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domenica 8 ottobre 2017

La vita é una questione di cuore

La vita é una questione di scelte.
Soltanto di quelle che bruciano.

Che non ti fanno dormire la notte.
Che fanno male, per la grandezza delle loro conseguenze.
Per quello che potresti lasciare, o anche ritrovare.
Di quelle che poi, nonostante tutto, fungono da ossigenante.
Di quelle che spazzano via ciò che il tuo inconscio aveva già deciso da tempo di abbandonare.
Quelle scelte per cui ci vuole non soltanto coraggio, ma soprattutto amor proprio.
Quelle che spingono fuori come una cascata tutte le emozioni che hcosai gelosamente custodito, per poi mescolarsi come su di una tavolozza di colori ad olio, su cui le lacrime si tingono di sorrisi, le occasioni perse di soluzioni ritrovate.
Quelle che affaticano il cuore che poi, però, ritorna a battere, così forte come se qualcuno ce ne avesse consegnato uno nuovo. 
Quindi, forse, la vita é piuttosto una questione di cuore.

E di tempi.
Quelli che potranno essere accettati per quelli che sono.
O sfidati, quando qualche frammento di cuore non riuscirà a combaciare con quella frazione di tempo a noi per qualche ragione destinata.

Ma sarà in quest’eterna sfida tra titani che sul finale ci accorgeremo che non potranno esserci né vincitori né vinti. Il tempo non potrà battere il cuore, così come il cuore non riuscirà mai ad avere la meglio sul tempo.

Piuttosto, danzeranno.
Insieme.
Oltre le luci dell’alba.
Perché il cuore non ha bisogno di trovare ragioni per battere, così come il tempo alcuna giustificazione per essere sfidato.

Così, quando avremo l’impressione che uno sia riuscito a vincere sull’altro, in realtà nessuno dei due sarà veramente esistito. 
Non era quello il tempo a noi destinato e tutti i frammenti di cuore mai stati realmente ricomposti.
Perché il tempo seguirà sempre il cuore, ed il cuore cavalcherà sempre l’onda del tempo.

È così che mi piace immaginarli.
Come su di un’altalena in cui a turno l’uno spinge l’altro.
Su cui potranno sedersi entrambi solo in rare occasioni, quando saranno in grado di cogliere la folata di vento che li accompagnerà sino in cima.
Altrimenti, dondoleranno, l’uno sulla spinta dell’altro.


È così che mi piacerebbe immaginare le cose belle della vita: come un’energica spinta da quella frazione di tempo che ci è concessa che lancia il cuore sino al punto più alto, e nel frattempo il cuore aiuta il tempo a non lasciarsi consumare.

giovedì 11 settembre 2014

Gli inglesi mi hanno insegnato che ...

Circa una quarantina di occhi sgranati fissavano lo schermo che di lì a poco avrebbe indicato il numero del gate per il ritiro dei bagagli in aeroporto. 
Sembravano gli stessi che cominciano a fissare l'orologio con un'ora d'anticipo la sera dell'ultimo dell'anno, mentre tua madre è ancora intenta a servire le ultime portate. 
O investitori intenti a controllare l'andamento della borsa.
Erano assorti, quasi ipnotizzati. 
Io ero distante dalla folla, seduta per terra. Ho capito che il numero del gate era comparso sullo schermo esattamente un nano secondo dopo che fosse stato visualizzato. Sembrava una folla impazzita che in corsa doveva racimolare il pane in tempi di guerra. 

E' sempre divertente osservare come gli inglesi si approcciano al tempo, correndo. Come, in questo modo, sono in grado di vincere le attese. 

Ed è forse vero che se attendi troppo si rischia che il tempo ti consumi, perché non ti aspetta.
Ma se attendi troppo poco, non avrai mai il tempo dalla tua parte. 

E ho pensato quanto in fondo il controllo del tempo ed il bilanciamento delle attese sia parte dell'orologio biologico di molti.

Aspettiamo la fine dell'inverno per metterci a dieta.
Aspettiamo di finire gli studi per dedicarci alle nostre passioni, perché ci eravamo sempre detti che avrebbero richiesto troppo tempo.
Aspettiamo la persona giusta alla quale dire ti amo, come se esistesse un decalogo cui fare riferimento che ci permetta di individuare se una persona sia giusta o meno. 
Aspettiamo il silenzio per pronunciare parole. 
Ma aspettiamo anche semplici gesti per ridurci nel silenzio. Errando, sempre.

Aspettiamo bufere per metterci a bordo di una zattera aspettando che finisca.
Aspettiamo di cadere in mare rischiando di annegare, prima di capire che siamo in grado di nuotare e risalire a galla da soli.
Aspettiamo quel momento propizio per dare sfogo alla nostra fervida immaginazione, la nostra occasione per far capire quanto valiamo, prima di capire che la vita è fatta di momenti in cui bisognerà sempre agire seguendo l'istinto e che il nostro valore non accresce aspettando occasioni, siamo noi a doverle creare.
Aspettiamo di negare sguardi prima di capire che vorremmo ritraessero il nostro volto in ogni istante, ed aspettiamo di imbatterci negli stessi prima di capire che o andiamo via o ci tuffiamo dentro.

Aspettiamo la pioggia per gustare il tepore dei raggi di sole che riscaldano la nostra pelle, e l'afa del deserto per avvertire la mancanza del fresco venticello autunnale.

E aspettiamo di morire, per poi rinascere ancora.

A volte mi chiedo se sia più giusto aspettare come ci è stato insegnato, oppure correre a prendersi ciò che si vuole anche a costo di restare delusi. 

Non è forse questo il prezzo della vita?

C'è chi sceglie di morire nell'attesa di un tempo che consuma, e chi, invece, sceglie di vivere.

Forse questi inglesi qualcosa mi stanno insegnando.




mercoledì 30 aprile 2014

Scelgo il numero sette.

Londra è una porta aperta da cui le persone entrano ed escono di continuo, come un sipario che si apre e si chiude quando la performance volge al termine. E' una porta aperta a persone che, una volta varcata la soglia, divengono numeri imprecisi, tutte uguali, sebbene diverse.
Ed è all'importanza delle persone che pensavo, come essa cambi a seconda dei luoghi calpestati. 
Sono di un paese del Sud Italia, in cui le persone si conoscono pressappoco tutte, in cui se chiedi una sigaretta ti viene offerto l'intero pacchetto, in cui i ristoranti sono pieni solo nel fine settimana perché si pranza o si cena fuori soltanto nei giorni di festa, e quelli sono una rarità. Sono di un paese in cui le mancanze si avvertono, gli abbracci sono forti, le parole sono importanti, le persone non sono tutte uguali, non sono numeri, ma hanno un volto, un nome, una propria identità. Sono di un paese in cui lo scorrere del tempo si avverte, in cui le persone che incontri divengono tuoi amici ed è probabile che te li porterai con te per l'intera vita. Sono di un paese che è una porta piccola, di quelle da cui entri sgattaiolando su di un piccolo sentiero che porta al mare, alla spiaggia, al fresco venticello tipico del mese di maggio, in cui, puoi star seduto per ore a leggere un libro mentre tiepidi raggi di sole riscaldano la tua pelle, senza mai bruciarti, ritrovando te stesso nei sorrisi della gente, la quiete nel sole che man mano si nasconde per dar spazio alla luna. 
E pensavo a quanto in fondo mi stia abituando allo scorrere veloce delle persone, che oggi ci sono, domani non più. Come se fosse una prerogativa di una città dove il tempo si percepisce in maniera diversa, dove la calma è quasi un'utopia, in cui il lunedì non è così diverso dal sabato. E pensavo alla differenza tra bisogno ed amore, inteso nelle sue mille sfaccettature. Al cospetto del primo saremo in fondo tutti uguali, numeri da addizionare, moltiplicare, dividere e talvolta sottrarre. Pensavo a quanto il bisogno sia in grado di sminuzzare il tempo, fornire la stessa maschera a tutti coloro che sceglieranno di tuffarvisi dentro, quanto sia in grado di chiudere porte con le catene, quelle stesse che per una forza, definiamola naturale, verranno spezzate. Al cospetto dell'amore anche un singolo attimo avrà importanza, anche un dettaglio varrà, per definire volti, sguardi o forme simili, ma mai completamente uguali. Ed è al suo cospetto che tutti i numeri si azzerano, è davanti a lui che le porte resteranno sempre aperte, per far entrare persone, per imparare, talvolta, anche a lasciare andare. 
Ed in questo continuo riflusso di persone, pensavo che la mia è la città dell'amore, Londra quella del bisogno. Ma se devo essere un numero, allora scelgo il numero sette. Perché il doppio suono dentale suona bene, e perché il sette è vicino al dieci, molto distante dall'uno, ma supera il cinque. Perché il sette è abbastanza, mai troppo poco, mai un eccesso. E' un numero che inconsciamente lascia pensare che vi sia un proseguo, anche ai bambini si insegna a contare almeno fino al numero dieci, al sette non ci si ferma mai. E' un numero che si pone a metà strada tra il cinque ed il dieci, tra la pianura e la cima. Ci si può anche fermare, perché in fondo il numero sette è come un giovedì nel corso della settimana: sembra un numero messo lì a caso, ma è bello perché unisce. Non esistono numeri nella prima decina che vantino questa caratteristica. Sembra gli si possa dare quasi il volto di un giovane sorridente che aiuta un'anziana donna ad attraversare la strada, una piccola porta che conduce in cima per guardare dall'alto la bellezza di tutto il paesaggio circostante, sembra quasi avere la freschezza di un vento che spazza via le nuvole, infondendoti la speranza che domani è un giorno nuovo per andare avanti. 
Così si arriva ad essere numeri, senza mai sentircisi. E allora si impara a dare ai numeri un'identità, un volto, un nome. Si impara a sentire le mancanze, lo scorrere impetuoso del tempo che come un uragano fa piazza pulita, lasciando che tutti, prima o poi, escano da quelle porte che l'amore ha lasciato aperte. Si impara ad immaginare il mare, la spiaggia, il sole, nonostante sia tutto molto distante da te. Si impara il modo di creare spazi piccoli in un enorme universo. Si impara il modo di portare amore in cui la natura farebbe sorgere soltanto bisogni. 

Se devo essere un numero, scelgo il numero sette.