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martedì 1 luglio 2014

E poi fuori c'era il sole.

Sono alla guida di una macchina. Cerco di tenere il controllo, ma sembra quasi che i comandi non rispondano. Tento di frenare, invano. Allora lascio che sia la macchina a portarmi verso mete inesplorate, cercando di mantenere una velocità moderata.

Le strade sono larghe, sembrano quelle delle praterie americane, dove ogni tanto spunta una casetta che sembra quasi deturpare quel paesaggio incontaminato e quella surreale desolazione che sembra accompagnarti sulle note de La Vie en Rose, che sa di una malinconica solitudine che paradossalmente però non ci lascia soli.

Percorro pianure, dossi, mi ritrovo su colline che in salita ed in discesa riesco ad attraversare con la medesima andatura. Fin quando la macchina mi conduce in un dirupo e di blocco si spegne.

Resto sola ed impaurita per pochi secondi, fin quando alla ricerca di qualcosa che potesse farmi proseguire, trovo dei binari e sento il fischio di un treno in lontananza. Non ricordo quando e come ci sia salita. Sta di fatto che mi accomodo in uno dei vagoni. Sono sola, non c'è anima viva, come se quel treno stesse trasportando soltanto me, con i vestiti sporchi di terriccio, ed i capelli arruffati.

Fin quando entra lui, che mi si siede di fronte. Mi guarda ed anch'io lo guardo. Avrò forse pensato di poter proseguire il viaggio insieme a qualcuno, perché quello sguardo posatosi su di me mi avrà forse fatto pensare di essere coccolata, quasi al sicuro.

Poi ad un certo punto guardiamo fuori, ed i finestrini cominciano pian piano a bagnarsi. Gli schizzi di pioggia sono fitti ed inarrestabili, ma delicati, senza lasciar prevedere alcuna tempesta violenta.

Allora lui mi prende le mani e mi dice di stare tranquilla, perché tutto andrà per il meglio, perché lui non mi avrebbe mai lasciato sola.

Nel momento in cui tentavo di far mie quelle parole, di raccoglierle dentro di me forse per riproporle, per dire al capotreno di non fermarsi più, ma di proseguire perché non volevo che nessuno scendesse ad una delle prossime stazioni, mi sono svegliata.

Ho aperto gli occhi e ho realizzato di non aver materialmente guidato nessuna macchina. Non ero finita in alcun dirupo, non ero salita su nessun treno, nessuno mi aveva stretto le mani dicendomi che non sarei stata sola. E poi fuori c'era il sole.

Eppure sentivo che era reale.

mercoledì 11 giugno 2014

Un giorno, così, senza preavviso.

Mentre tutti gli altri genitori portavano i loro figli al parco giochi, quando avevo cinque anni i miei mi portavano in parecchi ospedali. Ne ho visitati tanti, anche fuori regione. Ma nessun specialista ha alleviato la preoccupazione dei miei genitori, non venendo mai a capo di un referto concreto. Rigurgitavo tutto ciò che ingerivo, per più di un anno, ogni singolo giorno, non ricordo per quanto l'abbia fatto.
Mia madre e mia nonna pregavano tutti i giorni, ed io mi sentivo in colpa, già a cinque anni, delle loro sofferenze. Così tentavo strade alternative. Inventavo per esempio che la causa fosse il televisore posizionato nell'angolo della stanza. Era nero e durante la notte immaginavo fosse un mostro. Loro lo rimossero, ma ovviamente io continuavo a vomitare. Allora dissi che avevo cominciato da quando avevo visto Casper. Mi comprarono tante video cassette, di ogni singolo cartone animato esistente, che avesse una trama felice, così da dimenticare quel fantasmino che in fondo mi era simpatico, ma non potevo dirlo. Nemmeno quest'espediente diede l'esito sperato. Capendo che additare cause poco veritiere non avrebbe portato a nulla, tentai da sola di farmi passare questo "qualcosa", ignaro persino a me stessa. 
Dopo aver cenato, prima di addormentarmi, se mia madre era intenta a lavare i piatti in cucina, tentavo di associare ad ogni rumore di stoviglie un suono, così da immaginare una melodia che mi avrebbe cullata come una dolce ninna nanna. Nemmeno quest'esperimento ebbe successo. "Antonia, mi raccomando, non vomitare anche questo!" Più me lo ripetevano, e più puntualmente riaccadeva. Più sentivo quella retorica raccomandazione, più mi sentivo in colpa, perché sapevo che avrei disubbidito, pur contrariamente alla mia volontà, tanto che talvolta rassicuravo mia madre dicendole: "mamma, tranquilla, stasera non lo faccio", oppure, di fronte l'evidenza: "mamma, però sto guarendo, ho vomitato solo un poco".

Poi un bel giorno mi è passato. Così, senza preavviso. Non ricordo quel giorno, ma mi piace pensare che sia stato un giorno bellissimo, di quelli di sole pieno, all'inizio della primavera, magari domenica, l'unica giornata in cui ci si riposa ed i tuoi ti infilano in macchina per portarti al parco giochi. Quel giorno in cui forse ho inconsciamente capito che, nonostante avessimo cambiato casa, l'amore dei miei genitori non mi avrebbe mai lasciata sola, ovunque fossimo andati. Anche se prima vivevo nell'appartamento sopra quello dei miei nonni che mi hanno cresciuta e viziata come si fa con ogni primo nipote, loro ci sarebbero sempre stati, anche dopo la morte. 

E questo è stato a grandi linee lo schema che ho seguito per tutta la vita. Mi ammalo di qualcosa e mi sento in colpa verso me stessa, che sia innamoramento, insoddisfazione, delusione, solitudine. E mi invento scuse, che irrimediabilmente mi daranno torto. Allora cerco il modo per curarmi. Le provo tutte, dal lasciarmi condizionare dall'oroscopo alla meditazione alla vita sfrenata per non pensare. Ma basta poco per ricaderci. Faccio finta di far tesoro delle raccomandazioni, ma riesco a disubbidire con un'innata maestria. 
Poi un giorno mi sveglio, e tutto sembra un lontano ricordo che nemmeno mi sfiora. Così, senza preavviso, proprio quando ho smesso di cercare medicine, leggendone perfino il foglietto illustrativo. Ed il cielo mi sembra più blu, il sole più caldo, il lunedì mi sembra una domenica, ogni luogo un parco ricreativo. E' quel giorno in cui scopri che sei abbastanza grande da capire che non servono certezze ogni giorno, l'amore lo è già di per sé, e te lo fai bastare. Quello verso te stessa. Quello che ti concede ogni meraviglia.