Ad un certo punto ho smesso di scrivere e ho cominciato a parlare. Ma ad un tratto ho temuto che le mie parole andassero in un'unica direzione, in quel vicolo cieco noto a tutti al di fuori di me, da cui tutti pian piano uscivano per prendere altre strade, restando sola in una strada che come fine aveva una caterva di mattoni posizionati in malo modo gli uni sugli altri, assorbendo montagne di parole, le mie, che faticavano a trovare un esatto allineamento, per poi evaporare attraverso le fessure di quei mattoni, raggiungendo le nuvole, che nel loro scomporsi e ricomporsi, lasciando che l'immaginazione disegnasse volti, sagome, figure strambe, non davano a me mai una risposta. E allora ho ricominciato a scrivere. Ho scritto tutto, forse troppo, ho scritto di tutti o forse di nessuno. Ho scritto pure di te sperando di raggiungerti nonostante la consapevolezza che tu forse non abbia mai letto una sola riga o che forse, mentre lo facevi, tu non l'abbia capito. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in luoghi troppo rumorosi, in cui le mie parole si sarebbero altrimenti disperse tra le altre senza lasciare alcuna traccia, come un foglio di carta gettato nel fuoco insieme agli altri per alimentare quella fiamma che sarebbe presto divenuta una montagna di cenere. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in quelle persone che all'ascolto delle mie parole dimostravano di non capirmi, forse di fingere addirittura di ascoltarmi. Ho scritto e non me ne pento, sebbene le mie parole non abbiano raggiunto quei luoghi che avevo prefissato come ultime destinazioni, perché alla fine hanno raggiunto me, una destinazione inesplorata quanto inaspettata ma di certo la più importante. Ed è per questo che ho smesso di scrivere con l'intento di raggiungere luoghi o persone in cui ho capito, solo con il tempo, che mi sarebbe stato vietato l'accesso, qualunque forma di comunicazione avessi scelto. Ed è per questo che ho smesso di osservare chi proponeva un linguaggio differente dal mio cercando di emularli, di quelli che si capiscono senza doverli decifrare, di quelli che però spesso io fatico a comprendere lo stesso. Ho smesso di specchiarmi in quegli occhi in cui non riuscivo ad immaginare nemmeno la mia immagine riflessa, di insinuarmi in luoghi in cui non avrei avuto il mio spazio nemmeno se l'avessi ritagliato in un angolo strettissimo, di cogliere risposte in dei silenzi che in effetti non dicevano nulla. Ho smesso di credere anche a te, perché tu sei rumore, sei il rosso di un tramonto che poco dopo lascia spazio alle scure tinte dell'imbrunire, sei il giallo delle foglie d'autunno, sei uno spazio ampio contornato da mura di cinta, io sono invece silenzio, il rosa di un'alba che cede il passo ad un nuovo mattino, un gelido inverno che si alterna con fresche primavere, uno spazio piccolo ma mai recintato ove è possibile che lo sguardo si perda senza scorgere la fine, ma nemmeno l'inizio. E quindi ho capito che talvolta dove non arrivano le parole che germogliano dal cuore, per sprofondare nello stomaco e risalire con estrema veemenza attraverso la bocca, non possono nemmeno quelle scritte aventi la stessa radice. Perché al di là di quale modalità si scelga, le parole arrivano se un cuore sia aperto abbastanza per coglierle. Spesso così aperto da sfamarsi persino di frasi leggermente sussurrate, talvolta addirittura di silenzi.
Ma un cuore chiuso non riuscirà a recepire nemmeno le urla.
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