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giovedì 16 aprile 2015

Sarà per la prossima volta

Mentre tutti quelli che lasciavo alle spalle continuavano le loro vite in quella che allora consideravo un'insolita indifferenza, intanto io mi nutrivo di quest'ultima pur consapevole di quanto fosse velenosa. Mi entrava nelle vene suadente, ed io la lasciavo scorrere permettendole di rendermi prigioniera come di un peccato che non avevo commesso. Fin quando poi, ad un certo punto, rilevavo la presenza di qualcos'altro. Allora cominciavo ad espellerlo, a poco a poco, come se volessi allontanarmi da una realtà, qualcuno o qualcosa che già in fondo non mi apparteneva più solo a piccole dosi, senza avvertirne troppo la mancanza. E mentre rigurgitavo gradatamente, lasciavo spazio a quella nuova sostanza che stavo assorbendo, che inevitabilmente di lì a poco, avrebbe assunto le sembianze di un altro veleno. Come quando versiamo dell'acqua in un bicchiere che prima conteneva del vino, senza averlo ripulito con cura. Il suo aroma incontrerà le nostre papille gustative nonostante tutto, ne basterà una goccia.
In questo modo, anche qualcosa di sano e potenzialmente non dannoso, può trasformarsi nel suo opposto, se non si è pulito ed asciugato del tutto la superficie su cui giaceva quel veleno.

Ed ho pensato che quando ascolto una canzone che mi piace faccio più o meno la stessa cosa. L'ascolto di continuo, in ogni momento utile. La metto una, due, tre, cento, mille volte. Non ne ascolto altre, soltanto quella. Imparo a memoria il testo, gli accordi, la musica, il momento dell'attacco e quando sta per volgere al termine. Mi entra dentro, come un veleno che tramortisce, perché magari lascia che la tua mente vaghi alla ricerca di ricordi, di quel luogo in cui vorresti ritornare, di quelle mani che vorresti sfiorare e a cui lasceresti fare, ad una fervida illusione o ad una speranza che hai nel cuore ma che non hai mai confidato a nessuno.

Poi però ad un certo punto metti le orecchie su di un'altra canzone e cominci ad ascoltare anche questa. Così, gradatamente, prenderà posto nella tua playlist giornaliera, trasformandosi in un'altra droga. Forse quanto la prima, meno, o molto di più. Ed è una catena che non si arresta mai: ogni canzone, man mano, lascerà spazio ad un'altra, riponendo la precedente nel nostro dimenticatoio personale. Ma a volte basterà che la radio passi una fra queste, in un giorno di sole pieno in cui per la prima volta hai indossato una maglietta a maniche corte ed un sorriso che sa di primavera, per ricordare che in un momento della tua vita quella canzone ti sortiva lo stesso effetto di un vizio che pensavi non avresti mai smesso.

Se me l'avessero chiesto qualche tempo fa, avrei risposto che magari ascoltare quella canzone mi avrebbe procurato uno strano effetto, come un tuffo in un passato di cui se per un verso hai consapevolezza sia velenoso, dall'altra hai una paura commisurata di espellerlo del tutto.

Se me lo chiedessero oggi, direi esattamente lo stesso. Trovo ancora che l'indifferenza sia una pratica piuttosto insolita. Lascio ancora che ogni cosa mi scorra dentro, sino all'ultima goccia ed anche oltre, quando ne resta anche solo una massa indefinita di ricordi. Ed ancora scorro la mia playlist trovando qualcos'altro di cui nutrirmi quando avverto la stanchezza. Qualcosa è diventato ambrosia, altro si è trasformato in veleno che forse non riuscirò mai ad espellere perché avrei nostalgia anche di ciò che fa male.

Ma in una città come Londra, ho imparato a convivere con tutte queste lacune. Ho imparato a riempirle, non trascurandone la dannosità, imparando però a non considerare tutto come veleno da cui non si torna più indietro.
Potrebbe andare sempre meglio, ma basta dire che va bene. Certi posti ti induriscono, in ogni senso in cui una persona possa farlo.
Non si diventa egoisti per necessità, ma è il cuore che te lo impone. Per imparare a rispettarsi di più, associando a quella che credevi fosse da sempre una priorità cui badare stringendo i denti e cacciando fuori le unghie, ossia quella di vivere con e di cuore, anche un'altra: camminare a testa alta, senza pesi  sul cuore. E a volte egoisti si deve essere, nella sua accezione positiva, che significa badare a se stessi.

Imparo questa lezione ogni giorno, e man mano la assorbo. Ma ammetto che ogni tanto mischio ancora l'acqua con il vino, trattengo veleni perché ho paura di perderli anche se sono loro i primi a decidere di andarsene, ed il dito resta sempre lì senza scorrere la mia playlist. Lo faccio ancora, ogni tanto, la sera, quando nessuno mi vede perché al mattino la luce del sole è come se ti ponesse al cospetto dell'intero mondo.

Lo faccio perchè in fondo ogni tanto mi manca e penso se ed in quanti altri dimenticatoi io mi possa trovare. La differenza è che i miei sono tascabili, li porto con me dappertutto, e non hanno lucchetto. Gettarli è una lezione che non ho ancora imparato. Sarà per la prossima volta.

mercoledì 21 maggio 2014

Come margherite sul comodino.

L'altro giorno nel ristorante dove lavoro, è entrato un uomo su di una sedia a rotelle, senza braccia, né gambe. Ho trattenuto le lacrime per timore che qualcuno se ne accorgesse, ed anche perché credo che uomini costretti a convivere con una tale disgrazia, non abbiano bisogno della commiserazione di estranei.
Poi ho ammirato la donna che spingeva la sua sedia a rotelle, sino a trovargli la posizione a lui più comoda. Ho invidiato il suo sguardo fiero, quasi come se volesse dire che il suo uomo, nonostante tutto, non aveva meno degli altri. E ha soppiantato le sue manchevolezze imboccandolo con disinvoltura, portando il cibo alla sua bocca soltanto nell'attesa che lui ingoiasse la sua porzione. Gli ha pulito la bocca con i tovaglioli, scrollato le briciole dalle sue gambe. La loro naturalezza faceva sembrare che fosse una situazione normale. Ma poi, pensandoci, ho capito che nonostante la triste storia di quell'uomo, in fondo lo fosse davvero. Ho pensato che quella donna più che l'etichetta di eroina, di donna che si immola per una causa giusta, avrebbe preferito quella di compagna e basta. Perché nell'amore è così: non devi mai lasciare che l'altro pensi di non essere abbastanza, e se lo fa, devi cercare di attutire le sue mancanze, offrendogli tutto quello che hai.

Quando lui va a fare la spesa, compra sempre due confezioni di yogurt: una alla fragola, un'altra al gusto di pesca. E mi dice che quest'ultima è per me, l'altra l'ha comprata soltanto per lui, perché sa che non mangio yogurt alla fragola, non mi piacciono. Quando ero piccola li chiamavo "yogurt rosa", ed ancora adesso, per farglielo capire, li chiamo "pink". Lui se ne ricorda sempre. Come si ricorda che amo il succo d'arancia, e ne compra sempre una bottiglia, insieme al succo di mela, che di solito non bevevo prima, ma adesso ho cominciato a farlo con gusto. Come si è ricordato quanto amassi le margherite, ed un giorno che stavo male, è arrivato con un vaso, poggiandomelo sul comodino.
Verso le sei del pomeriggio se sono a casa mi chiede sempre cosa desidero per cena. Se non ci sono, me ne conserva un piatto, proprio come farebbe mia madre.
Guardandomi talvolta mangiare la pastina in brodo, diceva che fosse soltanto un po' di pasta in una ciotola d'acqua. Ma una sera, faceva freddo, e l'abbiamo mangiata insieme. Per lui, non è stata tanto male.
O come quando mi ha regalato una macchina del caffè, perché così, a suo dire, avrei potuto preparare un espresso, non continuando con le lamentele su quanto fosse disgustoso il caffè made in England. O come quella volta che ha seguito uno spettacolo al teatro in lingua italiana, perché sapeva quanto ci tenessi, nonostante non capisca bene l'italiano.

Oggi pomeriggio gli uccelli non smettevano di cinguettare e all'orizzonte si intravedeva un cielo rosa misto all'arancione, di quelli che avrebbero ceduto il passo ad un tramonto meraviglioso, se non fosse stato per le nuvole che, come di consueto, nascondevano il Sole, come una superficie di panna montata. E proprio mentre il canto degli uccelli entrava come musica dalla finestra della mia stanza, pensavo a quanti capitoli della mia vita abbia aperto e poi chiuso, e a quelli che ancora non conosco e che dovrò aprire, per poi chiuderli ancora. Ma soprattutto ho tentato di dare un nome ed un volto a quest'attuale capitolo della mia vita, ed nelle mie orecchie non sentivo altro che il suono del suo nome, nella mia mente immaginavo soltanto il suo volto.
E ho pensato, che nonostante le tangibili diversità, non fossimo così diversi da quella coppia entrata nel ristorante, perché anche noi, come loro, tentiamo di non far mancare nulla all'altro, ed offriamo ciò che abbiamo per sentirci sempre all'altezza l'un dell'altro.

Ed ogni giorno imparo qualcosa in più. Ho imparato che l'amore è quando lui ti riempie il frigo di yogurt "arancioni", perché i "rosa" non ti piacciono. E' quando tu li compri "rosa", soltanto per lui. E' quando assaggi succhi che non avevi mai provato, ma che pian piano impari a gustare, come del nettare degli dei. Sono petali di margherite, in un giorno di sole, poggiati sul comodino, per alleviare il tuo dolore. E' chiederti cosa vuoi per cena, perché mangiare da soli è triste, in due si sta meglio. E' condividere un pezzo di cioccolato e lasciargli l'ultimo pezzo. E' imparare a farsi piacere ciò che prima si ignorava per partito preso. L'amore è dire "adesso so cosa scrivere sul mio blog, ma lo faccio dopo", e lui che ti risponde: "No, fallo ora, altrimenti perdi la tua ispirazione".

Questa fase della mia vita si chiama: ritrovarsi nei gesti più semplici.









mercoledì 30 aprile 2014

Scelgo il numero sette.

Londra è una porta aperta da cui le persone entrano ed escono di continuo, come un sipario che si apre e si chiude quando la performance volge al termine. E' una porta aperta a persone che, una volta varcata la soglia, divengono numeri imprecisi, tutte uguali, sebbene diverse.
Ed è all'importanza delle persone che pensavo, come essa cambi a seconda dei luoghi calpestati. 
Sono di un paese del Sud Italia, in cui le persone si conoscono pressappoco tutte, in cui se chiedi una sigaretta ti viene offerto l'intero pacchetto, in cui i ristoranti sono pieni solo nel fine settimana perché si pranza o si cena fuori soltanto nei giorni di festa, e quelli sono una rarità. Sono di un paese in cui le mancanze si avvertono, gli abbracci sono forti, le parole sono importanti, le persone non sono tutte uguali, non sono numeri, ma hanno un volto, un nome, una propria identità. Sono di un paese in cui lo scorrere del tempo si avverte, in cui le persone che incontri divengono tuoi amici ed è probabile che te li porterai con te per l'intera vita. Sono di un paese che è una porta piccola, di quelle da cui entri sgattaiolando su di un piccolo sentiero che porta al mare, alla spiaggia, al fresco venticello tipico del mese di maggio, in cui, puoi star seduto per ore a leggere un libro mentre tiepidi raggi di sole riscaldano la tua pelle, senza mai bruciarti, ritrovando te stesso nei sorrisi della gente, la quiete nel sole che man mano si nasconde per dar spazio alla luna. 
E pensavo a quanto in fondo mi stia abituando allo scorrere veloce delle persone, che oggi ci sono, domani non più. Come se fosse una prerogativa di una città dove il tempo si percepisce in maniera diversa, dove la calma è quasi un'utopia, in cui il lunedì non è così diverso dal sabato. E pensavo alla differenza tra bisogno ed amore, inteso nelle sue mille sfaccettature. Al cospetto del primo saremo in fondo tutti uguali, numeri da addizionare, moltiplicare, dividere e talvolta sottrarre. Pensavo a quanto il bisogno sia in grado di sminuzzare il tempo, fornire la stessa maschera a tutti coloro che sceglieranno di tuffarvisi dentro, quanto sia in grado di chiudere porte con le catene, quelle stesse che per una forza, definiamola naturale, verranno spezzate. Al cospetto dell'amore anche un singolo attimo avrà importanza, anche un dettaglio varrà, per definire volti, sguardi o forme simili, ma mai completamente uguali. Ed è al suo cospetto che tutti i numeri si azzerano, è davanti a lui che le porte resteranno sempre aperte, per far entrare persone, per imparare, talvolta, anche a lasciare andare. 
Ed in questo continuo riflusso di persone, pensavo che la mia è la città dell'amore, Londra quella del bisogno. Ma se devo essere un numero, allora scelgo il numero sette. Perché il doppio suono dentale suona bene, e perché il sette è vicino al dieci, molto distante dall'uno, ma supera il cinque. Perché il sette è abbastanza, mai troppo poco, mai un eccesso. E' un numero che inconsciamente lascia pensare che vi sia un proseguo, anche ai bambini si insegna a contare almeno fino al numero dieci, al sette non ci si ferma mai. E' un numero che si pone a metà strada tra il cinque ed il dieci, tra la pianura e la cima. Ci si può anche fermare, perché in fondo il numero sette è come un giovedì nel corso della settimana: sembra un numero messo lì a caso, ma è bello perché unisce. Non esistono numeri nella prima decina che vantino questa caratteristica. Sembra gli si possa dare quasi il volto di un giovane sorridente che aiuta un'anziana donna ad attraversare la strada, una piccola porta che conduce in cima per guardare dall'alto la bellezza di tutto il paesaggio circostante, sembra quasi avere la freschezza di un vento che spazza via le nuvole, infondendoti la speranza che domani è un giorno nuovo per andare avanti. 
Così si arriva ad essere numeri, senza mai sentircisi. E allora si impara a dare ai numeri un'identità, un volto, un nome. Si impara a sentire le mancanze, lo scorrere impetuoso del tempo che come un uragano fa piazza pulita, lasciando che tutti, prima o poi, escano da quelle porte che l'amore ha lasciato aperte. Si impara ad immaginare il mare, la spiaggia, il sole, nonostante sia tutto molto distante da te. Si impara il modo di creare spazi piccoli in un enorme universo. Si impara il modo di portare amore in cui la natura farebbe sorgere soltanto bisogni. 

Se devo essere un numero, scelgo il numero sette.