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martedì 5 maggio 2015

I ritorni sono come una tazza di caffè

Mi dirigo verso uno dei tanti bar in prossimità dell'uscita dell'aeroporto per ordinare un caffè. Me lo serve un ragazzino dal riconoscibile accento di chi proviene dal tacco della penisola. Una barba poco diradata, un fisico asciutto e degli occhiali da vista dalla forma ovale. Lo bevo, caldo ed amaro, ringrazio e vado via.

Sembra si alluda a ciò che puntualmente accade, pur senza volerlo, ogni volta che torno. La metafora di chi vive in una città diversa da quella in cui è cresciuto. Ritorni almeno un paio di volte l'anno o anche di più. Ne assapori i gusti che custodisci sapientemente nella scatola dei piaceri da riprovare, ne annusi i profumi spesso dimenticati, godi gli attimi come chi ne ha appreso la modalità soltanto in quel momento, trasportandoli dalla cesta delle abitudini detestabili a quella dei dettagli cui dar peso per non commettere errori, scrivendo sul nastro adesivo "consumarli con cautela".

Ti prendi il dolce e l'amaro, ti rivedi negli occhi di chi ti aspetta con la stessa scadenza dell'arrivo di una nuova stagione, mandi giù dell'acqua fresca per preparare il palato. Che tu sia immobile ad aspettare al bancone due giorni, dieci o un mese non avrà importanza: percepirai la stessa sensazione come se quel lasso temporale abbia la stessa durata di quella in cui un infermiere ti infila un ago nel braccio e ti disinfetta: meno di trenta secondi.

Ingerisci tutto. È caldo e ti scotta l'esofago, lo stesso che si raffredda solo un attimo più tardi, pur lasciando una sensazione di calore sulle sue pareti. Così ringrazi e vai via.

In fondo una tazza di caffè non è così dissimile dai ritorni, così come dalle partenze che non sono altro che ritorni al contrario, che insomma se capovolgi o ti poni sul versante opposto diventano ritorni anche loro.

Ha quell'aroma dolciastro man mano che si arriva sul fondo della tazza e che si compensa con l'amaro che lascia all'incontro con le papille gustative. Crea dipendenza, e anche quando credi che tu ne possa fare a meno quando lo riprovi ne avverti la mancanza come chi l'ha soltanto accantonata per non pensarci, ma è un vizio che non riuscirai mai a lasciare del tutto. Uno di quelli sani, eccitanti, naturali.

Non saranno sempre tutti uguali. Spesso darai per scontato di trovare tutto com'era l'ultima volta. Non sarà sempre così, e non sarai sempre l'unico ad esser cambiato. Il tuo cambiamento sarà stato repentino ed amplificato dalla stasi di cui gli altri intorno a te si nutrivano. Ma anche gli altri cambiano, forse in modo progressivo e lento, ma definitivo.

Ed allora si sperimenta l'effetto collaterale del non esserci nelle passate abitudini: la mancanza di ciò che credevamo di trovare e quella relativa a ciò che in realtà non c'era più. E ci si appropria di una nuova verità: i ritorni sono come una tazza di caffè. Dolci ed amari. Caldi e momentanei. Una dipendenza il cui abbandono è fuori dalle regole del gioco. Quelli da bere con chi c'è sempre stato e che alla fine magari deciderà di pagare il conto, o chi per timore di farlo, nemmeno si presenterà al bancone.

Ma a prescindere da come sarà, ne vale sempre la pena. Un viaggio di cui conosci a memoria i sentieri ma da qualche insenatura sempre nascosta e che sa del profumo del caffè appena svegli: insostituibile.

martedì 3 marzo 2015

Come se scattassi una fotografia

Si avvicina la mia ventiseiesima primavera. La mia seconda a Londra.
L'altro giorno, mentre le mie ginocchia si poggiavano su di una incontaminata distesa di verde, il vento soffiava ed io riuscivo a sentirne il rumore ed anche il silenzio in quello stesso istante in cui frenava la  sua forza motrice, di rami, foglie ingiallite ed erba fresca.

Se fossi stata seduta ancora un po' credo mi avrebbe detto di restare. Ma io, dopo poco, sono andata via. Ma non ho voluto dimenticare.

Credo che questa città porti a farlo. Lascia che la tua mente renda i contorni di un passato appena trascorso sempre più sbiaditi sino a perderli in uno spazio buio dalle pareti di cartone. Lo fa, spesso senza volerlo, con le cose, le circostanze, le persone. Ce ne dimentichiamo, e andiamo avanti.

Io di questo ne ho sempre avuto il terrore. E non per quell'angusta paranoia di voler essere ancorata al passato, ma perchè ho sempre creduto che il verbo dimenticare serbasse in seno un significato triste, che non mi è mai appartenuto sino in fondo. Per questo non lo so fare.

Consapevole di questa mia incapacità e di quanto il farlo da parte di altri mi procurasse timore, ogni tanto ho bisogno di sentirmelo dire. Qualche volta, di fronte l'essere inerme di chi avevo di fronte, ho addirittura chiesto se ne stesse valutando l'eventualità. La risposta talvolta è stata mai, altre invece più sincera.  Perché in fondo noi che nutriamo questa fobia, siamo i primi a saperlo: dimenticare è umano, quasi quanto il non farlo.

Anche io ci ho provato. Ho cercato di plasmarmi alle consuetudini di questa città. Sono salita su un treno a vapore, promettendomi che per me non ci sarebbero state fermate se non l'ultima, quella che desideravo ardentemente ed il motivo stesso che mi ha portato a salire.

Ma non ci sono riuscita. Sono scesa, ad ogni stazione. E lì mi sono fermata. Per poco, per tanto o troppo. Vi ho ridisegnato i contorni, rendendoli simili a come li cercassi. A volte sono stati loro a rendere me simile a loro. Poi, ad un certo punto, sentivo il fischio di un treno in partenza. Scattavo una fotografia e la poggiavo tra le pagine del libro che stavo leggendo per rendere il viaggio meno noioso. Ogni tanto la guardavo. Prima di scendere alla fermata successiva e scattarne un'altra, quella che si sarebbe sovrapposta a quella precedente.

Non pensavo di averne avute così tante da guardare. Ma ancora lo faccio, ogni tanto, per paura di dimenticare.

Perché sono fatta così. Arrivo a destinazione ed intanto pianifico un'altra meta, un altro viaggio, tante altre fotografie.

Ma è la nostra vita, anche se rappresenta il nostro passato.

Io non mi dimentico, di niente. Salgo su un treno a vapore e lascio che il paesaggio cambi attraverso i vetri di un finestrino aperto a metà, bagnato ogni tanto da qualche schizzo di pioggia che ci ricorda di come spesso anche la natura può apparire ai nostri occhi imperfetta.

Ma non lo sarà, mai. Perché ogni fermata ci avvicina alla persona che scegliamo di essere. Sono giuste, tutte.

Se le mie ginocchia fossero ancora su quell'immensa distesa incontaminata di verde, il vento, nel suo silenzio, mi avrebbe invogliato a restare. Io ho scattato una fotografia e poi sono andata via, per iniziare la mia ventiseiesima primavera.

sabato 21 giugno 2014

Un giro in libreria.

Oggi sono entrata in una libreria per acquistare un libro di travel writing, come richiesto da uno degli insegnanti della mia scuola di giornalismo.

C'è qualcosa di assolutamente coinvolgente in posti come questi. Appena entri c'è un profumo di carta che ti si infila sin dentro le narici. Generalmente l'atmosfera appare cupa, ma suggestiva, come se le copertine dei libri fungessero da candele, di quelle che emanano una luce fioca, ma sufficiente. E non sono molto affollate.Se penso a quanti si professano lettori scaricando le versioni e-book, che poi è un po' come fare del sesso telefonico. Le intenzioni sono le stesse, ma è la forma a cambiare. Polpastrelli che non sfogliano pagine, narici che non annusano alcun profumo: che poi è come perdere parte del piacere.

Luoghi come questi esercitano su di me un forte ascendente, tale da pensare di volerli acquistare tutti, fin quando con il profumo ancora nel naso di pagine di un qualche libro di cui abbia cominciato a leggere la trama sul retro di copertina, il mio raziocinio mi ferma. Ammetto di esserci entrata talvolta solo per percepirne l'odore e quella calma quasi fittizia, pur uscendo a mani vuote. Oggi, per esempio, avrei voluto comprarne una decina, ne stavo per pagare tre, ma alla fine ne ho acquistati soltanto due. Uno dei due mi era stato richiesto, l'altro mi ha attratto per il titolo e l'originalità dei contenuti: "Underground Overground - A passenger's history of the Tube", un racconto ironico su tutto ciò che c'è da sapere sulla metropolitana londinese, attraverso il viaggio dell'autore/protagonista Andrew Martin.

E' come se avessi trovato due luoghi incastrati, l'uno nell'altro. La metropolitana è un luogo di passaggio. E' uno di quei pochi luoghi, forse l'unico rimasto sulla faccia della terra, dove è possibile raccogliere tutte insieme in appena sessanta secondi milioni di vite che raggiungono diverse destinazioni. L'impiegato, il medico, il cameriere, lo studente, l'insegnante, l'artista. Corrono, scansandosi e sfiorandosi i gomiti, restano incastrati nello stesso vagone per dei minuti, e scrutando il passeggero che hanno di fianco o di fronte del tipo ma-che-cappello-indossa, figo-quel-tipo, a-saperlo-prendevo-il-giornale-all'entrata-anche-io, curiosano nelle vite altrui senza nemmeno sospettarlo, in silenzio, tra il rumore dei binari e la voce che annuncia la fermata successiva.

Io adoro luoghi come questi, quelli che sono sentieri dell'anima senza che nemmeno te ne accorga. Quelli attraversati da milioni di vite, tutte diverse eppure simili, legati solo da un viaggio, o forse una destinazione. Quelli che ti fanno crescere la voglia di scoprire, ma con discrezione, senza far troppo rumore. Quelli che profumano di cose che ti piacciono, al punto da volerne riempire una vita intera. Quelli dove non c'è una luce che abbaglia, ma fioca al punto giusto, per potersi guardare solo perché lo si vuole, anche di nascosto. Quelli in cui entri anche solo per due minuti, anche per non acquistare niente, soltanto per il piacere di farlo.

Nei luoghi, come nelle persone, é per piacere che si entra. Per annusarne il profumo, seguirne la scia, assecondarne i desideri. Come se si prendesse la metropolitana con destinazione libreria.