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sabato 14 giugno 2014

I migliori insegnanti di noi stessi.

Sino all'età di dodici anni ho suonato il pianoforte. Successivamente ho smesso per problemi di salute, ma probabilmente se anche non li avessi avuti, sarei giunta al capolinea lo stesso. La mia insegnante ad un certo punto ti dava un out out: o l'università o il conservatorio. La mia passione non era tale da negarmi la possibilità di dare tutta me stessa in qualcosa su cui avevo pianificato il mio futuro: la laurea. Sapevo di non poter diventare lo Chopin del Sud d'Italia.

Generalmente ci esibivamo quasi ogni anno. Il saggio era per tutti l'occasione di mostrare ai genitori i propri profitti, così che loro potessero pensare che i soldi spesi avessero portato in fondo dei benefici. Come l'esame di maturità, l'ultimo esame all'università, un test, in cui ti confronti con altri, per capire la natura del tuo prodotto, e se tu sia all'altezza. In uno degli ultimi saggi la mia insegnante mi disse che non ero pronta abbastanza: a due settimane dall'esibizione non conoscevo a memoria alcun pezzo assegnatomi, ma pur servendomi dello spartito, non c'era fluidità alcuna nelle mia dita. Vedevo tutti così bravi, ed io mi sentivo l'ultima della fila. Ma quando ero piccola ero molto più audace, nel senso che provavo molto più frequentemente a sfidare le mie insicurezze. Mi sentivo inferiore, come adesso, ma allora provavo lo stesso a raggiungere il gradino più alto, senza alcuna pretesa di rimanere lì, quasi come se la mia insicurezza ed il sentirmi sempre meno degli altri fosse qualcosa di consolidato, o forse addirittura precostituito.

Allora per dimostrare di essere pronta cominciai l'allenamento pre-partita in casa. Mi sedetti sul seggiolino, aprii lo spartito e cominciai a suonare per ore. Non due, né tre né otto. Suonavo dalle 12 alle 16 ore al giorno. Mi fermavo soltanto per mangiare, andare in bagno e dormire. Così, per giorni. Il primo passo era raggiungere naturalezza e fluidità nelle dita, che all'inizio sembravano bastoncini, poi man mano cominciarono a sciogliersi. Successivamente cominciai l'opera di memorizzazione. Infine cercai di far combaciare entrambe le cose: suonare i miei pezzi senza l'aiuto dello spartito, come se fossero stati un prodotto della mia mente, con la stessa naturalezza e consapevolezza.

Tre giorni prima del saggio, mi presentai in casa della mia insegnante per le prove generali. Lei mi fece accomodare per cortesia, ma sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto depennarmi dalla lista dei suoi studenti "prediletti". Aprì il mio quaderno. Per spronarmi, mi aveva detto di scrivere quali giorni e quante ore avessi studiato. Lesse che avevo studiato tutti i giorni, per un massimo di 18 ore. Fu impressionata da quei numeri, ma non abbastanza, fin quando non mi fece iniziare a suonare. Ricordo ancora il suo volto sbalordito e la voce carica di entusiasmo: "Antonia, sei stata così brava e così caparbia, che ti prometto che a saggio finito, salirò sul palco e ti farò pubblicamente i complimenti. Dirò a tutti i presenti quanto hai studiato per raggiungere questa perfezione". E così fu. Le sue parole mi diedero una carica indicibile, ma solo quando osservai, tra tutti, lo sguardo dei miei genitori, di orgoglio e tenerezza, che mi sentii veramente soddisfatta. Non l'avevo fatto per loro, né per la mia insegnante, né per superare i miei compagni. L'avevo fatto essenzialmente per me stessa, per capire fin dove mi potevo spingere soltanto affidandomi alle mie forze e capii che in fondo mi stavo ponendo, già a dodici anni, più limiti di quanti concretamente ne avessi. Realizzai che potevo trasformare le mie insicurezze nell'esatto opposto: sacrificarmi, andare oltre ciò che la mia mente dava forse per precostituito, per provare a salire sul podio.

Ed ancora oggi quando la paura e le ansie prendono il posto primario nel groviglio di pensieri che affollano la mia mente, ripenso a quel giorno, a quanto abbia sudato, a quanto il mio sedere sia diventato rosso per l'aderenza con la pelle che rivestiva il seggiolino, per quante ore abbia fatto pratica prima di vedere le mie dita sciogliersi, per poi sentire la melodia nella mente e combinare entrambe le cose per raggiungere infine quel risultato. Quando siamo piccoli diventiamo gli insegnanti di noi stessi, senza nemmeno rendercene conto. Ed è opportuno andare indietro nel tempo per ricordare a noi stessi che se ce l'abbiamo fatta allora, ce la possiamo fare anche adesso.

mercoledì 30 aprile 2014

Scelgo il numero sette.

Londra è una porta aperta da cui le persone entrano ed escono di continuo, come un sipario che si apre e si chiude quando la performance volge al termine. E' una porta aperta a persone che, una volta varcata la soglia, divengono numeri imprecisi, tutte uguali, sebbene diverse.
Ed è all'importanza delle persone che pensavo, come essa cambi a seconda dei luoghi calpestati. 
Sono di un paese del Sud Italia, in cui le persone si conoscono pressappoco tutte, in cui se chiedi una sigaretta ti viene offerto l'intero pacchetto, in cui i ristoranti sono pieni solo nel fine settimana perché si pranza o si cena fuori soltanto nei giorni di festa, e quelli sono una rarità. Sono di un paese in cui le mancanze si avvertono, gli abbracci sono forti, le parole sono importanti, le persone non sono tutte uguali, non sono numeri, ma hanno un volto, un nome, una propria identità. Sono di un paese in cui lo scorrere del tempo si avverte, in cui le persone che incontri divengono tuoi amici ed è probabile che te li porterai con te per l'intera vita. Sono di un paese che è una porta piccola, di quelle da cui entri sgattaiolando su di un piccolo sentiero che porta al mare, alla spiaggia, al fresco venticello tipico del mese di maggio, in cui, puoi star seduto per ore a leggere un libro mentre tiepidi raggi di sole riscaldano la tua pelle, senza mai bruciarti, ritrovando te stesso nei sorrisi della gente, la quiete nel sole che man mano si nasconde per dar spazio alla luna. 
E pensavo a quanto in fondo mi stia abituando allo scorrere veloce delle persone, che oggi ci sono, domani non più. Come se fosse una prerogativa di una città dove il tempo si percepisce in maniera diversa, dove la calma è quasi un'utopia, in cui il lunedì non è così diverso dal sabato. E pensavo alla differenza tra bisogno ed amore, inteso nelle sue mille sfaccettature. Al cospetto del primo saremo in fondo tutti uguali, numeri da addizionare, moltiplicare, dividere e talvolta sottrarre. Pensavo a quanto il bisogno sia in grado di sminuzzare il tempo, fornire la stessa maschera a tutti coloro che sceglieranno di tuffarvisi dentro, quanto sia in grado di chiudere porte con le catene, quelle stesse che per una forza, definiamola naturale, verranno spezzate. Al cospetto dell'amore anche un singolo attimo avrà importanza, anche un dettaglio varrà, per definire volti, sguardi o forme simili, ma mai completamente uguali. Ed è al suo cospetto che tutti i numeri si azzerano, è davanti a lui che le porte resteranno sempre aperte, per far entrare persone, per imparare, talvolta, anche a lasciare andare. 
Ed in questo continuo riflusso di persone, pensavo che la mia è la città dell'amore, Londra quella del bisogno. Ma se devo essere un numero, allora scelgo il numero sette. Perché il doppio suono dentale suona bene, e perché il sette è vicino al dieci, molto distante dall'uno, ma supera il cinque. Perché il sette è abbastanza, mai troppo poco, mai un eccesso. E' un numero che inconsciamente lascia pensare che vi sia un proseguo, anche ai bambini si insegna a contare almeno fino al numero dieci, al sette non ci si ferma mai. E' un numero che si pone a metà strada tra il cinque ed il dieci, tra la pianura e la cima. Ci si può anche fermare, perché in fondo il numero sette è come un giovedì nel corso della settimana: sembra un numero messo lì a caso, ma è bello perché unisce. Non esistono numeri nella prima decina che vantino questa caratteristica. Sembra gli si possa dare quasi il volto di un giovane sorridente che aiuta un'anziana donna ad attraversare la strada, una piccola porta che conduce in cima per guardare dall'alto la bellezza di tutto il paesaggio circostante, sembra quasi avere la freschezza di un vento che spazza via le nuvole, infondendoti la speranza che domani è un giorno nuovo per andare avanti. 
Così si arriva ad essere numeri, senza mai sentircisi. E allora si impara a dare ai numeri un'identità, un volto, un nome. Si impara a sentire le mancanze, lo scorrere impetuoso del tempo che come un uragano fa piazza pulita, lasciando che tutti, prima o poi, escano da quelle porte che l'amore ha lasciato aperte. Si impara ad immaginare il mare, la spiaggia, il sole, nonostante sia tutto molto distante da te. Si impara il modo di creare spazi piccoli in un enorme universo. Si impara il modo di portare amore in cui la natura farebbe sorgere soltanto bisogni. 

Se devo essere un numero, scelgo il numero sette.