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martedì 5 giugno 2018

Adelante, cómete el mundo

Ho cercato di trovare le parole ogni giorno in questi mesi in cui non ho scritto. 
Poi, come spesso accade, sono state loro a trovare me, proprio quando ho smesso di cercarle. Così mi hanno quasi circondata, impedendomi di scappare, perché stavolta non ci sarebbe stata una via d’uscita, un piano B, un’alternativa che avrebbe solo procrastinato il tutto, mai cancellato.

Sono state loro a chiedermi di uscire, dopo tutti questi mesi, in cui dicevo sempre dell’altro per camuffare. Ed io, che ho imparato col tempo a prendermene cura come un genitore attento, ho capito, forse tardi, che era giusto lasciarle andare. Come quando un figlio chiede il permesso per poter prendere la propria strada, e tu, nonostante la ferita di vederlo andar via, non puoi non concedergli di distaccarsi: è un percorso naturale.

Così, chiudo anche questo pezzo di vita.
E con questo, tante altre parentesi.
Perché so farlo soltanto in questo modo: apro e chiudo ogni cosa, nello stesso preciso momento.

Quello che mi ha visto diventare più grande, più donna, più forte. Ma anche quello che mi fatto capire quanto ancora potessi essere debole, senza per questo vergognarmene. 

Quello che mi ha visto credere in un amore che non c’era. Per poi applaudire, forte, al trionfo di quello degli altri. Quello che mi ha visto prendere e poi lasciar perdere. Quello che mi ha visto lottare per degli ideali, per poi capire che ad ognuno spetta la verità che i propri occhi sono in grado di osservare. Quello che mi ha visto vincere, ma anche perdere, tante volte.

Quello che mi visto sorridere, ridere a crepapelle, piangere da inondare un edificio, star male nel silenzio di una stanza che non emetteva alcun’eco.
Quello in cui la serenità a volte è stata spazzata via dal rammarico di non avercela fatta. Quello in cui certi traguardi che dovevano essere la fine di un percorso ad ostacoli sono stati percepiti come mura ancora più alte, mentre altri come i doni più belli che la vita possa concederti.

Quel pezzo di vita in cui ho dato valore alla solitudine. Ma anche quello in cui quest’ultima ha assunto la parvenza di una spina, quando ho appurato che se nessuno si sarebbe preso cura di me, dovevo farlo da sola, mentre intanto offrivo le mie spalle ai primi che vi si appoggiavano, per poi inarcare le proprie e voltarsi senza mai incrociare più il mio sguardo. Nemmeno per un arrivederci.

Quel pezzo di vita che mi ha arricchito e consumato, allo stesso tempo.

Quello in cui non ho mai avuto veramente paura, così da sembrare una ragazzina arrogante, prepotente, sicura di sé, solo perché volevo dimostrare di non averne, solo perché non potevo più permettermelo, senza dare tante spiegazioni a chi, per indifferenza o disattenzione, non le avrebbe capite comunque. Una che non faceva alcuna fatica ad esprimere un’opinione, a mandare al diavolo, a mettere tutte le cose al proprio posto, lì dov’era giusto che fossero. Ad ascoltare, incoraggiare, ad infondere resilienza, ad essere paziente. Ma ho fatto anche tanta fatica: ad ascoltare quando avrei voluto essere ascoltata. Ad accondiscendere a bugie quando avrei voluto gettare in faccia la verità. Ad ordinare o riparare vasi oramai rotti, quando avrei voluto che qualcuno me li avesse tolti dalle mani. Ad essere resiliente, quando tutto mi avrebbe imposto invece il contrario.

Quel pezzo di vita in cui ho rimproverato a me stessa un eccesso di empatia, di sensibilità, di accondiscendenza. Quello in cui a volte ho concesso ad altri il lusso di rimproverarmelo, quasi fosse un peccato capitale. 

Ho trovato famiglie che ho perso. Ho rischiato di perdere famiglie consolidate di cui poi ho capito di non poterne fare a meno. Ho trovato qualcosa, cui non so ancora dare un nome, ma sa di umanità e ho capito che è bello. Ho trovato qualcosa che avrei voluto trattenere, prima di rivelarsi uno scrigno vuoto e troppo piccolo per poter contenere il mio cuore.

Non so se non ho mai avuto veramente paura o semplicemente volevo mostrare di non averne. Oggi, mentre preparavo il mio terzo caffè della giornata, ho capito che non potevo più mentire e ho ammesso a me stessa di averne tanta, e che il timore di non apparire fragile è umano quasi quanto la voglia di sfidare ogni paura, quasi quanto il bisogno di mostrarsi per quello che si è, per quello che ci si porta dentro, di tanto in tanto. 

Così ho paura.
Di saltare la staccionata.
Di percorrere nuovi sentieri mai calpestati finora.
Di inciampare, di nuovo, sempre negli stessi punti.

C’è solo una cosa di cui non ho avuto mai paura. 
Di apparire allo sguardo dei disattenti una ragazzina arrogante e prepotente. Perché ho capito che sono gli altri, invece, ad averne: quando non riescono a mostrare lo stesso coraggio, quando fa comodo per incapacità di comprendere quella sicurezza che ti sei dovuta cucire addosso quando hai capito che si è sempre soli quando ci si getta nel mondo, con premura o con tutta la veemenza che ti appartiene.

Non ho mai avuto paura.
Di offrire il mio cuore, anche rischiando di farmelo restituire in pezzi.
Di seguirlo, anche quando mi dice di attraversare sentieri ripidi e bui.
Di esserlo, il mio cuore.
In tutte le sue forme.
In ogni lacrima, così come in ogni suo sorriso.
In tutti i suoi punti di forza, ed in ogni sua debolezza.

É questo che le mie parole volevano dirmi ed io non potevo aspettare: che le devo cacciar fuori, sempre, perché io sono loro tanto quanto loro sono me.
Di non aver fretta di divorare il mondo, ma di cominciare ad addentarlo a piccoli morsi, dopo un lungo periodo di astinenza.
E di non fermarmi, mai.
Anche quando avrà un cattivo sapore, quando non riuscirai a deglutire, quando ne avresti preferito di gran lunga un altro.
Che tutto ci forma e ci consuma, al contempo.
Ma niente deve trasformarci in qualcosa che non siamo.

Cómete el mundo, sento sussurrare.
Ed io prometto soltanto una cosa: ci provo, perché non ho paura.

domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.

mercoledì 25 marzo 2015

Una corsa dietro l'angolo

E così, senza che l'avessi progettato, ho cambiato le mie abitudini.
Sveglia molto presto, corsa per prendere il treno impigliando le braccia tra i fili degli auricolari mentre tento di infilare nelle tasche del cappotto tutto ciò che considero sia prioritario, nonostante ci impieghi puntualmente quindici minuti per afferrare qualcosa, facendo cascare tutte le altre. Posto accanto al finestrino, per aspettare quell'edificio che spunta in lontananza e che mi dice che sono arrivata, sempre nel momento in cui avrei voluto continuare la lettura del mio libro.

Condivido lo stress di uno ufficio ed un caffè, che non è come quello che prepara mia madre, ma è buono lo stesso. L'aroma mi penetra nelle narici e mi sveglia dal mio consueto assopimento mattutino. 
Ho abbandonato l'insana abitudine di procrastinare alla notte tutto ciò che non potevo fare di giorno, come rassettare, fare lavatrici, anche dedicarmi a me stessa. Adesso lo faccio dopo il lavoro, quando il sole non è alto, ma ancora emana luce, calando pian piano, rendendo il cielo rosa  e i primi fiori che sbocciano ancora più evidenti agli occhi dei passanti.

Ho preso l'abitudine di correre almeno un'ora al giorno, senza cianfrusaglie nelle tasche del cappotto, fili di auricolari che si intrecciano e borse pesanti. Lontana dai clacson, dalla frenesia della gente che spinge per prendere posto in un vagone, da quella parte di me che credeva di essere pigra e che non aveva mai ammesso che in realtà il non prendersi cura di sé costruendosi l'alibi del non aver tempo è la più alta forma di egoismo verso se stessi. Quando il sole sta per tramontare, le madri rincasano, i bambini tornano da scuola. Accanto al fiume, che riflette il rosa del cielo, pur essendo ancora coperto da un manto di foglie ingiallite.

Ogni tanto mi fermo su di una panchina per prendere fiato, mentre gli uomini del quartiere passeggiano con i propri cani ed i ragazzini giocano a calcetto in un campetto poco distante, riuscendone ad udire gli stramazzi. 

Ed è proprio l'altro giorno che ponendo lo sguardo in alto, perdendomi tra il rosa, il rosso e l'arancione di un cielo incredibilmente terso, ho realizzato quanto in fondo mi sia costata tutta questa normalità, ma quanto, in fondo, tutta quella vita precedente mi sia stata cara al punto da non farmi mai perdere l'entusiasmo e la voglia di proseguire, non essendomi mai lasciata andare al pensiero del non-ce-la-farò-mai. 

Ed è quella vita, che a tratti mi sembrava così ostinata nel suo tentativo di imporsi nonostante cercassi di scacciarla, quella che oggi sembra quasi appartenere ad un'altra persona tanto mi sembri distante, quella fatta di volti di plastica, di occhi che ogni tanto vorrei incrociare anche solo per capire se ne sia valsa la pena, di parole catturate dal vento e rese concimi per gli uccelli, di gesti che hai compiuto solo tu e che rifaresti, milioni di volte, perché giusti ora come allora, quella vita, proprio quella, mi ha  insegnato che le abitudini si distruggono, tutte.

Lo farai tu da sola, o sarà il tempo a farlo al tuo posto. 
E non è sempre detto che le precedenti siano state migliori o peggiori, ti abbiano resa una persona più o meno felice di quelle che seguiranno. 
Saranno uguali, nel momento della loro creazione, perché combaceranno esattamente al momento di vita e a quell'inevitabile passaggio di crescita, o piuttosto, a quello che sei diventata grazie a quelle che c'erano prima.

Ma c'è un'abitudine che è sempre attuale e non vorrò perdere mai: il dedicarmi a me stessa, sotto qualsiasi forma. 

Che significhi correre sotto un cielo rosa, leggere un libro accanto ai finestrini appannati di un vecchio vagone, smettere di pensare a come sarebbe andata a finire perchè se non inizia è già finita e decidere una nuova partenza. La tua.