martedì 27 agosto 2013

Una torta e due cucchiaini.

L'altro giorno ero nel ristorante dove lavoro quando sono stata affascinata da una coppia che si stringeva le mani con invidiabile tenerezza. La stessa dopo un po' mi ha ordinato una cheesecake e la donna mi ha chiesto di portare loro due cucchiaini. Non si tratta di aggiungere un piatto in cui ciascuno riporrà il proprio pezzo, ma di attingere dalla stessa fonte lasciandola allo stesso posto, attraverso due canali di diversa provenienza, sebbene si scopriranno in fondo uguali. Era da un po' che non avvertivo quel bisogno, offuscato forse dal fascino di una città che corre velocemente, disturbato dal rumore di piatti e bicchieri in cui la routine si insinua silenziosamente: condividere con qualcuno la stessa cosa, lasciandola al centro, ad una equa distanza affinché la si possa osservare con le giuste lenti, senza necessariamente provarne a trascinare una metà dal proprio lato. Allora forse è vero che si può andare con tutti senza mai stare per davvero con qualcuno. Si possono condividere letti e lenzuola ma alzarsi poco riposati comunque, mai in fondo completi. La parola "insieme" riusciremo a sperimentarla soltanto poche volte nella nostra vita. Perché insieme significa mettere al centro una parte di se e lasciare che l'altro ne attinga senza riserve, lasciando che l'altro faccia lo stesso con noi. Significa attingere da una stessa fonte, allo stesso momento, con gli stessi strumenti, non dividendo ciò che si ha, ma lasciandolo al centro, in quel punto di sano equilibrio in cui due corpi si attrarranno e due anime si scioglieranno. 
Ed è questo forse che mi manca. Una torta per due servita al centro di un tavolo, cui attingere allungando il braccio, lasciando che la torta divenga sempre più piccola finché rimarrà quell'ultimo pezzo per cui ciascuno dirà "Finiscila tu". Ma quell'ultimo pezzo resterà lì, al centro del tavolo, perché sarà abbastanza, ci sentiremo già saziati. Ed è forse questo quello che mi manca, ciò che rinnego da sempre, che in fondo sono stanca di cercare, e troppo cieca per accorgermene quando, per caso, mi si è presentato.
A volte mi è capitato che la torta fosse lasciata al centro senza che nessuno cominciasse a mangiarla, altre che chi avevo di fronte ne mangiasse una porzione esageratamente più grande della mia, altre ancora mi sono trovata a mangiarla da sola e avrei potuto mangiarne a quintali, perché in fondo, non sarei mai stata sazia.

domenica 18 agosto 2013

Pensieri in metropolitana.

Stamattina ero in metropolitana quando ad un certo punto rimango incantata dal sorriso di un uomo che chiede cortesemente ad un passante di scattare una fotografia, avvicinando a se la moglie in un caloroso abbraccio. Ed è stato in quel momento che ho capito che questa giornata avrebbe preso una piega diversa. Un giorno in fondo come gli altri, in cui però ti trovi a mischiare la tua felicità che è fresca e leggera, ad una malinconia che risulta a tratti pesante ed umida, come quando ti bagni e ti sei appiccicosa.
E ho pensato che avrei voluto essere guardata anche io con quegli occhi pieni di amore con cui quell'uomo guardava sua moglie, avrei anch'io desiderato che degli occhi con la loro luce mi offuscassero la vista. O forse quello di cui ho avvertito la mancanza è stato sentire l'odore della pelle di chi ti stringe a se sulla tua, l'essere stretta, mai troppo, ma quanto in fondo basta per sentirsi protetti.
Stamattina, alla visione di quell'immagine, ho avvertito un magone che ho cercato di colmare quasi a fine giornata con l'acquisto di cosmetici a metà prezzo. Ma oggi forse era uno di quei giorni in cui ti svegli e desidereresti essere abbracciata, sentire una voce amica tra le tue mille cose da fare. 
O forse avrei voluto essere semplicemente come quell'uomo: riuscire a stringere ciò a cui tengo e lasciare andare il superfluo, nonostante spesso mi capiti di fare esattamente il contrario. Riuscire a sorridere all'amore senza timore. Riuscire a trasmettere luce viva che non si spegne, perché non è riflessa ma ci appartiene.

Quell'uomo mi ha fatto pensare anche alle persone care che adesso mi sono lontane a cui non so se debba o meno spiegazioni, ma ciò che posso dire è soltanto che sto bene, che i pensieri sono tanti e confusi come un gomitolo di lana i cui fili si sciolgono a fatica, che cerco di costruire anche se non so ancora bene cosa sto facendo, a volte ho pianto, altre ho starnazzato come un'oca per l'eccessiva contentezza. Vivo tra la routine e la follia, tra un up e un down, tra super down e super up. Vivo sognando ad occhi aperti, e quando li chiudo cerco di pensare a cosa potrò vivere. Cerco soltanto di essere felice, anche se oggi volevo degli occhi che mi guardassero, delle braccia che mi tenessero strette, un sorriso che mi riscaldasse.

giovedì 15 agosto 2013

Brave ragazze.

Io sono stata per tutti sempre la "brava ragazza", quella personcina ingenua a cui rifilare al momento utile la frase "Non voglio prenderti in giro". Quella con cui si parte già a carte scoperte per timore di deludere, o perché il mistero sa di un proibito che incute timore. Non ho mai capito che meccanismo scatti né perché accade costantemente, eppure leggo copioni già scritti, guardo vecchie pellicole dalla trama poco originale e dal finale scontato, che in fondo non emozionano non tanto perché sembra sia già nota la fine, ma proprio perché sin dal principio il contenuto appare scarno, senza colpi di scena che ne invertirebbero la traiettoria. Eppure anche le "brave ragazze", come voi uomini comunemente definite una certa categoria di donne, hanno bisogno di leggerezza che porti a non pensare al domani ma al vivere solo oggi. Anche loro necessitano di bruciarsi e spegnersi come fiammiferi, anche soltanto una volta, o più di una. Forse loro non hanno bisogno di leggere copioni già scritti da qualcun'altro, né di guardare vecchie pellicole scontate, ma di scrivere storie, ed è forse proprio attraverso questa lenta concatenazione di parole che prende forma grazie al riflusso di pensieri confusi che pian piano fuoriescono come cascate, che le loro storie si proietteranno su di uno schermo, storie che lasceranno a bocca aperta per l'originalità del contenuto, e per la bellezza che sarà trasmessa. E non importa se il finale non sarà il colpo di scena che tutti si sarebbero aspettati, la storia piacerà lo stesso, perché sarà diversa, perché nel corso della sua visione avrà emozionato.
Ed è questo che voglio per me: emozioni. Persone che sono come una boccata d'aria fresca, che incantano per il loro modo di vivere la vita come se un domani non fosse alle porte, quelle che lasciano dietro di sé una scia che profuma della libertà più disincantata. Persone che non resteranno inermi a guadare te che scrivi, ma che forse lo faranno con te, perché avranno la penna stracolma di inchiostro, ed occhi in grado di guardare oltre, senza pensare a come andrà a finire.
Ma questo modo di vivere non è per tutti, non lo si apprende, non lo si emula da qualcun'altro. E' forse innato. Le matite non saranno mai penne, e soltanto occhi colmi di esperienza saranno in grado di guardare al di là delle proprie tasche, allora il cuore sarà in grado di riempirsi ed il cervello si fermerà dando spazio ad un unico pensiero: vivere per ciò che si sente, come se un domani non ci fosse, perché pensare alla fine impedisce di godere di un inizio, impedisce in fondo di vivere emozionandosi.

lunedì 12 agosto 2013

Un orologio a Portobello.

L'altro giorno ero a Portobello e ho comprato un orologio antichizzato, di color rame, di quelli che si appendono al collo, chiusi, che si aprono solo all'occorrenza per guadare l'orario, ma che intanto nascondi sotto la t-shirt. Ed è esattamente quello che faccio ogni volta che intraprendo un'esperienza del genere, a Londra o in qualche altra città, lontano dagli affetti più cari, ma anche da contesti che già in breve tempo cominci a percepire come stretti, statici, che in fondo non sanno di niente: nascondere il tempo. E' raro che io apra il mio orologio per constatare l'orario, è chiuso, è nascosto, ma è al caldo, non troppo distante dal cuore. Da adesso in poi vorrei che il mio tempo fosse così: cosciente del suo inevitabile trascorrere, ma al contempo cristallizzato, catturato in un pugno, in cui ci fai entrare soltanto ciò che vuoi tu, chi ti fa sentire leggera, compresa, mai diversa, chi possiede coraggio e maturità per affrontare la vita di petto, chi non fa del motto della sua vita "lo-faccio-anche-io-perché-lo-fanno-tutti" ma "se-nessuno-lo-fa-allora-lo-faccio-io", chi non sta seduto a guardare la vita che gli scorre davanti senza mai afferrarla per la gola e sfidarla senza paura, chi segue le emozioni con invidiabile maestria, talvolta addirittura affogandoci per risalire.
Il tempo è sempre stato il mio più acerrimo nemico, ma ora ho capito che lo era nella forma che gli avevo concesso di prendere: quella del "farci-entrare-tutto". Ma ora no. Non può il mio tempo contenere tutto, ma solo ciò che è importante, solo chi conta, solo chi sente realmente la tua mancanza, chi ti chiede come stai perchè non è curioso ma interessato a conoscerne la risposta. Allora in questo modo il tempo non ti brucia, né ti logorerà mai, perché il tempo in questi casi non può che rafforzare, senza mai lasciare che qualcosa appassisca, se lo si cura. Allora vorrei che nel mio tempo entrassero boccioli freschi, di quelli bagnati appena di rugiada, di un profumo tale da inebriare la stanza, mai più finti boccioli che poi si rivelano foglie secche.
Allora fermo tutto e riparto da qui, da un orologio antichizzato che conserva il mio tempo, e con esso una frase letta su di un poster venduto tra le bancarelle del mercato di Portobello: Live well, love much, laugh often. 

martedì 6 agosto 2013

Ricomincio da Tower Hill.

E' da un po' che non lo facevo: prendere la metro in direzione Tower Hill, con le cuffie nelle orecchie sulle note di una qualche canzone di Coldplay, sciogliere i pensieri e cominciare a scrivere. Ed è proprio qui che circa un anno fa ho cominciato ed è da qui che ora ricomincio. Ricomincio ad essere forte anche da sola, a distinguere i bisogni dai desideri, a svegliarmi al mattino col sorriso tra lenzuola fresche dal profumo di lavanda, a credere che tutto sia possibile, a godere di ciò che la vita ci offre e a farcelo bastare, a pensare che l'amore non salva nessuno se prima non impariamo a salvare noi stessi amandoci come se fossimo quanto basta per riempire la nostra vita. Ed io stasera ho cominciato a farlo così, forse, scrivendo sulle note di Yellow con la Torre di Londra che di fronte illumina il mio viso, il foglio della mia agenda, il mio cuore.
Perchè alle mancanze non posso dare più spazio né tempo, così come alle persone, che cercherò di sciogliere come nodi, come i pensieri.

sabato 3 agosto 2013

Imitazioni.

C'è una cosa che di Londra più di tutto mi stupisce: il suo essere così diversa pur essendo nella sua eterna costanza sempre la stessa. Ed è forse questo l'insegnamento più importante che possa dare: provare ad emularla, immergendoci nell'aria rarefatta di una metropoli, tra i clacson assordanti ed i rintocchi del Big Ben, fermandoci quando occorre su di una panchina presso il Millennium Bridge, così che il tuo sguardo possa perdersi nel rossore di un tramonto in una giornata di sole, ove fermi saranno i pensieri, i ricordi, quanto basta, fino a sera. Imitare Londra significa cambiare pur mantenendo intatta la propria individualità, andare avanti correndo ma fermarsi quando occorre per rimettere insieme i pezzi, significa sperare che tutto sia sempre possibile perché nella nostra irrimediabile mortalità anche noi possiamo sentirci eterni, vivi, infiniti.

Nessuno può cambiare il mondo, ma il mondo può cambiare noi, se lo vogliamo, se ne abbiamo il coraggio.