birra fredda, con gli occhi fissi sull'insegna di un supermercato con la saracinesca abbassata a metà. Profumi poco distinguibili nell'aria, spazzati via di colpo da una leggera brezza estiva. Il cigolio delle sedie di plastica trascinate in strada e posizionate in circolo, come un'abitudine che sa di estate, di voglia di stare insieme, tra lo schiamazzo dei bambini ed il rumore di un pallone lasciato rimbalzare in strada.

Sarà questa la prima immagine che porterò con me quando penserò al viaggio di sola andata dalla terra d'Albione al capoluogo della Catalogna.
Con uno sguardo perso di chi non contempla il vuoto, ma che cerca di mettere insieme tutti i punti di un percorso lunghissimo, per ricordare come sia potuto accadere che sia stata concessa proprio a me l'opportunità di ricominciare una nuova vita altrove, dove le strade più strette, le distanze 'meno distanti' ed il mare visibile non soltanto in cartolina una settimana all'anno, siano in grado di farti sentire meno piccolo e se forse pur sempre un numero, questa volta perlomeno a due cifre.
Quell'altrove che diventava sempre più irraggiungibile, mentre vivere seguendo uno schema macchinoso una di quelle abitudini insane di cui poi ad un certo punto non riesci a farne a meno.

Così, proprio quando mi stavo perfezionando nel triplo salto nel vagone affollato di una metropolitana in partenza al punto da suggerirlo come nuova disciplina olimpica e candidarmici certa di conquistare almeno una medaglia d'argento, proprio quando le corse pesavano meno, così come gli scatoloni del terzo trasloco in pochi mesi, e proprio quando Brexiful veniva addirittura superato dal Pratiful in quanto a dinamiche da soap opera, è suonata la sveglia.
È sempre accaduto tutto così, nella mia vita. O almeno, dicono che le cose belle succedono quando non le stai più cercando, ma solo quando non lo fai più sul serio, non per finta.


La mia vita è sempre stata il trasloco peggiore che io abbia mai fatto in termini organizzativi: non riesco a gettare nemmeno un cesto in vimini.
Così per settimane ho immaginato in che modo sarebbe cambiata la mia vita, e forse anche io, da cosa partire, cosa lasciare alle spalle.
Poi ad un certo punto ho capito che il cambiamento repentino sarebbe stato pieno del nulla, che avrebbe puzzato di finzione, e che pianificarlo mi sarebbe stato impossibile.
Le incertezze sono belle proprio perché ne si può conoscere una parte giorno dopo giorno, scrivendole al contempo non per deviarne il suo corso, ma per renderle più autentiche e conformi alla vita che abbiamo scelto per noi.

Così, sarebbe stato inumano e privo di cuore gettare tutto per ricominciare.
Delle tante vite vissute finora ho deciso di non buttare nulla, se non i sensi di colpa.
Ho deciso di fissare una saracinesca abbassata a metà, come a prendere il mio tempo per riassettare tutto ed immaginare tutto quello che è possibile creare.
Di lasciarmi scompigliare i capelli da una leggera brezza estiva, ma decidere sempre io se lasciarmici trasportare o restare dall'altra parte.
Di non lasciare che siano gli eventi a cambiare me, ma di cambiare marcia quando necessario.
Di ascoltare il cuore quando lo sento battere forte.
E di custodire ed alimentare quel desiderio sempre presente di creare una nuova casa, con i gerani sul balcone, le tende colorate e un paio di fotografie appese al muro.
Una di quelle in cui ti ci senti al sicuro, perché é calda abbastanza e piena di sorrisi reali.
Anche qui partirò dai dettagli, su cui costruire o demolire.

La mia unica promessa è quella di assorbire tutto il bello che possa far diventare il mio cuore sempre più grande, mantenendo insieme ciò che è stato, che è e che sarà, riconoscendo a ciascuna la stessa importanza.
Perché di me e della mia vita non getto nulla. E nemmeno il cesto in vimini: può sempre servire.