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martedì 9 novembre 2021

Alle 8:40


Alle 8:40, dal lunedì al venerdì, prendo la mia consueta corsa in metro, sempre di fretta. Fino a poco tempo fa, avevo imparato ad anticiparmi ma lo sapevo già che non sarebbe durata, la calma non è mai stata il mio forte.

L'altro giorno però sono riuscita a perdere anche quella che chiamo "la-corsa-di-emergenza", l'ultima fattibile, quella che parte alle 8:45 e mi porta a destinazione in poco meno di 9 minuti, così da riuscire a cronometrare il passo e arrivare ad aprire la porta dell'ufficio alle 8:59 - con l'acido lattico che fa ancora su e giù all'altezza delle cosce. Dall'uscio di casa a quello dell'ufficio, trascorrono trenta minuti, in cui ciascuno è pianificato con una cura quasi maniacale. In cui qualsiasi intoppo, è gestibile - mi dico - ma meglio che non accada - mi ripeto. È forse l'unico momento della giornata in cui riesco a pianificare qualcosa. 

L'altro giorno, però, non ce l'ho fatta. Mentre scendevo di corsa le scale, sono stata quasi inghiottita da un'orda di persone che in direzione opposta alla mia, non accennavano a scansarsi nemmeno di qualche centimetro. Quelli saranno stati momenti preziosi anche per loro.

Solo che ogni volta, penso sempre di riuscire a destreggiarmi. Trovo un piccolo spazio e mi ci infilo. Li scanso, senza nemmeno a volte sfiorarli, e riesco ad uscirne, tirando un sospiro di sollievo quando le porte scorrevoli si chiudono alle mie spalle, perché arriverò nei tempi giusti. 

Pochi giorni fa, invece, mi sono sentita quasi bloccata nello scegliere da parte andare. Ho fatto fatica a schiacciarmi tra la folla, come se stessi remando in direzione opposta alle onde. Ho decelerato. Ho seguito il ritmo che sentivo, e sono arrivata tardi. Capita. Questa volta però non mi sono sentita in colpa, e mi sono detta che, in fondo, non sono mai stata una pianificatrice esemplare, però potrei imparare a diventarlo a modo mio.

Così mi sono resa conto che quelli che chiamo intoppi, sono la parte più divertente del piano. Perché ti insegnano a trovare soluzioni e a gestire cose o persone che come schegge impazzite occupano uno spazio che avevi considerato fosse libero, ma che invece si trasforma in un ingorgo. Mi sono resa conto di essere piccola quanto basta per destreggiarmi con cura tra la folla, ma anche grande, abbastanza, da prendere quelli che considero i miei tempi e i miei spazi. Il che significa fermarsi, aspettare, decelerare. Ho capito che nessuna corsa ti farà mai arrivare nei tempi giusti, perché sono giusti quelli che senti. Non un minuto prima, né uno successivo. E che spetta a noi decidere quale sia l'ultima corsa. Ne seguirà sempre una, poi un'altra, ed un'altra ancora, su cui poter salire ascoltando i nostri bisogni prima della voce che dall'altoparlante ne annuncia il transito. Con il nostro passo, seguendo i nostri ritmi.
E va bene se le cose saranno diverse da come le avevamo pianificate.
Domani possiamo riprovarci.

Chiudi gli occhi, mia cara, e non aver paura. Andrà tutto bene.


lunedì 21 dicembre 2020

Spezzare

Una persona che stimo, perché sempre sfacciatamente sincera pur mantenendo una postura elegante e garbo nei modi, mi ha detto una volta che spezzare di tanto in tanto fa bene.
Equivale al farsi sentire, a selezionare solo ciò che ci fa sentire appagati, al volersi bene, a non aver timore della solitudine, perché in fondo conservare rami già spezzati non sortirebbe alcun effetto benefico, allora meglio disfarsene. 
Poi, quasi come fosse un rimprovero materno, mi ha chiesto cosa mi porti a non riuscire a spezzare, rompere, tagliare, anche quando qualcun altro ridurrebbe il tutto ad una poltiglia senza forma.
Capire se sia possibile ricucire lo strappo, risanare la ferita, riordinare, rimettere a posto le cose, le ho risposto. 
Concedere seconde possibilità, a me stessa di accogliere nonostante tutto, agli altri di riprovarci, ho pensato senza fiatare.

Sino ad allora se qualcuno vi avesse chiesto di spezzare qualcosa, avrei pensato ad una tavoletta di cioccolato su cui affondare i denti mentre mi convinco che sia un'altra di quelle serate nostalgiche e quindi di meritare qualche coccola in più.

Non ho mai dubitato che questo modo di rimettere insieme le cose, anche quando sarebbe più semplice gettarle tutte al vento, mi togliesse qualcosa. Molte volte mi ha arricchito. 
Tuttavia, solo dopo ho compreso cosa intendesse con il termine spezzare.
Comportarsi non come animali feroci, che schivano con brutalità possibili avversari in vista di una preda da azzannare, ma come esseri umani premurosi, che per amor proprio decidono quando sia opportuno adottare le dovute distanze e con la stessa compostezza quando sia necessario assottigliarle, solo quando ne valga veramente la pena. O il contrario: allungare le distanze quando certe presenze appaiano ingombranti, deleterie, rumorose, come quelle che sovrastano la nostra voce o la accantonano, quelle che non apportano alcun contributo positivo e che nonostante appaiano lì in realtà non ci sono, perché sono come luci di un interruttore danneggiato che a poco a poco ci spengono. 

Così ho capito che il termine spezzare può avere una serie di accezioni positive.
Significa prendere parola, posto, spazio, ciò di cui si ha bisogno.
Significa innaffiare nuovi semi per far crescere nuovi germogli.
Significa sbarazzarsi del superfluo, di ciò che è rotto e non può più essere riparato.
Significa ripulire, piantare, fiorire, amare e amarsi, ogni giorno con la stessa costanza.
Significa non aver paura di ferire perché si concede alla nostra voce la giusta importanza.
Significa non temere di restare soli, perché non lo saremo mai solo quando selezioneremo con cura il terreno da innaffiare. In tutti gli altri casi, lo saremo già stati pur non accorgendocene. 
Non significa che cresceranno nuove rose lì dove sono appassite, ma equivale a provarci.

Mi piace la parola spezzare, perché sembra racchiudi un suono assordante e invece poi tanto rumore non fa. È lieve, come un petalo che cade da una margherita, ma deciso, come gocce di pioggia sui vetri.
Mi piace perché lascia presagire qualcosa di violento e inaspettato, come un temporale estivo, e invece poi nel suo corso si calma, lasciando spazio a tutto quello che altrimenti non avremmo mai visto.
Mi piace perché è in grado di essere brutale nella forma, ma dolce nella sostanza.
Mi piace perché significa, in fondo, prendersi cura di se stessi.
Per questo alla fine l'ho promesso, che di tanto in tanto avrei spezzato, il che non significa distruggere o chiudere porte in faccia, al contrario equivale a mettere a posto le cose, lì dove sarebbero dovute restare sin dal principio.
È questo il mio proposito per il nuovo anno: trovare il coraggio di spezzare e la costanza di ricostruire ogni volta. E che non sia solo cioccolato.


sabato 14 novembre 2020

Gettarsi nel mondo

Ci sono delle date che ho scelto di cucirmi addosso, altre che di tanto in tanto chiedono solo di essere ricordate. Alcune bussano alla mia porta con fare delicato, altre con pugni decisi e costanti. A volte alcune somigliano al trillo di un campanello, altre ancora al suono sordo e distante di una campana di una chiesa in un piccolo paesino nascosto tra le montagne. Tutte, o quasi, hanno a che fare con una partenza. Che questa sia verso una destinazione in concreto o figurata, è sempre paragonabile ad un tuffo da un trampolino senza prendere alcuna rincorsa, un’immersione subacquea senza attrezzature complicate, una lunga passeggiata in infradito. Mi ricordano come fosse gettarsi nel mondo, sempre col mio solito fare goffo, a volte frenetico, ma che mi permetteva di assaporare ogni cosa, di annusare i profumi e le puzze nauseabonde, di toccare il fondo per poi risalire.

Ed è con questo spirito che tutte le volte mi sono tuffata: senza prendere precauzioni né misure, senza mai porre distanze. Provavo quasi un senso di inadeguatezza nel farlo. Conoscevo un solo modo di cadere e soltanto uno per rialzarmi. L’improvvisa caduta su una strada appena asfaltata era necessaria per tagliare il traguardo. 

Tuttavia, oggi, riguardando vecchie fotografie a cui inevitabilmente si associano date e quindi ricordi, mi sono accorta che il mio modo di gettarmi nel mondo non è mai cambiato, ma solo quello in cui ne sono uscita ogni volta. Ho sempre continuato a non prendere rincorse prima di tuffarmi da un trampolino, a non portare con me bombole a sufficienza per un’immersione subacquea e nemmeno delle calzature adeguate per passeggiare a lungo. Credo lo abbia fatto sempre di proposito, perché forse sapevo che ce l’avrei fatta comunque. Via via però si è trasformata l’uscita, come fosse una porta d’emergenza la cui insegna continuava a lampeggiare insistentemente, di un colore rosso che via via si faceva sempre più acceso solo perché la porta diventava ogni volta più vicina e più grande. Avevo maggior resistenza a nuotare sott’acqua, a godere delle bellezze marine così come della vista di un paesaggio ad alta quota. Ognuna di queste azioni, pian piano, è durata sempre meno. E talvolta le porte d’emergenza le ho costruite io stessa. 

Oggi ho pensato a tutte quelle porte d’emergenza che avrei potuto evitare di aprire, ma per la prima volta anche a tutti quei tuffi che avrei potuto non fare. E la verità mi ha stupito: mi sono risparmiata parecchi salti solo quando qualcuno con prepotenza mi implorava di non farlo, sono uscita non per insufficienza di attrezzature ma perché trovavo già la porta aperta e mi ci infilavo.

È forse per questo che adesso mi sento a metà, come se in questo mondo, che oggi ha mutato in abitudini e fattezze, non riuscissi a gettarmi per il timore di non poter risalire. Quelle volte che ci ho provato, ho portato con me tutte le precauzioni, anche quelle non indispensabili. Sono riemersa in superficie per tutta quella pesantezza che mi portavo addosso, ma mai per volontà.

Però forse le date che realmente meritano di essere incise sui nostri corpi, affinché le si possa tenere a mente come fossero una routine giornaliera, sono quelle in cui abbiamo scelto di fregarcene. Della ricorsa prima di un tuffo, di portare con noi bombole d’ossigeno a sufficienza prima di un’immersione o scarpe più comode per una lunga passeggiata, come di quanto fosse fastidioso il lampeggiare insistente dell’insegna al neon della porta d’emergenza progettata proprio per svignarcela. Di qualsiasi cosa o persona ci impedisca di tuffarci o ci apra la porta bruscamente. Sono queste le date importanti, perché ci insegnano che dobbiamo essere noi a scegliere quando gettarci così come risalire. Che non possiamo mai recriminarci di non aver preso misure e distanze, perché l’unico modo di conoscere è spremere la vita fino all’ultimo. Che non possiamo recriminarci nemmeno di non avere seguito tutte le precauzioni necessarie, perché dovremmo pensare a sganciarcene strada facendo. Sono queste le date importanti perché ci ricordano di cosa siamo capaci. E la misura di ogni uomo o donna su questa Terra è sempre la stessa: quanto amore siamo disposti a donare, in ogni forma, a noi stessi, agli altri, a questa vita. 

Per questo è importante fregarsene, come fosse una sfida con il mondo il cui unico modo per vincerla è non aver paura di non avere o essere abbastanza. La vita mette e toglie quando occorre, non quando faccia più o meno male, sta a noi decidere di non smettere mai.


sabato 4 aprile 2020

Racconto breve: Scarpe strette

Atterrai a Dublino nel tardo pomeriggio di una domenica di fine estate. Mi affrettai per andare a recuperare il bagaglio e mi misi in coda per l’autobus, che in poco più di tre ore mi avrebbe condotto a Cork, una piccola cittadina al Sud dell’Irlanda. Il cielo era di un grigio cadetto e la pioggia così sottile da non bagnare nemmeno l’asfalto.  Occupai uno dei primi sedili, accanto ad una donna dalla corporatura robusta che si rannicchiò sul suo fianco destro per tutta la durata del viaggio, costringendomi a appoggiare la testa sul vetro del finestrino alla mia sinistra. 

Ho sempre amato la pioggia, il suo profumo e quell’inconsueta quiete che ne sussegue. Sin da bambina mi piaceva guardare come scorrevano velocemente gli schizzi di pioggia sui vetri delle finestre, immaginando fossero degli spermatozoi che passavano da una parte all’altra del fermavetro. Di questa mia fervida fantasia non ne avevo mai parlato a nessuno. Avrebbero pensato tutti che fosse una delle mie tante stranezze, anche se poi quell’etichetta me la cucirono addosso quasi tutti anche senza sapere delle mie bizzarre fantasie, quando una volta conseguito il diploma decisi di dare un taglio a quella che sino ad allora era stata la mia vita.

“Allora non ti iscrivi all’università?” mi chiedeva insistentemente Daniela, la mia storica compagna di banco delle superiori, a cui ho sempre passato tutti i compiti di inglese e matematica, le uniche due materie in cui ero sempre stata molto più ferrata degli altri.
“No, preferisco fare quest’esperienza all’estero. Magari apprendo l’inglese sul serio, mi trovo un lavoro. Preferisco guadagnare qualcosa”.
Era questa la risposta che avevo dato a tutti, pur percependo in ogni sguardo in cui mi imbattevo un velo di incredulità. Preferivo non farci caso, in fondo non avevo altra scelta.

Non sono cresciuta in una famiglia abbiente. Quando avevo dodici anni la gelateria che aveva preso in gestione mio padre fallì, così mia madre si ritrovò con uno stipendio da segretaria di poco più di mille euro al mese a prendersi cura di me, mio fratello e mia sorella, e a curare la depressione di mio padre.
“Però pigli troppi caffè e fumi assai Stefano”, mia madre rivolgendosi a mio padre.
“E c’aggia fa’ Rosà?”
“Vai a dare un poco d’acqua alle piante e porta fuori i cani”.

All’inizio pensavo che mia madre lo sgridasse. Forse, per non essersi preso cura abbastanza della sua famiglia. Poi capii che quello che sembrava fosse un ordine era l’unico modo che conosceva per spronarlo a non lasciarsi andare. Capii che spesso mia madre utilizzava quei modi bruschi per insegnare a me e ai miei fratelli ad essere responsabili. Intanto lei aveva imparato a gestire l’imbarazzo magistralmente. Come quando mia zia veniva a portarci la spesa e buste piene di vestiti che le mie cugine non indossavano più.

“Marì e mò tutta sta roba dove la metto?” mia madre, rivolgendosi a mia zia con tono di rimprovero.

“E te li conservi per quando cresce”.

“Vieni qua Claudia, misura qualcosa”.

Anche se le scarpe mi stavano strette o le maglie troppo larghe, mia madre era sempre in grado di trovare una soluzione.

“Questo vestito ti sta bene Claudia, poi mamma te lo stringe un poco.”

“Guarda qua pure sta felpa, quest’anno ti rimbocchi le maniche, per l’anno prossimo ti andrà giusta”.

Quando anche mia madre venne licenziata qualche anno più tardi, capii che avrei dovuto mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato e che sarei stata io stavolta a trovare una soluzione.

Comunicai ai miei l’intenzione di andar via per un po’. Acquistare un biglietto di sola andata rappresentava un’arma a doppio taglio dietro cui si celava un po’ di sano egoismo che mi avrebbe consentito di riaproppriarmi di quello che mi era sempre mancato e conquistare la mia indipendenza, così come un innato altruismo nei confronti dei miei genitori per ripagarli di tutti i loro sacrifici.

“Ma tu si piccerell, arò vaje?” mi disse mia madre.

“Mà ho diciannove anni. Mi trovo un lavoro, là pagano bene, vi mando qualcosa”.

“No figlia mia. Lascia stare”.

“Rosà, lassà sta tu. Se vuole andare, va buon accussì”, la interruppe mio padre, il quale sembrò non batter ciglio di fronte alla mia decisione.

Così mia madre mi aiutò a preparare le valigie, lasciando spazio in ogni angolo per qualche pacco di pasta e di caffé.

“Portati pure questo piumone.”

“Mà dove lo metto? Non c’è spazio. Poi me lo compro, non ti preoccupare”.

“Claudia là fa freddo. Te lo faccio entrare io, aspetta”.

In un modo o nell’altro, mia madre trovava sempre una soluzione. Così riuscii a portare con me anche il piumone.

“E mò quando torni?” mi chiese prima di salutarmi in aeroporto.

“Mà non lo so”.
Girai le spalle senza voltarmi. Non volevo vederla piangere. L’ho sempre fatto, tutte le volte che tornavo, perché col tempo ho capito che forse una madre non si abitua mai a vedere andar via un proprio figlio.

Venni assunta da Amazon e riuscii a mettere un bel po’ di soldi da parte, oltre ad inviare ogni mese una cospicua somma ai miei, il che mi fece credere per un bel po’ che avessi finalmente costruito una vita, la mia, degna di essere vissuta. Ogni cosa che profuma di libertà ha il suo prezzo da pagare, e credevo che quello fosse il mio: poco più di cinquecento euro al mese.

“Grazie Claudia, poi ti mando un pacco a fine mese”.

“No, mamma, non mi serve niente”.

“Come non ti serve niente? Non ti preoccupare, ho cominciato a pulire la casa della signora Carmela, quella che abita di fronte. Ha detto che ha altre signore da presentarmi”.

“Mi fa piacere”.

“Ascolta che ti serve?”

“Mà te l’ho detto, non mi serve niente”.

“Io ho due frullatori, uno te lo mando, può sempre servire. Poi ascolta, ti mando pure le tende così le metti nella tua stanza”.

“Le tende? Non ti preoccupare, non mi spedire niente”.

“Allora quando vieni te le porti in valigia. A proposito, quando torni?”

Le telefonate tra me e mia madre si concludevano sempre con la stessa domanda cui io davo quasi sempre la stessa risposta: “Presto mamma”, anche se talvolta voleva dire il prossimo mese, altre volte entro sei.

Prima di partire mi documentai su Cork, la città natia di un professore con cui avevo seguito un corso d’inglese ai tempi delle superiori. Decisi di trasferirmi in quella cittadina di poco più di 120.000 abitanti spinta dai suoi racconti sulla bellezza incontaminata dei suoi paesaggi. Poco dopo però mi resi conto che non aveva molto da offrire ai giovani della mia età, a parte lavori strapagati rispetto a quello cui ero abituata.

Durante quei tre anni in Irlanda mi sono fatta degli amici, ma mi sono anche abituata a vederli andar via. All’inizio cadevo in un profondo sconforto, poi col tempo ho imparato a lasciarli andare, mantenendo solo i ricordi. Nessuno voleva rimanere lì per sempre e man mano questa divenne una certezza anche per me.

Oggi sono su un altro autobus, quello che dall’aeroporto El Prat di Barcellona mi fermerà a Plaça Cataluñya, il punto di partenza da cui le mie scarpe, questa volta della mia misura, cominceranno a calpestare un asfalto diverso, come quello di viuzze strette che portano al mare. Come mi mancava, il mare. Non potrò di certo spedire ai miei conchiglie, pensai. Troverò un lavoretto e continuerò ad aiutarli, come potrò, la fortuna aiuta gli audaci, diceva sempre mia madre. Nel mio bagaglio avevo imparato a farci entrare tutto, proprio come faceva lei, compreso il piumone. Questa volta, però, i sensi di colpa li avevo lasciati dietro le spalle di quella ragazzina ingenua che indossava scarpe strette e che rimboccava le maniche alla felpa, perché tanto l’anno successivo le sarebbe calzata a pennello.

Quel tempo mi servii per apprendere una lezione che altrimenti mi sarebbe stata sconosciuta: che la libertà ha spesso il sapore di cose semplici ed il suono di quelle che avevamo rimosso dalla nostra mente, come il rumore delle onde del mare. Che quando pensavamo di possedere le chiavi per inseguire la nostra libertà, stavamo invece aprendo la porta di quella che sarebbe stata la nostra prigione. E che nessuno si salva da solo, ma chiunque ha il diritto di salvare dapprima se stesso.

giovedì 19 marzo 2020

Essere umani ai tempi del COVID-19

In queste settimane di quarantena forzata abbiamo trovato più tempo per noi stessi e al contempo anche per gli altri. In poche parole, credo che in circostanze a dir poco surreali, stiamo allo stesso tempo gettando le basi per la creazione di un mondo ideale, a patto che, quando tutto questo sarà finito, saremo in grado di ricordarcelo e mantenerlo intatto.

Abbiamo ricominciato tutto quello che avevamo lasciato in sospeso, stiamo dedicando del tempo a tutto quello che avremmo sempre voluto fare ma che abbiamo rimandato non solo per mancanza di tempo, forse più di costanza.

Avvertiamo la necessità di metterci in contatto più spesso con i nostri cari, anche solo per sapere se hanno fatto un colpo di tosse nelle ultime 12 ore.

Sentiamo il bisogno di metterci in contatto anche con chi avevamo dimenticato, o con chi speravamo di cancellare dalle nostre vite. 

Colmiamo distanze con tante parole, al solo scopo di sentirci presenti seppure da lontano e di avvertire la vicinanza dell’altro. 

Ci auguriamo di abbracciarci e baciarci presto, più forte di quanto facessimo fino a qualche settimana fa. 

Sentiamo il bisogno di organizzare raduni telematici, perché abbiamo scoperto l’importanza dello stare insieme anche senza toccarci, guardandoci negli occhi sebbene ci sia uno schermo a separarci. 

Credo avessimo bisogno di tutto questo, quasi come fosse una lezione di vita per l’intera umanità che recita più o meno così: non dobbiamo aspettare che ci vengano negate le nostre libertà per dedicare del tempo a noi stessi e a chi amiamo, anche di nascosto, perché  se è vero che talvolta il tempo aiuta a curare ogni ferita e allontana, altre volte riconcilia.

Non possiamo rimandare, perché ci sarà sempre tempo a sufficienza per porre le basi per inventare e costruire, per essere chi, un tempo, avevamo scelto di diventare.

Non dobbiamo aspettare che accadano circostanze fortuite per ricordarci quanto ci amiamo, quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro, quanto ci sta a cuore chi lì dentro, in fondo, ha sempre albergato.

Non dobbiamo aspettare di essere distanti per raccontarci tutto quello che proviamo o che desidereremmo fare, come prenderci per mano e correre sul bagnasciuga sino a cadere con le ginocchia sulla sabbia e ridere di gusto, sino a lacrimare. 

Dobbiamo trovare il coraggio di perdonarci e perdonare, prima che il tempo consumi i nostri sensi di colpa. 

Dobbiamo avere il coraggio di viverla questa vita, non oggi che siamo distanti, ma domani, quando saremo vicini, urlandoci a squarciagola tutto quello che proviamo, stringendoci fino a toglierci il fiato, baciandoci come se non lo avessimo mai fatto prima. 

In fondo sono queste piccole forme d’amore che salvano la vita, la nostra e quella di chi ci è accanto.

Quando tutto questo sarà finito, manteniamolo intatto questo mondo virtuale, fatto di quelle carezze che ora più che mai desidereremmo scambiarci, di tutte quelle parole che non avremmo voluto pronunciare, di tutto quell’amore che non sapevamo forse nemmeno di provare.

Occorre ricordarcelo più spesso. Per sempre. Che ci serva da lezione.

domenica 24 febbraio 2019

Arriverà la primavera


Penso spesso alle persone come fossero treni, mentre a quei pezzi di vita che su di loro prendono forma come fossero stazioni.
Come quelle in un piccolo paese di provincia, in cui ti tocca sostare su di una panchina, spesso più del dovuto. 
Come quelle in cui attenderai invano, prima di capire che il transito è stato sospeso, a data da destinarsi.
O come quelle di grandi metropoli, in cui i treni sono sempre puntuali ma sarai tu ad essere spesso in ritardo, così da dover correre sino a sudare la fronte mentre sgomiti i passanti.

Non sempre riesci a salire, perché il treno potrebbe non fermarsi in tempo, o perché, talvolta, avrai scelto tu di non farlo.
A volte avrai un posto a sedere riservato accanto al finestrino.
Altre, sarai in piedi tra la folla che si lamenta della carenza dei servizi.
Altre, invece, potrai accomodarti per caso, senza aver pianificato nulla in anticipo, rimanendo sorpreso da come, quasi sempre, la mancanza di piani è garanzia di un servizio migliore di quello che avevi previsto.

Pagherai sempre un prezzo per salire su uno di quei vagoni, che ti sembrerà tanto più alto quanto ad esserlo saranno le tue aspettative, le tue possibilità, i tuoi sogni.
Pagherai un pezzo del tuo tempo, delle tue energie, una porzione della vita che avevi vissuto sino a quel momento, di te stesso.

E arriverà il freddo invernale, che poi cederà il passo al vento primaverile, poi all’afa estiva, sino alle foglie ingiallite dell’autunno, per poi arrivare di nuovo l’inverno.
Così, proprio come passano le stagioni, passeranno nuovi treni, in diverse stazioni.
Passeranno le persone, proprio come passerai anche tu.

Pensavo di essermici quasi abituata.
Ai treni che passano, una volta soltanto.
Alle attese, vane o più lunghe del previsto.
Alle corse per salire in tempo.
A restare in piedi tra la folla o seduta ad un posto riservato accanto al finestrino.
Alle porte che ti si chiudono in faccia.

A salire su di un treno qualsiasi fermandomi in ogni stazione, prima di decidere quale fosse quella giusta dove sostare, segnandola come meta finale del viaggio che avevo scelto di fare.
A capire che le mete prefissate non saranno sempre quelle definitive, e nemmeno sempre quelle giuste, così da importi di rimettere lo zaino in spalla e salire su un nuovo treno che avrà una diversa destinazione.
Pensavo di essermi abituata, a saltare di stazione in stazione, guardando a ciò che sarà e non a ciò che è stato, anche ai saluti, lunghi, intensi, frenetici e di rito.
Alle persone che passano, e a me, che passo insieme a loro.

Ho capito che a tutto questo non ci si abitua mai abbastanza e che sarà questo il prezzo più alto da pagare, seppure il più bello, perché in fondo ci rispecchia.

Il nostro sarà sempre un biglietto di sola andata per un viaggio in cui sarà quasi irrilevante la comodità e quanto gli altri avranno da offrire, perché conta quello che ti porti dentro.
È un itinerario che stabiliremo noi, stazione dopo stazione, senza fretta di arrivare, ma godendo di ogni tappa come se fossero pezzi di un puzzle che in principio sembreranno non avere alcun punto di incontro, per poi congiungersi perfettamente, soltanto alla fine.

Credo ci si possa abituare solo quando guardi tutto dal finestrino, senza mai fermarti o porti domande, quando guardi ad un treno come un mezzo ed ad una stazione come un fine.
Ed invece, anche quando avevo giurato di smettere, ho capito che non smetterò mai, lo trovo più autentico.

Così mi camufferò sempre da esploratrice inesperta, guardando ogni treno come fosse un posto da scoprire ed il cancello di ogni stazione come fosse la porta di casa, o semplicemente di un luogo sicuro dove temporaneamente sostare.
Sbaglierò ma imparerò e forse, alla fine, sarò anche in grado di insegnare qualcosa.
Sentirò il rumore dei passanti ed il cigolio dei binari.
La brezza di un vento sottile che attraverso un finestrino aperto a metà ti scompiglia i capelli.
Avrò sempre la sensazione di aver gettato un pezzo di vita, ogni volta, prima di comprendere di averne guadagnato il doppio, con un cuore che man mano diventerà sempre più grande perché ci porterai dentro ogni luogo in cui avrai sostato ed ogni schienale su cui ti sarai poggiata.

Il nostro privilegio sarà quello di iniziare un diario, diverso per ogni destinazione.
Perché in fondo la vita è come un quaderno dalle pagine bianche che inizia con l’incontro tra l’inchiostro e la carta. Forse non ci si sente mai pronti abbastanza, ma il lusso che possiamo concederci è quello di cominciare da zero, seguendo le righe che la nostra immaginazione avrà disegnato per noi, strappando quelle che non ci piacciono e ripartendo da capo: da una pagina bianca.

Il bianco sembra uno spazio da riempire, privo del necessario, come una stanza vuota senza mobili. Invece, alla fine, è il punto in cui convergono tutti i colori. È l’essenziale di cui abbiamo bisogno. È il punto di partenza che ci fa sentire nostalgici, ma pieni e vivi.

E alla fine arriverà di nuovo la primavera.
Avrà il colore dei tuoi occhi.
Il profumo della tua pelle.
La bellezza di un tramonto in riva al mare.
La semplicità di un arcobaleno.

domenica 7 ottobre 2018

Tramonti che uniscono


Mi piace osservare i tramonti.
Mi fanno pensare alle distanze che si assottigliano.
A chi riesce a guardarsi solo a luci soffuse.
A due corpi che si sfiorano.
A due anime diverse che riescono a trovare la stessa strada per ricongiungersi.
All’azzurro che nasce con una tonalità tenue per poi diventare sempre più intensa.
Ai colori che si intersecano, sino a catturare quello che rapisce lo sguardo più di tutti gli altri.
È il preludio di una fine che ha in grembo un nuovo inizio.

Mi fa pensare agli incontri.
Come il giorno che lascia spazio alla notte.
All’avvicinarsi, timidamente.
A quel momento che precede l’unione.

Mi fa credere che sia possibile cristallizzare il tempo, creando una dimensione in cui non vi sia alcuna fretta di andare.
Quella in cui il silenzio è la risposta a qualsiasi tua domanda.
Una dimensione da cui potresti scappare, ma decidi di restare.

Mi fa pensare al tenersi per mano, prima di lasciarsi andare.
Al guardarsi negli occhi, un attimo prima di innamorarsi, o di dirsi addio.
All’abbracciarsi, forte.
Man mano che le tonalità dei colori del cielo divengono sempre più intense.
Quando il rosa incontra il blu, ed il rosso l’arancione.

Mi fanno pensare ad un anello di congiunzione.
Ad un ponte che collega le sponde opposte di un fiume.
A tutte quelle cose che non sono nate per essere bianche o nere, il giorno o la notte, pioggia o arcobaleno.
A tutte quelle cose che sono lì per darci del tempo.
Quello concesso, strappato, implorato, o anche imposto.
A tutte quelle cose che sono importanti perché ci insegnano ad aspettare.
Si interpongono tra due realtà diverse e preparano l’una a lasciare spazio all’altra.
Lasciano che si scrutino, man mano che la luce diventa sempre più fioca.
Che si sfiorino, sino a trovare la stessa strada per due.
Che si incontrino, prima di diventare una cosa sola.
Lasciano che ci sia un tempo in cui non vi sia fretta di andare, necessità di parlare, in cui si sceglie di restare.
Lasciano che le due si tengano per mano e che si guardino prima di abbandonarsi l’una nelle braccia dell’altra.

Lasciano che le distanze si assottiglino.
Così, come tutte le cose che sembrano meno importanti.
Così, come tutte le cose che invece contano più delle altre, perché uniscono.

domenica 29 luglio 2018

Come nelle migliori famiglie

Una pioggia sottile che non bagna l’asfalto si poggia sui vetri della finestra, come in una tipica giornata autunnale. Il ragù è sul fuoco ed il suo profumo é già nell’aria, in attesa del tipico pranzo domenicale. Quasi non me ricordavo più, eppure quel giorno da segnare in calendario è arrivato, anche quest’anno, puntuale come ogni anno.

Cinque anni fa ad accogliermi in terra d’Albione c’era un tiepido sole che ad intermittenza si nascondeva tra le nuvole.
A ricordarmi che nonostante fossimo nel bel mezzo della stagione estiva, quella non avrebbe assunto la parvenza di una località balneare.
Avevo uno zaino sulle spalle e due valigie che trascinavo a fatica, come se il mio percorso avesse già una destinazione, che invece non avevo nemmeno ancora disegnato.

Non sapevo se quella casa dai mattoncini rossi e dal tetto spiovente potesse diventare presto la mia casa. Ma ho impiegato poco a scoprire che nessuna di quelle in cui ho cercato di adattarmi lo sarebbe diventata, almeno non nel modo in cui ho imparato a concepirla, nutrendomi di dettagli da assemblare per costruire i primi mattoni, che avrei posto con cura uno sopra l’altro, concedendomi il lusso di rischiare, quando li gettavo via per ricominciare tutto da capo.

Così, quando ho scoperto che una casa, quella vera, sarebbe stata un posto da portare con me, per farvi ritorno ogni volta ne avessi sentito il bisogno, senza pareti, una cucina in comune e coinquilini con cui condividere la carta igienica, ho appurato che dovesse essere leggera, morbida, riempita solo dell’essenziale.

In questo, però, sono stata spesso una studentessa disattenta, poco scrupolosa, abbracciando ritmi caotici ed insensati che intanto mi conducevano ad un punto di non ritorno.
Ma tu, cara Londra, ti sei imposta come mia insegnante. 
Severa, esigente, pretestuosa.
Quasi mai benevola, ma alla lunga giusta nel tuo giudizio, prima che girassi l’angolo per trovarmi di fronte nuove sfide.
Mi hai presa per mano, sempre.
Quando ero per terra e di mani tese per tirarmi sù non ce ne erano.
Quando avrei potuto cercarne altre, ma ho scelto la tua.
Quando mi hai insegnato a camminare da sola, poco per volta.
Quando mi hai fatto comprendere che per farlo avrei dovuto inciampare più volte, senza per questo farmene una colpa.
Quando mi hai presa per mano e mi hai lasciato danzare.
Quando la musica era finita, ma tu mi dicevi che dovevo continuare.
Quando le tue mani mi hanno lasciato fluttuare nell’aria, come una piuma che poi si poggia sull’asfalto.
Quando mi hai insegnato che le prime volte mi avrebbe fatto tanto male, ma poi sarei guarita.
Quando mi hai fatto capire che, a poco poco, mi sarei abituata e l’impatto con l’asfalto per poi ricominciare sarebbe stato meno doloroso ogni volta.
Quando, tenendoci per mano, ci siamo odiate, ma amate, allo stesso tempo.
Come chiunque abbia imparato a scegliersi, come la prima volta, nonostante tutto.

Così, dopo il mio primo lustro, come fossimo giunti al termine di un lungo ciclo scolastico, ricordo quel timore reverenziale di chi, come me, era tra i banchi in un’aula gremita: ad ascoltare ed ad attendere il proprio turno.

Ed é in tutto questo tempo che ho imparato a lasciar perdere i giudizi approssimativi.
Ad ignorare chi prendeva parola solo per il gusto di interrompermi.
A guardare alla vita come un elastico, in attesa che tutto tornasse indietro, con pazienza.
Ad assumere il rischio di amare, ma anche la responsabilità nel non farlo.
Non ho ancora imparato ad offrire tutto il mio cuore soltanto ai più meritevoli, perché forse ho capito che non ce ne saranno mai abbastanza: alla fine conterà con quanto amore ti getti in questa vita e sarà allora che il tuo cuore, quanto più sarà pieno, tanto più ti farà sentire leggero.

Ho imparato a cucinare per un’intera famiglia, perché il senso della misura non fa per me.
A nascondere la carta igienica in segno di guerra, e a lasciarla in bagno in segno di resa.
Ad indossare i sandali anche con la pioggia, perché l’estate é uno stato d’animo, anche in Inghilterra.
Ad appurare che spesso le diversità ci accomunano, solo se si è disposti a cavalcarle con grazia, e che invece talvolta quelle che appaiono similitudini possono allontanarci, come una naturale conseguenza quando scegliamo da che parte stare.
E a non mettermi mai in cattedra quando voglio imparare, lasciandolo fare solo a chi ha una storia da raccontare.

Allora, allo scadere del mio quinto anno, non mi sento più quella ragazzina che per paura si camuffa tra la folla rosicchiandosi le unghie. 
Ho estinto ogni mio debito così come ogni mio credito, guardando a quanto perso, recuperato, costruito.

Abbiamo vinto, anche quest’anno, soprattutto quest’anno.
Lo abbiamo fatto insieme, quando tutto sembrava perso, soprattutto quando tutto sembrava perso.
Lo abbiamo fatto senza perderci in formalità, l’una tra le braccia dell’altra.
Ci siamo coccolate, così come respinte, per poi tornare a stringerci le mani.


Lo abbiamo fatto anche quest’anno, io e te, come nelle migliori famiglie.

mercoledì 21 marzo 2018

Promettimelo, cara

Promettimelo, cara.
Che il riflesso delle onde del mare non svanirà mai nei tuoi occhi. Che non smetterai mai di ascoltarne l’eco. Che non smetterai mai di immaginarti a piedi nudi nella sabbia bagnata in una giornata di fine estate, mentre una sottile brezza ti scompiglia i capelli.

Promettimelo, cara.
Che osserverai il passaggio delle stagioni con la leggerezza di chi sa di non poter cristallizzare il tempo, consapevole però di quanto ogni singolo istante sia prezioso.
Per imparare ad amarsi di più.
Per imparare a non essere preda degli eventi, ma a sfidarli, come un cavaliere valoroso.
Per imparare a cogliere ciò che si crede di meritare.

Promettimi, cara, che il tuo sguardo sarà sempre orientato verso il sole.
Anche quando piove. 
Promettimi, cara, che non aspetterai l’arcobaleno, ma che andrai a cercarlo tu.

Promettimi, cara, che le tue mani saranno sempre tese come a voler catturare le stelle. Perché forse non ci riuscirai, ma impererai a protendere te stessa verso qualcosa che sa di infinito.

Promettimi, cara, che quando tutto sarà finito, ricomincerai da capo. A creare un nuovo cielo su cui dipingere ogni cosa, da nuove stelle ad un arcobaleno dalle tinte sempre più vivide, da un nuovo sole ad altre nuvole su cui imparare a soffiare più forte per spazzarle via.

Promettimi, cara, che non dimenticherai mai come remare.
Soprattutto col vento a sfavore.
Rema. Continua a farlo. Anche mentre le onde ti colpiranno in viso.
Perché devi andare dove il tuo cuore ha deciso che tu vada, sempre.
Promettimelo, cara.

E promettimi che riuscire a capire in che direzione tira il vento non sarà mai in cima alle tue priorità.
Non lo devi sfidare.
Nè lasciarti cullare.
Nè tanto meno far sì che ti scaraventi sull’asfalto.
Devi rimanere ferma.
Promettimelo, cara. Che tu non sarai mai una bandiera. 
Promettimi, cara, che avrai sempre a mente una scala di valori che ti permetterà di destreggiarti tra le folate di vento, perché saranno loro a decidere per te da che parte stare. E non rinnegarti mai, promettimelo.

Promettimi che esplorerai tutte le strade, cara. 
Quelle ripide.
Pianeggianti.
Collinose.
Inesplorate.
Per poi decidere di percorrere quella a te più familiare. Quella che conduce verso casa.
Tuttavia, cara, promettimi che la tua scelta non ricadrà mai sulla strada più facile. Le cose belle sono complicate, promettimi che lo terrai a mente, cara.

Promettimi che dispenserai sempre gentilezza, cara.
Anche quando risulti inopportuna.
Fallo a caso, almeno una volta al giorno, come una pillola presa dopo i pasti.
Fallo, per sentirti una persona migliore.
Promettimi di porlo in cima alle tue priorità, cara.

Promettimi, cara, di usare con gli altri lo stesso rispetto che nutri verso te stessa.
Promettimi di andare alla ricerca di momenti, persone, circostanze, che sappiano tutte di umanità.
Promettimi che però riuscirai a bastare a te stessa.
Con tutto l’amore che ti porti dentro.
Promettimelo, cara, perché ti aiuterà a sentirti più forte.

E promettimi che non userai mai nessuno come stampella cui aggrapparti.
Promettimi, cara, di non contemplare mai come possibile il bisogno d’accettazione. Perché é l’unico, tra i bisogni, a renderci deboli. Gli altri, solo vulnerabili, e la vulnerabilità è umana, cara. 

Piuttosto, promettimi di selezionare sempre i fiori più belli.
Quelli che ti catturano per il loro profumo intenso.
Quelli colorati al punto da colorare persino i tuoi occhi.

Promettimi anche un'altra cosa: che la verità sarà sempre il tuo unico rifugio.
Promettimi che saprai sempre riconoscerla.
Tra tutte le bugie in cui avrai imparato a credere, solo per attutirne il colpo.

Promettimi, cara, di preservare sempre la tua dignità.
Quella che si pone sul binario opposto dell'orgoglio, ma che s'interseca con l'amor proprio.
Quella che bilancia azioni e desideri.
Quella che misura pensieri e parole.
Quella che definisce chi sei.
Promettimelo, cara. Che tu saprai sempre chi sei.

Promettimi, cara, che non smetterai mai di innamorarti.
Delle tue debolezze che collimano con i punti di forza.
Del tempo da catturare alla svelta mentre fugge, solo per creare qualcosa di bello.
Dei colori dell’alba, quelli che lasciano immaginare un nuovo inizio.
Dei profumi della primavera.
Dei sapori, anche di quelli che il tuo palato non saprà riconoscere sin da subito.
Della vita, tutta quanta.

Promettimi che ad ogni tempo destinerai una promessa diversa.
Promettimi che non smetterai mai di prometterti qualcosa.

Cara, promettimelo.