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lunedì 11 agosto 2014

Imperfezioni.

L'altra mattina ero intenta ad asciugare le posate del ristorante, quando ad un tratto mi sono soffermata ad osservare i volti dei clienti in sala e dei miei colleghi, sembrando questi ultimi addirittura più gioviali dei primi.

Non so se lo fossero davvero, anzi credo che qualcuno nemmeno se lo domandi più. Fa parte di quel sistema che ti inghiottisce e non ricordi nemmeno quando e come sia capitato che ti sia trasformato in un essere robotico tuttofare. Posso saltare da una postazione all'altra, invitare i clienti ad entrare, preparare insalate, sparecchiare, chiedere loro se gradiscono un dessert, ma c'è una cosa che non sono in grado di fare su richiesta: avere un sorriso stampato sulla faccia perché così si deve fare. Ed è per questo che nascosta nell'angolo ad assicurarmi che piatti e posate fossero puliti per la clientela stavo bene: perché non dovevo pronunciare nessuna frase di circostanza, né sorridere come i miei colleghi. Un po' come quando mi rifugio in questo spazio digitale che racconta di quei dettagli e pensieri che messi insieme raccolgono la parte più autentica della mia vita.

E proprio mentre ero lì a lucidare l'ennesima forchetta, pensavo quando entrai in quel posto oramai un anno fa, con quell'unica aspettativa che accomuna chiunque approda in terra d'Albione: fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Da allora è cominciata la mia corsa contro il tempo, quella che mi ha visto talvolta diventare grande nonostante avessi le ginocchia tremolanti, altre piccola nonostante la forza di un leone che come consueto tardo a tirar fuori. Sono entrata in quel luogo senza nessuna speranza, ma ogni giorno, mentre ero in cassa o a pulire forchette o a servire qualche cliente, la mia mente non si fermava mai. Pensavo, ogni giorno, a quello che potevo creare. Ed è lì che si sono compattati i miei desideri, che ho stabilito quali fossero le mie priorità, che ho alimentato le mie ambizioni, nonostante talvolta per la fatica vacillassero. Ma c'era una cosa che le ha sempre tenute insieme: la mia innata tendenza a riprodurre all'esterno il mondo ideale che sognavo per me, il non lasciare che niente al mondo ostacolasse ciò che di buono attendessi, e continuo ad aspettare. Sono entrata in quel posto in punta di piedi, ed in silenzio, e continuo a non far troppo rumore, perché ci tengo a mantenere i miei tempi, a non omologarmi ad una dimensione troppo veloce che non mi appartiene, perché c'è un olezzo di qualcosa che non so cos'è, so solo che è poco umano.

Questi mesi sono trascorsi in fretta. L'estate ha lasciato spazio alle foglie d'autunno che hanno ceduto il passo ad un gelido inverno che è stato poi spazzato via da una fresca brezza primaverile trasformatasi poi di nuovo in una breve ed inconsueta estate londinese, in cui ci sono giorni in cui il cielo sembra presagire l'inizio di un nuovo autunno, altri in cui quest'ultimo sembra ancora lontano. Non c'è niente che non rifarei, nonostante i sacrifici e qualche senso di colpa che ogni tanto, di notte, torna a farmi compagnia come fosse uno spettro che ti piomba dal soffitto, di cui non puoi far altro che tollerarne l'eco. Non c'è niente che non rifarei, nemmeno quelli che la gente continua a chiamare errori, ma che sono per me la parte più bella della vita. E non perché ti insegnano a non sbagliare più, ma perché ti portano a toccare con mano la tua reale dimensione, quella che sa di un'umanità che vorresti vedere in tanti altri che sembrano perfetti solo perché non commettono mai errori, ma sono invece dotati della più severa delle imperfezioni: quella che ti racchiude nello schema del si può-non si può, non facendoti godere mai abbastanza.

Non tratterò mai i miei "errori" con superficialità, perché non sarà mai vero che non me ne frega niente di loro. Se potessi li farei ancora, e ancora, e ancora, non solo per sentire l'olezzo del senso di colpa, ma avvertire il profumo di umanità dentro il mio cuore che mi spinge a chiedere perdono, ogni volta, anzitutto a me stessa.

Ed è per questo che del posto in cui lavoro poco mi importa. Perché ho avuto, chiamiamola fortuna, di mantenere integre le mie priorità, di non scendere mai a futili compromessi, di entrare ma mai fino in fondo in un sistema che non mi appartiene, quello che infonde il senso di dovere sotteso alla necessità di produrre per guadagnare. Io ho sempre lavorato perché avevo necessità di creare qualcosa di diverso. Chi crea non è suddito né li detiene, è semplicemente padrone di sé e fuori da quel contesto in cui non gli si può chiedere di ridere, perché quello è il linguaggio più intimo di un'anima. Quella che nessuno può controllare, quella che commette errori, quella che è bella perché è così, semplicemente imperfetta.

Quella mattina, nascosta in quell'angolo, nessuno mai dei presenti mi avrebbe chiesto a cosa pensassi.
In realtà pensavo a quanto sia semplice cancellare momenti etichettati semplicisticamente come "errori" come fosse la cartella di posta indesiderata, piuttosto che conviverci accettandoli come parte integrante di vita, quella che possiamo scegliere di cambiare o che può cambiare noi. Pensavo al modo di tenere in vita le priorità nonostante gli ostacoli, senza commettere l'errore di chi desidera ardentemente qualcosa e quando è ad un passo dall'ottenerlo molla perché ha paura.

Pensavo che nella vita si fanno delle scelte, ed io ho sempre scelto, ma qualche volta avrei voluto che qualcuno lo facesse al mio posto per sentirmi meno colpevole, forse. 

domenica 27 aprile 2014

L'ennesima lezione di vita.

"Buongiorno, può dirmi il numero del suo tavolo, per favore?"
"Ehm... sono seduto lì", indicando col dito un tavolo così lontano che mi è di solito impossibile da vedere, considerando che il ristorante in cui lavoro ha capienza per circa novanta tavoli, ed il sistema, noto per chi è solito frequentare, è ordinare alla cassa dicendo il numero del tavolo ed attendere seduti al proprio posto che il cibo arrivi.
"Mi scusi, può andare a controllare il numero del tavolo, la aspetto alla cassa".
Con aria sconfortata, si dirigono verso il tavolo. Capita spesso, nonostante tutto, che sbaglino a leggerlo. E altrettanto spesso, non ho altro modo che rivolgermi brutalmente dicendo loro "Se il numero è sbagliato, il cibo non arriva", anche se in realtà quello che mi toccherebbe fare è gironzolare tra passeggini e folle impazzite di bevitori di coca cola, da riempire almeno cinque volte alla drinks machine, per cercare il tavolo del malcapitato. Una volta ottenuto questo maledetto numero comincia l'impresa più complicata: ordinare.
Il ristorante dove lavoro è noto per preparare pollo alla griglia. Non è solo noto, diciamo che, in diversi modi, fa soltanto quello. Con l'aggiunta di salse, la maggior parte piccanti, ed è il cliente a scegliere quanto piccante lo vuole.

"Come lo vuole?"
"Normale"
"Si, dico, quanto piccante?"
"Si, piccante"
Allora non mi resta altro che allungare la mano per mostrare sul menù le diverse gradazioni.
"Sì, allora LemonAndHerb", l'unica salsa non piccante.

Nonostante rilegga due volte l'ordine, dopo aver pagato, spesso si creano incomprensioni. Del tipo che volevano le patatine e non sono arrivate perchè pensavano che arrivassero comunque anche senza averle ordinate. E spesso urlano, e sì, mi è arrivata anche qualche ricevuta in pieno viso. Si dice che il cliente ha sempre ragione, la loro si sarà persa tra le ali del pollo.

L'altro giorno un mio superiore mi ha detto che devo essere "engaging", che letteralmente significa coinvolgente, simpatica, insomma assumere un atteggiamento che attragga il cliente, nonostante mi sforzi ad essere sempre gentile, nonostante tutto. Ma la cosa che più mi ha sorpreso è stato il modo in cui pensava di spronarmi ad esserlo. Essendo a conoscenza del fatto che "scrivo", pur non avendo mai letto una sola riga, mi ha detto che dovrei sapere cosa significhi coinvolgere qualcuno, quasi come se volesse trovare una similitudine tra l'attrarre un cliente e catturare l'attenzione di un lettore. La cosa mi ha fatto rabbrividire. Gli ho detto che io non sono "engaging" di natura, ma dopo un po' ho fatto semplicemente un cenno d'approvazione, e sono ritornata al mio posto. Avrei dovuto spiegargli che vendere pollo mi fa sopravvivere in una città così grande, che comporta tante spese, tra cui quelle in cui ho deciso di investire il mio futuro. Ma scrivere, quando posso, mi fa vivere, come se fossi in cima ad una montagna a respirare aria fresca, o tornare a galla dopo una lunga apnea. Nelle cose che amo mi ci tuffo dentro, ci metto il cuore perchè è così che si fa nelle cose verso cui nutri una passione, spesso inesplicabile. Ma nelle altre, no. In quelle ci metto il sudore, le braccia, la mente, le gambe che a fine giornata riescono a reggermi a stento. Non so bene se questo sia qualcosa che abbia a che vedere con i limiti, forse sì, o semplicemente qualcosa di naturale su cui, sebbene ci lavorassi, non riuscirei mai ad attutirla. E non so se nelle mie righe il lettore riscontra un atteggiamento "engaging". Ma io, prima di far scorrere le mie dita sulla tastiera, nemmeno ci penso, perchè forse nell'amore vero, qualsiasi forma abbia, non serve, nemmeno forse lo richiede. Ma mentre tutti questi pensieri frullavano nella mia testa, senza avere il coraggio di dire la verità a lui, così convinto della sia affermazione, ho capito una cosa: per sopravvivere in un mondo così denso di angolazioni e prospettive differenti, bisogna essere come pianeti. Così flessibili da vagare in galassie spesso tra loro distanti. Ma nonostante il moto rotatorio, non sempre riusciremo ad approdarci. Pianteremo semi che porteranno a segni di vita soltanto in quelli in cui sarà possibile scorgere una qualche compatibilità, dettata dall'atmosfera, dalle forme, dal cuore.

E mentre parlava, lui me lo stava insegnando ed io ho appreso l'ennesima lezione.