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martedì 3 marzo 2015

Come se scattassi una fotografia

Si avvicina la mia ventiseiesima primavera. La mia seconda a Londra.
L'altro giorno, mentre le mie ginocchia si poggiavano su di una incontaminata distesa di verde, il vento soffiava ed io riuscivo a sentirne il rumore ed anche il silenzio in quello stesso istante in cui frenava la  sua forza motrice, di rami, foglie ingiallite ed erba fresca.

Se fossi stata seduta ancora un po' credo mi avrebbe detto di restare. Ma io, dopo poco, sono andata via. Ma non ho voluto dimenticare.

Credo che questa città porti a farlo. Lascia che la tua mente renda i contorni di un passato appena trascorso sempre più sbiaditi sino a perderli in uno spazio buio dalle pareti di cartone. Lo fa, spesso senza volerlo, con le cose, le circostanze, le persone. Ce ne dimentichiamo, e andiamo avanti.

Io di questo ne ho sempre avuto il terrore. E non per quell'angusta paranoia di voler essere ancorata al passato, ma perchè ho sempre creduto che il verbo dimenticare serbasse in seno un significato triste, che non mi è mai appartenuto sino in fondo. Per questo non lo so fare.

Consapevole di questa mia incapacità e di quanto il farlo da parte di altri mi procurasse timore, ogni tanto ho bisogno di sentirmelo dire. Qualche volta, di fronte l'essere inerme di chi avevo di fronte, ho addirittura chiesto se ne stesse valutando l'eventualità. La risposta talvolta è stata mai, altre invece più sincera.  Perché in fondo noi che nutriamo questa fobia, siamo i primi a saperlo: dimenticare è umano, quasi quanto il non farlo.

Anche io ci ho provato. Ho cercato di plasmarmi alle consuetudini di questa città. Sono salita su un treno a vapore, promettendomi che per me non ci sarebbero state fermate se non l'ultima, quella che desideravo ardentemente ed il motivo stesso che mi ha portato a salire.

Ma non ci sono riuscita. Sono scesa, ad ogni stazione. E lì mi sono fermata. Per poco, per tanto o troppo. Vi ho ridisegnato i contorni, rendendoli simili a come li cercassi. A volte sono stati loro a rendere me simile a loro. Poi, ad un certo punto, sentivo il fischio di un treno in partenza. Scattavo una fotografia e la poggiavo tra le pagine del libro che stavo leggendo per rendere il viaggio meno noioso. Ogni tanto la guardavo. Prima di scendere alla fermata successiva e scattarne un'altra, quella che si sarebbe sovrapposta a quella precedente.

Non pensavo di averne avute così tante da guardare. Ma ancora lo faccio, ogni tanto, per paura di dimenticare.

Perché sono fatta così. Arrivo a destinazione ed intanto pianifico un'altra meta, un altro viaggio, tante altre fotografie.

Ma è la nostra vita, anche se rappresenta il nostro passato.

Io non mi dimentico, di niente. Salgo su un treno a vapore e lascio che il paesaggio cambi attraverso i vetri di un finestrino aperto a metà, bagnato ogni tanto da qualche schizzo di pioggia che ci ricorda di come spesso anche la natura può apparire ai nostri occhi imperfetta.

Ma non lo sarà, mai. Perché ogni fermata ci avvicina alla persona che scegliamo di essere. Sono giuste, tutte.

Se le mie ginocchia fossero ancora su quell'immensa distesa incontaminata di verde, il vento, nel suo silenzio, mi avrebbe invogliato a restare. Io ho scattato una fotografia e poi sono andata via, per iniziare la mia ventiseiesima primavera.

mercoledì 21 maggio 2014

Come margherite sul comodino.

L'altro giorno nel ristorante dove lavoro, è entrato un uomo su di una sedia a rotelle, senza braccia, né gambe. Ho trattenuto le lacrime per timore che qualcuno se ne accorgesse, ed anche perché credo che uomini costretti a convivere con una tale disgrazia, non abbiano bisogno della commiserazione di estranei.
Poi ho ammirato la donna che spingeva la sua sedia a rotelle, sino a trovargli la posizione a lui più comoda. Ho invidiato il suo sguardo fiero, quasi come se volesse dire che il suo uomo, nonostante tutto, non aveva meno degli altri. E ha soppiantato le sue manchevolezze imboccandolo con disinvoltura, portando il cibo alla sua bocca soltanto nell'attesa che lui ingoiasse la sua porzione. Gli ha pulito la bocca con i tovaglioli, scrollato le briciole dalle sue gambe. La loro naturalezza faceva sembrare che fosse una situazione normale. Ma poi, pensandoci, ho capito che nonostante la triste storia di quell'uomo, in fondo lo fosse davvero. Ho pensato che quella donna più che l'etichetta di eroina, di donna che si immola per una causa giusta, avrebbe preferito quella di compagna e basta. Perché nell'amore è così: non devi mai lasciare che l'altro pensi di non essere abbastanza, e se lo fa, devi cercare di attutire le sue mancanze, offrendogli tutto quello che hai.

Quando lui va a fare la spesa, compra sempre due confezioni di yogurt: una alla fragola, un'altra al gusto di pesca. E mi dice che quest'ultima è per me, l'altra l'ha comprata soltanto per lui, perché sa che non mangio yogurt alla fragola, non mi piacciono. Quando ero piccola li chiamavo "yogurt rosa", ed ancora adesso, per farglielo capire, li chiamo "pink". Lui se ne ricorda sempre. Come si ricorda che amo il succo d'arancia, e ne compra sempre una bottiglia, insieme al succo di mela, che di solito non bevevo prima, ma adesso ho cominciato a farlo con gusto. Come si è ricordato quanto amassi le margherite, ed un giorno che stavo male, è arrivato con un vaso, poggiandomelo sul comodino.
Verso le sei del pomeriggio se sono a casa mi chiede sempre cosa desidero per cena. Se non ci sono, me ne conserva un piatto, proprio come farebbe mia madre.
Guardandomi talvolta mangiare la pastina in brodo, diceva che fosse soltanto un po' di pasta in una ciotola d'acqua. Ma una sera, faceva freddo, e l'abbiamo mangiata insieme. Per lui, non è stata tanto male.
O come quando mi ha regalato una macchina del caffè, perché così, a suo dire, avrei potuto preparare un espresso, non continuando con le lamentele su quanto fosse disgustoso il caffè made in England. O come quella volta che ha seguito uno spettacolo al teatro in lingua italiana, perché sapeva quanto ci tenessi, nonostante non capisca bene l'italiano.

Oggi pomeriggio gli uccelli non smettevano di cinguettare e all'orizzonte si intravedeva un cielo rosa misto all'arancione, di quelli che avrebbero ceduto il passo ad un tramonto meraviglioso, se non fosse stato per le nuvole che, come di consueto, nascondevano il Sole, come una superficie di panna montata. E proprio mentre il canto degli uccelli entrava come musica dalla finestra della mia stanza, pensavo a quanti capitoli della mia vita abbia aperto e poi chiuso, e a quelli che ancora non conosco e che dovrò aprire, per poi chiuderli ancora. Ma soprattutto ho tentato di dare un nome ed un volto a quest'attuale capitolo della mia vita, ed nelle mie orecchie non sentivo altro che il suono del suo nome, nella mia mente immaginavo soltanto il suo volto.
E ho pensato, che nonostante le tangibili diversità, non fossimo così diversi da quella coppia entrata nel ristorante, perché anche noi, come loro, tentiamo di non far mancare nulla all'altro, ed offriamo ciò che abbiamo per sentirci sempre all'altezza l'un dell'altro.

Ed ogni giorno imparo qualcosa in più. Ho imparato che l'amore è quando lui ti riempie il frigo di yogurt "arancioni", perché i "rosa" non ti piacciono. E' quando tu li compri "rosa", soltanto per lui. E' quando assaggi succhi che non avevi mai provato, ma che pian piano impari a gustare, come del nettare degli dei. Sono petali di margherite, in un giorno di sole, poggiati sul comodino, per alleviare il tuo dolore. E' chiederti cosa vuoi per cena, perché mangiare da soli è triste, in due si sta meglio. E' condividere un pezzo di cioccolato e lasciargli l'ultimo pezzo. E' imparare a farsi piacere ciò che prima si ignorava per partito preso. L'amore è dire "adesso so cosa scrivere sul mio blog, ma lo faccio dopo", e lui che ti risponde: "No, fallo ora, altrimenti perdi la tua ispirazione".

Questa fase della mia vita si chiama: ritrovarsi nei gesti più semplici.









lunedì 17 marzo 2014

Stagioni inverse.

Tra qualche giorno inizierà la primavera, esattamente il giorno del mio compleanno. Ho sempre pensato a questa stagione come ad un dolce risveglio, allo sbocciare dei primi germogli, alla migrazione delle rondini, ai primi caldi, quelli tiepidi che non bruciano, ma che riscaldano timidamente, quasi come se ti accarezzassero la pelle senza voler fare troppo rumore. Ed io in fondo mi sono sentita sempre così, come una parte di questo ciclo: quella sezione che si chiama "profumi nuovi", "freschezza", "inizi". Anche se al momento, sarà il clima londinese, ma io mi sento ancora in inverno. Con quell' inaccettabile freddo che colpendoti alle spalle, ti conteggia più mancanze di quanti siano i tuoi attuali desideri.
E sarebbe troppo ovvio dire che mi manca casa, famiglia ed amici. In realtà, oltre a tutto questo, mi mancano cose più piccole.
Mi manca la mia tappa quotidiana alla libreria per comprare qualche nuovo best seller di cui ho sentito in radio, in tv, o da qualsiasi altra parte.
Mi mancano quelle giornate che sembravano così lunghe, tanto che le colmavo scrivendo, una, due, anche più volte al giorno.
Mi manca mia madre che di buon mattino, mentre ancora dormivo, entrava con l'aspirapolvere in camera per pochi minuti, quanto bastava per svegliarmi, per poi andarsene via, chiudendo dietro di sé la porta.
Mi manca mio padre che ogni sabato, talvolta anche la domenica, comprava il pesce che tentava di pulire, pur rifilando dopo un po' a mia madre questo compito.
Mi manca mia nonna che prima di pranzo vuole che si faccia la preghiera, per poi benedire tutte le famiglie del mondo, come se davvero creda che la sua voce possa arrivare al Signore.
Mi mancano le serate in cui non uscivo e me ne stavo in casa a guardare un film sul divano con mio padre, mentre mia madre guardava qualche altro programma televisivo in cucina.
Mi manca litigare con le mie sorelle, anche solo per noia, anche solo per lo scambio di scarpe e vestiti.
Talvolta penso che cosa mi stia perdendo di tutti loro, nel corso di questi mesi, e cosa, anche solo per bilanciare, io stia costruendo, quanto stia crescendo. E a volte credo che non valga mai la pena perdere tutta questa ingenua, semplice ma eterna banalità. Non vale la pena, ma se primavera equivale a risveglio, quest'ultimo incamera in sè la parola crescita. E allora lo si deve fare, è parte di un ciclo naturale che corre al contrario: inizia con il gelido freddo invernale, si assesta con la caduta delle foglie in autunno, che danno spazio ai primi fiori e a quei caldi preludio della migrazione delle rondini. Poi il Sole, da che era cornice, diventa parte del dipinto. E' come lo immagino. O almeno è quello che voglio credere.