mercoledì 21 maggio 2014

Come margherite sul comodino.

L'altro giorno nel ristorante dove lavoro, è entrato un uomo su di una sedia a rotelle, senza braccia, né gambe. Ho trattenuto le lacrime per timore che qualcuno se ne accorgesse, ed anche perché credo che uomini costretti a convivere con una tale disgrazia, non abbiano bisogno della commiserazione di estranei.
Poi ho ammirato la donna che spingeva la sua sedia a rotelle, sino a trovargli la posizione a lui più comoda. Ho invidiato il suo sguardo fiero, quasi come se volesse dire che il suo uomo, nonostante tutto, non aveva meno degli altri. E ha soppiantato le sue manchevolezze imboccandolo con disinvoltura, portando il cibo alla sua bocca soltanto nell'attesa che lui ingoiasse la sua porzione. Gli ha pulito la bocca con i tovaglioli, scrollato le briciole dalle sue gambe. La loro naturalezza faceva sembrare che fosse una situazione normale. Ma poi, pensandoci, ho capito che nonostante la triste storia di quell'uomo, in fondo lo fosse davvero. Ho pensato che quella donna più che l'etichetta di eroina, di donna che si immola per una causa giusta, avrebbe preferito quella di compagna e basta. Perché nell'amore è così: non devi mai lasciare che l'altro pensi di non essere abbastanza, e se lo fa, devi cercare di attutire le sue mancanze, offrendogli tutto quello che hai.

Quando lui va a fare la spesa, compra sempre due confezioni di yogurt: una alla fragola, un'altra al gusto di pesca. E mi dice che quest'ultima è per me, l'altra l'ha comprata soltanto per lui, perché sa che non mangio yogurt alla fragola, non mi piacciono. Quando ero piccola li chiamavo "yogurt rosa", ed ancora adesso, per farglielo capire, li chiamo "pink". Lui se ne ricorda sempre. Come si ricorda che amo il succo d'arancia, e ne compra sempre una bottiglia, insieme al succo di mela, che di solito non bevevo prima, ma adesso ho cominciato a farlo con gusto. Come si è ricordato quanto amassi le margherite, ed un giorno che stavo male, è arrivato con un vaso, poggiandomelo sul comodino.
Verso le sei del pomeriggio se sono a casa mi chiede sempre cosa desidero per cena. Se non ci sono, me ne conserva un piatto, proprio come farebbe mia madre.
Guardandomi talvolta mangiare la pastina in brodo, diceva che fosse soltanto un po' di pasta in una ciotola d'acqua. Ma una sera, faceva freddo, e l'abbiamo mangiata insieme. Per lui, non è stata tanto male.
O come quando mi ha regalato una macchina del caffè, perché così, a suo dire, avrei potuto preparare un espresso, non continuando con le lamentele su quanto fosse disgustoso il caffè made in England. O come quella volta che ha seguito uno spettacolo al teatro in lingua italiana, perché sapeva quanto ci tenessi, nonostante non capisca bene l'italiano.

Oggi pomeriggio gli uccelli non smettevano di cinguettare e all'orizzonte si intravedeva un cielo rosa misto all'arancione, di quelli che avrebbero ceduto il passo ad un tramonto meraviglioso, se non fosse stato per le nuvole che, come di consueto, nascondevano il Sole, come una superficie di panna montata. E proprio mentre il canto degli uccelli entrava come musica dalla finestra della mia stanza, pensavo a quanti capitoli della mia vita abbia aperto e poi chiuso, e a quelli che ancora non conosco e che dovrò aprire, per poi chiuderli ancora. Ma soprattutto ho tentato di dare un nome ed un volto a quest'attuale capitolo della mia vita, ed nelle mie orecchie non sentivo altro che il suono del suo nome, nella mia mente immaginavo soltanto il suo volto.
E ho pensato, che nonostante le tangibili diversità, non fossimo così diversi da quella coppia entrata nel ristorante, perché anche noi, come loro, tentiamo di non far mancare nulla all'altro, ed offriamo ciò che abbiamo per sentirci sempre all'altezza l'un dell'altro.

Ed ogni giorno imparo qualcosa in più. Ho imparato che l'amore è quando lui ti riempie il frigo di yogurt "arancioni", perché i "rosa" non ti piacciono. E' quando tu li compri "rosa", soltanto per lui. E' quando assaggi succhi che non avevi mai provato, ma che pian piano impari a gustare, come del nettare degli dei. Sono petali di margherite, in un giorno di sole, poggiati sul comodino, per alleviare il tuo dolore. E' chiederti cosa vuoi per cena, perché mangiare da soli è triste, in due si sta meglio. E' condividere un pezzo di cioccolato e lasciargli l'ultimo pezzo. E' imparare a farsi piacere ciò che prima si ignorava per partito preso. L'amore è dire "adesso so cosa scrivere sul mio blog, ma lo faccio dopo", e lui che ti risponde: "No, fallo ora, altrimenti perdi la tua ispirazione".

Questa fase della mia vita si chiama: ritrovarsi nei gesti più semplici.









giovedì 15 maggio 2014

Quando gli schizzi di pioggia bagnano i vetri.

L'altro giorno, mentre fuori pioveva a dirotto, ho spulciato nella cesta dei ricordi.
Sembra quasi che pioggia e ricordi vadano insieme, come se il ricordo rispolverato in un giorno di sole non abbia lo stesso sapore. Come se siano gli schizzi di pioggia a bagnare i vetri dei finestroni della tua stanza a richiamare i ricordi, con il loro tintinnio simile al richiamo delle lucciole.

Ho cominciato a vedere vecchi album di fotografie, per poi arrivare a scorrere di anno in anno il mio profilo su facebook, interamente.
Sono partita dall'ultimo post sino ad arrivare al primo. Ed è attraverso le cose che scrivo o che scrivevo, attraverso i links che pubblicavo, le mie fotografie, che mi sono resa conto di quanto io sia cambiata, ed il mondo intorno a me.

Rileggendo qualcosa ho avvertito una sensazione di imbarazzo, quasi come se pensassi "perchè mai ho scritto qualcosa di così imbarazzante, adesso non lo rifarei più". Ho scoperto che tea in polacco si dice "herbata", perché l'avevo menzionato durante il mio Erasmus a Varsavia, dopo quasi cinque anni l'avevo dimenticato, ma mi ha fatto piacere riscoprirlo, nonostante forse saperlo per qualcuno sembrerà superfluo. Ho rivisto fotografie di periodi andati, con persone che forse non rivedrò mai più nella mia vita, altre invece con chi mi è stato accanto da sempre, le stesse che porto sempre con me. Ho rivisto fotografie di vecchie vacanze, di feste, di avvenimenti importanti. Allo scorrere di ogni fotografia, tentavo di ricollegare un possibile stato d'animo del momento, e fuori ne uscito un miscuglio di emozioni contrastanti: lì ero felice e spensierata; lì triste e vogliosa di cambiare; lì ero piccola ed ingenua; lì era l'inizio di un nuovo cammino; lì semplicemente non pensavo.
Ho riletto commenti, anche i primi in cui per esprimere una risata era un "hihihi" che poi è diventato un "ahahahaha" e poi un "auhauahauahauahau", sciocchezze, dettagli.
O riletto i posts sul mio blog, il primo e poi l'ultimo. Qualche volta, ricordando, ho riso, per altre ho provato imbarazzo, per altre tristezza, per altre commozione. In alcuni casi ho anche pensato "finalmente è passata".

Sembrava quasi che la fine non arrivasse mai, invece poi è arrivata, anche prima delle mie aspettative. E ho rivolto lo sguardo alle margherite che sono sul comodino, pensando che avevo sempre desiderato comprarle, ma qualcuno me le ha regalate prima che io lo facessi, rubandomi il tempo e superando le mie aspettative.

E quindi ho pensato che il senso del ricordo si racchiuda in tutto questo. Piacevole o meno che sia, ruba il tuo tempo ma può superare le tue aspettative. Ti fa credere che non lo faresti mai più, ma in realtà è stata la cosa migliore che potessi fare. Ti fa riscoprire dettagli che avevi rimosso, che sebbene superflui, ti donano un sorriso e le ricollochi nella cesta. A random ti fa rivivere pezzi di vita andati, dando valore a chi oggi c'è ancora e capendo quanto, persone andate, abbiano avuto soltanto un ruolo secondario nella tua vita, sebbene tu a quei tempi gli abbia dato il ruolo da protagonista. E' un viaggio attraverso stati d'animo ed emozioni, alcuni da dimenticare, altri da ripetere altre dieci, cento, mille volte ancora. E' un modo per riconoscersi delle colpe, alcune delle quali verranno commesse ancora in un circolo vizioso da cui non si esce, altre che non rifaremo più perchè in fondo adesso siamo cresciuti.
Ed è mentre pensiamo che siano stati gli altri i protagonisti dei nostri ricordi, che invece saremo noi a porci come protagonisti della nostra storia.

Le persone che incontriamo ci permettono di recitarla, in balia di colpi di scena o finali già visti, ma mentre ne scorriamo le fasi, siamo noi a raccontarla ed i primi a farne parte.
Fin quando gli schizzi di pioggia hanno smesso di bagnare i vetri, e mi sono addormentata.

mercoledì 30 aprile 2014

Scelgo il numero sette.

Londra è una porta aperta da cui le persone entrano ed escono di continuo, come un sipario che si apre e si chiude quando la performance volge al termine. E' una porta aperta a persone che, una volta varcata la soglia, divengono numeri imprecisi, tutte uguali, sebbene diverse.
Ed è all'importanza delle persone che pensavo, come essa cambi a seconda dei luoghi calpestati. 
Sono di un paese del Sud Italia, in cui le persone si conoscono pressappoco tutte, in cui se chiedi una sigaretta ti viene offerto l'intero pacchetto, in cui i ristoranti sono pieni solo nel fine settimana perché si pranza o si cena fuori soltanto nei giorni di festa, e quelli sono una rarità. Sono di un paese in cui le mancanze si avvertono, gli abbracci sono forti, le parole sono importanti, le persone non sono tutte uguali, non sono numeri, ma hanno un volto, un nome, una propria identità. Sono di un paese in cui lo scorrere del tempo si avverte, in cui le persone che incontri divengono tuoi amici ed è probabile che te li porterai con te per l'intera vita. Sono di un paese che è una porta piccola, di quelle da cui entri sgattaiolando su di un piccolo sentiero che porta al mare, alla spiaggia, al fresco venticello tipico del mese di maggio, in cui, puoi star seduto per ore a leggere un libro mentre tiepidi raggi di sole riscaldano la tua pelle, senza mai bruciarti, ritrovando te stesso nei sorrisi della gente, la quiete nel sole che man mano si nasconde per dar spazio alla luna. 
E pensavo a quanto in fondo mi stia abituando allo scorrere veloce delle persone, che oggi ci sono, domani non più. Come se fosse una prerogativa di una città dove il tempo si percepisce in maniera diversa, dove la calma è quasi un'utopia, in cui il lunedì non è così diverso dal sabato. E pensavo alla differenza tra bisogno ed amore, inteso nelle sue mille sfaccettature. Al cospetto del primo saremo in fondo tutti uguali, numeri da addizionare, moltiplicare, dividere e talvolta sottrarre. Pensavo a quanto il bisogno sia in grado di sminuzzare il tempo, fornire la stessa maschera a tutti coloro che sceglieranno di tuffarvisi dentro, quanto sia in grado di chiudere porte con le catene, quelle stesse che per una forza, definiamola naturale, verranno spezzate. Al cospetto dell'amore anche un singolo attimo avrà importanza, anche un dettaglio varrà, per definire volti, sguardi o forme simili, ma mai completamente uguali. Ed è al suo cospetto che tutti i numeri si azzerano, è davanti a lui che le porte resteranno sempre aperte, per far entrare persone, per imparare, talvolta, anche a lasciare andare. 
Ed in questo continuo riflusso di persone, pensavo che la mia è la città dell'amore, Londra quella del bisogno. Ma se devo essere un numero, allora scelgo il numero sette. Perché il doppio suono dentale suona bene, e perché il sette è vicino al dieci, molto distante dall'uno, ma supera il cinque. Perché il sette è abbastanza, mai troppo poco, mai un eccesso. E' un numero che inconsciamente lascia pensare che vi sia un proseguo, anche ai bambini si insegna a contare almeno fino al numero dieci, al sette non ci si ferma mai. E' un numero che si pone a metà strada tra il cinque ed il dieci, tra la pianura e la cima. Ci si può anche fermare, perché in fondo il numero sette è come un giovedì nel corso della settimana: sembra un numero messo lì a caso, ma è bello perché unisce. Non esistono numeri nella prima decina che vantino questa caratteristica. Sembra gli si possa dare quasi il volto di un giovane sorridente che aiuta un'anziana donna ad attraversare la strada, una piccola porta che conduce in cima per guardare dall'alto la bellezza di tutto il paesaggio circostante, sembra quasi avere la freschezza di un vento che spazza via le nuvole, infondendoti la speranza che domani è un giorno nuovo per andare avanti. 
Così si arriva ad essere numeri, senza mai sentircisi. E allora si impara a dare ai numeri un'identità, un volto, un nome. Si impara a sentire le mancanze, lo scorrere impetuoso del tempo che come un uragano fa piazza pulita, lasciando che tutti, prima o poi, escano da quelle porte che l'amore ha lasciato aperte. Si impara ad immaginare il mare, la spiaggia, il sole, nonostante sia tutto molto distante da te. Si impara il modo di creare spazi piccoli in un enorme universo. Si impara il modo di portare amore in cui la natura farebbe sorgere soltanto bisogni. 

Se devo essere un numero, scelgo il numero sette. 

domenica 27 aprile 2014

L'ennesima lezione di vita.

"Buongiorno, può dirmi il numero del suo tavolo, per favore?"
"Ehm... sono seduto lì", indicando col dito un tavolo così lontano che mi è di solito impossibile da vedere, considerando che il ristorante in cui lavoro ha capienza per circa novanta tavoli, ed il sistema, noto per chi è solito frequentare, è ordinare alla cassa dicendo il numero del tavolo ed attendere seduti al proprio posto che il cibo arrivi.
"Mi scusi, può andare a controllare il numero del tavolo, la aspetto alla cassa".
Con aria sconfortata, si dirigono verso il tavolo. Capita spesso, nonostante tutto, che sbaglino a leggerlo. E altrettanto spesso, non ho altro modo che rivolgermi brutalmente dicendo loro "Se il numero è sbagliato, il cibo non arriva", anche se in realtà quello che mi toccherebbe fare è gironzolare tra passeggini e folle impazzite di bevitori di coca cola, da riempire almeno cinque volte alla drinks machine, per cercare il tavolo del malcapitato. Una volta ottenuto questo maledetto numero comincia l'impresa più complicata: ordinare.
Il ristorante dove lavoro è noto per preparare pollo alla griglia. Non è solo noto, diciamo che, in diversi modi, fa soltanto quello. Con l'aggiunta di salse, la maggior parte piccanti, ed è il cliente a scegliere quanto piccante lo vuole.

"Come lo vuole?"
"Normale"
"Si, dico, quanto piccante?"
"Si, piccante"
Allora non mi resta altro che allungare la mano per mostrare sul menù le diverse gradazioni.
"Sì, allora LemonAndHerb", l'unica salsa non piccante.

Nonostante rilegga due volte l'ordine, dopo aver pagato, spesso si creano incomprensioni. Del tipo che volevano le patatine e non sono arrivate perchè pensavano che arrivassero comunque anche senza averle ordinate. E spesso urlano, e sì, mi è arrivata anche qualche ricevuta in pieno viso. Si dice che il cliente ha sempre ragione, la loro si sarà persa tra le ali del pollo.

L'altro giorno un mio superiore mi ha detto che devo essere "engaging", che letteralmente significa coinvolgente, simpatica, insomma assumere un atteggiamento che attragga il cliente, nonostante mi sforzi ad essere sempre gentile, nonostante tutto. Ma la cosa che più mi ha sorpreso è stato il modo in cui pensava di spronarmi ad esserlo. Essendo a conoscenza del fatto che "scrivo", pur non avendo mai letto una sola riga, mi ha detto che dovrei sapere cosa significhi coinvolgere qualcuno, quasi come se volesse trovare una similitudine tra l'attrarre un cliente e catturare l'attenzione di un lettore. La cosa mi ha fatto rabbrividire. Gli ho detto che io non sono "engaging" di natura, ma dopo un po' ho fatto semplicemente un cenno d'approvazione, e sono ritornata al mio posto. Avrei dovuto spiegargli che vendere pollo mi fa sopravvivere in una città così grande, che comporta tante spese, tra cui quelle in cui ho deciso di investire il mio futuro. Ma scrivere, quando posso, mi fa vivere, come se fossi in cima ad una montagna a respirare aria fresca, o tornare a galla dopo una lunga apnea. Nelle cose che amo mi ci tuffo dentro, ci metto il cuore perchè è così che si fa nelle cose verso cui nutri una passione, spesso inesplicabile. Ma nelle altre, no. In quelle ci metto il sudore, le braccia, la mente, le gambe che a fine giornata riescono a reggermi a stento. Non so bene se questo sia qualcosa che abbia a che vedere con i limiti, forse sì, o semplicemente qualcosa di naturale su cui, sebbene ci lavorassi, non riuscirei mai ad attutirla. E non so se nelle mie righe il lettore riscontra un atteggiamento "engaging". Ma io, prima di far scorrere le mie dita sulla tastiera, nemmeno ci penso, perchè forse nell'amore vero, qualsiasi forma abbia, non serve, nemmeno forse lo richiede. Ma mentre tutti questi pensieri frullavano nella mia testa, senza avere il coraggio di dire la verità a lui, così convinto della sia affermazione, ho capito una cosa: per sopravvivere in un mondo così denso di angolazioni e prospettive differenti, bisogna essere come pianeti. Così flessibili da vagare in galassie spesso tra loro distanti. Ma nonostante il moto rotatorio, non sempre riusciremo ad approdarci. Pianteremo semi che porteranno a segni di vita soltanto in quelli in cui sarà possibile scorgere una qualche compatibilità, dettata dall'atmosfera, dalle forme, dal cuore.

E mentre parlava, lui me lo stava insegnando ed io ho appreso l'ennesima lezione.

martedì 15 aprile 2014

Per diventare grande.

L'estate è volata mentre ero intenta a riprendere ciò che di me era andato perduto, emozionandomi per ogni raggio di sole che riscaldava la mia pelle. Ed è passato anche l'autunno con le sue foglie ingiallite, mentre cadevo anch'io, come loro, di tanto in tanto in un'insensata nostalgia, lasciandomi abbracciare da una fresca brezza che non avrei mai pensato arrivasse a toccarmi, ed invece l'ha fatto. Ed è alle spalle anche un freddo inverno, in cui aspettavo la neve che non è mai arrivata ad imbiancare i tetti, intenta a riempire d'inchiostro le pagine di un nuovo diario. E poi, d'un tratto, la primavera, con nuovi colori, profumi ed un Sole nuovo.
E mentre le stagioni scorrevano veloci, cambiavano così anche le mie priorità, le mie giornate ed i miei weekends. Mutavano nella mia totale consapevolezza, cambiando una vita che al contempo stava cambiando me stessa, in una apparente passività che conosceva solo moti attivi, perché ero io in fondo a tenerne i fili. Come una giostra che ti fa girare, ma che va a gettone, solo se ce lo metti dentro.

E allora ho lasciato la mia mondanità, gli aperitivi, le feste, le serate in cui esci a prendere una birra che diventava una tequila con sale e limone, o più di una. Ho lasciato uomini incompresi che avevano nell'armadio ancora lo scheletro di qualche ex che riappariva d'un tratto lasciandomi inerme, suscitandomi la sensazione di non essere mai all'altezza. Ho lasciato che le mie orecchie dimenticassero il fastidioso rumore delle parole "non è scattato nulla, ma vorrei che rimassimo amici". Ho lasciato raffreddare le mani, non accettando più di prendere parte al gioco in cui si tiravano patate bollenti che sceglievo di tenere come souvenir da appoggiare sul comodino, dove avevo l'impressione di vincere, ma alla fine perdevo sempre, già in partenza.

Ho lasciato ciò che si addice, in fondo, ad una ragazza della mia età, perchè ho capito di meritare qualcosa di più. Ho cominciato ad apprezzare a svegliarmi presto, perché spesso a Londra capita di avere un cielo terso solo di buon mattino, lasciando spazio a nuvole grigie nel corso della giornata, ed io non volevo perdermelo. Ho cominciato ad amare quelle giornate in cui termino di lavorare alle quattro, perchè ho tutto il pomeriggio per studiare, scrivere, intrattenermi in quattro chiacchiere senza per forza implorare il cuscino. Ho cominciato ad apprezzare quelle poche giornate di Sole, per fare una passeggiata al parco, anche da sola, per sentire il profumo dei miei pensieri che non lascio mai appassire. Ho cominciato a godere di quelle poche uscite che mi concedo, perché la città sembra sempre più bella, sempre diversa. Ho cominciato ad apprezzare quelle serate in casa, sotto il piumone, guardando un film gustando del cibo di una qualche cucina orientale. Ho imparato a condividere uno spazio, un cuscino, un percorso. Ho imparato a fare della mia vita un tavolo da ping pong, dove schizzo come una pallina tra scuola e lavoro, riuscendo ad additare quel poco tempo che mi resta per addentare una fetta di pizza seduta comodamente in poltrona come del tempo libero, comunque. Ho imparato a credere nei miei progetti, anche se ho paura, perché se qualcun altro ci crede, allora devo farlo anch'io. Ho imparato a gestire le distanze, a convivere con la nostalgia. Ho imparato a costruire all'esterno ciò che avevo da sempre pianificato dentro di me. Ho imparato la differenza tra l'essere modesti ed il sottovalutarsi. Ho imparato che nella vita bisogna avere pazienza, che non c'è niente di bello che non sia costato sacrificio. Ho imparato a portare i conti, per essere in grado di pagare a mie spese scuola ed affitto senza mai essere costretta a chiedere aiuto. Ho lasciato che l'ambizione superasse il pregiudizio, mi sono reinventata cameriera e sono ritornata tra i banchi.

Ho lasciato una vita giovane, per catapultarmi senza misure in una vita vecchia, fatta di responsabilità e di doveri. Ma tra la roba vecchia non ci sono libroni impolverati né oggetti antichi che risulteranno dopo un po' solo ingombranti. C'è un diventare grandi ponendosi delle priorità: orecchie che ascoltano solo melodie, mani che si aprono solo a teneri abbracci, occhi che guardano ad un mondo in cui avrò ancora tanto da imparare, in cui grande non ci si sentirà mai abbastanza. Ma almeno mi sento all'altezza e vinco sempre qualcosa d'importante: un pezzo del puzzle, un tassello di vita.

martedì 8 aprile 2014

Solitudine virtuale.

Lo ammetto, sono una social network addicted. Nel senso che mi piace far parte di una comunità virtuale, dove si condividono aspetti del nostro quotidiano, si gradisce o meno, ci si segue, si "twitta" e "ritwitta". Non sono una di quelle che crede che facebook sia il male del nuovo millennio, sarà che trovo nella parola social qualcosa che mi affascina e che mi spinge ad esserci. Anche se probabilmente sono un po' all'antica: non sono affetta da selfite acuta, nè mi piace copiare ed incollare frasi che ha detto qualcun'altro o mettere su instagram le foto del cibo. Non mi piace e forse l'ho fatto solo di rado, perchè preferisco la personalizzazione in ogni singolo dettaglio, anche di quel pezzo di vita che si definisce virtuale, perchè mi piace che ogni cosa rifletta quello che siamo realmente, in un sano equilibrio tra ciò che è vero e palpabile e ciò che è virtuale e senza forma, ma non per questo meno veritiero.

Quando mi hanno parlato di Tinder ho pensato: "Ma cosa mi sto perdendo?" e allora mi ci sono fiondata, spinta dalla curiosità di capire come funzionasse. Tinder è un'applicazione che in base ad un geolocalizzatore e tendenza sessuale, ti mostra una carrellata di fotografie di gente che potrebbe fare al caso tuo. Se entrambe, cliccando "mi piace", mostrano "interesse" comincia il match e si inizia a chattare ipotizzando un eventuale incontro. Io mi sono fermata molto prima.

  1. Sono impegnata e non avrei voluto compromettermi;
  2. Si accede trasferendo sull'app le tue credenziali direttamente da facebook: avevo la foto con mia madre e a parte qualche quarantenne obeso cui la madre rassetta ancora camera ogni mattina, che ci avrebbe visto un viscerale credo nel valore "famiglia", non avrei "cuccato" proprio nessuno.
  3. Non mi piacciono i ragazzi belli, ma quelli interessanti o, a limite, quelli che mi suscitano sensazioni positive, standogli accanto, anche solo scambiandoci due chiacchiere. Chattare, verbo entrato ai giorni nostri nel comune linguaggio, significa comunicare digitando tasti del computer dietro uno schermo che non ha sembianze fisiche. Chiacchierare con una bocca che si muove, orecchie che ascoltano e occhi che ti guardano, è altra storia.
  4. Non sono alla ricerca del sesso occasionale (v. punto 1), né credo che almeno la maggior parte dei tinderers, cerchi qualcosa di diverso che abbia a che fare con amore ed emozioni affini. In Inghilterra hanno un rubinetto per l' acqua fredda e uno per quella calda. I due flussi non si mischiano. E sebbene ci si trovi nell'era 2.0, dove tutto è in continua evoluzione, non accetto che anche questo muti. Esistono le relazioni virtuali e quelle umane. Sono due cose distinte, proprio come due rubinetti. Questo postulato per me è imprescindibile, vi prego, non me lo toccate. Esistono le eccezioni, che è un po' come trovare la scritta "Hai vinto" nella confezione del Kinder Bueno.
  5. Ho cominciato a vedere nei volti di ogni passante, qualcuno di già visto, come fossero tutti presunti tinderers.
  6. Tempo speso su Tinder? Meno di 30 minuti. Il tempo di realizzare che esaurita la mia curiosità, poteva bastarmi.
Dopo qualche giorno ho guardato il film Her (Lei): uno scrittore di lettere per conto di altri,in preda alla solitudine post-divorzio, scarica un sistema operativo di intelligenza artificiale - OS1 - di cui ascolta semplicemente la voce. E sì, poi si innamora del suo computer. E fanno anche sesso"orale", nel senso che lo fanno "a voce". Fin quando "lei" scompare, ammettendo all'uomo che i sistemi operativi si stanno evolvendo e devono allontanarsi dagli umani. Ha vinto il premio Oscar per la sceneggiatura più originale. Anche se, lo ammetto, ha molto deluso le mie aspettative.
Ma ho subito pensato che in fondo potesse preannunciare un'avanzatissimo aggiornamento di Tinder: una voce al posto di fotografie ritoccate.
E ho cercato di immaginare una possibile connessione tra il Social Network ed una parola a me molto cara: persone.

Ma l'unica cosa cui ho pensato è che non c'è cosa più bella dell'avere attorno qualcuno che si emozioni per la vita, per come appare il mondo. E questa è una prerogativa umana, la più incredibile. Il male del nuovo millennio non è facebook ma si chiama "solitudine da ingabbiamento virtuale", ma vi assicuro che una cura esiste, e come al solito la troveremo nelle cose più semplici: scindendo i due mondi, ma lasciando al contempo che combacino. Apprezzando il chattare, ma desiderando di chiacchierare di fronte ad una bocca che si muove, orecchie che ascoltano, occhi che ci guardano. Gradendo un'immagine, desiderando di averla di fronte e di palparla con mano. Pensando che in fondo, siamo persone: quelle che amano il caffè con poco zucchero o che preferiscono il cappuccino, che amano la lettura o a quest'ultima preferiscono il cinema o il teatro. Persone la cui voce prende forma in frasi in cui virgole o punti saranno solo immaginari, riuscendo a penetrarti più di un corpo sordo, muto e cieco. Persone che in fondo sono portatrici di qualcosa che un oggetto inanimato non riuscirà mai a donare in egual portata: le emozioni.

Lasciamo che il 2.0 faccia solo ciò che manchi nelle abilità umane: accumulo dati e resettare come se niente fosse mai esistito. Il resto, è nostro.

lunedì 31 marzo 2014

Perchè è bello essere terroni.


Qualche anno fa mi è stata rivolta un'insolita domanda. Sapete quelle domande che vorresti non ti venissero mai rivolte, e non perchè non vuoi svelare quale sia la verità, ma perchè oltre ad ignorare la risposta, ignori il senso della domanda stessa. Lei, che antepone gli articoli determinativi ai nomi propri di persona, mi fa: "Io ed il mio ragazzo andremo in vacanza a Napoli quest'estate, e gireremo per tutta la costiera", ed è lì che mi aspettavo una domanda su quali sarebbero state le immancabili tappe, quando invece se ne è sopraggiunta un'altra: "Volevo chiederti, ma posso indossare l'orologio?Cioè, posso o c'è il rischio che me lo rubino?"
Alquanto imbarazzata e con il volto dell'umiliazione, nonostante avrebbe dovuto sentircisi lei, le ho risposto nella maniera più diplomatica possibile dicendole che avrebbe potuto tranquillamente indossarlo, con la solita attenzione che ognuno impiegherebbe per ogni oggetto di valore che indossa quando si è in giro in una grande città piena zeppa di turisti. Avrei voluto propinarle una battuta, ma probabilmente l'avrebbe presa troppo sul serio, da una che ti fa domande del genere pur avendoti in altre occasioni a stento salutato, cosa ti aspetti? Ma sicuramente questa è in cima alla mia TopTen delle domande alla-cazzo-di-cane, prima del "Quando ti laurei?" e "Cosa fai a Capodanno?"
E presumo che abbia cominciato forse in quel momento a spargere i semi della mia misantropia, tendente per lo più ad una misoginia arrivata probabilmente ad uno stato di metastasi, insomma, ad un punto di non ritorno. Sono nata a Napoli, e non me ne sono mai vantata, fin quando ho cominciato a girare per l'Europa. Quando mi presentavo e tuttora mi presento ad estranei la prima parola che mi viene detta è camorra. La seconda è pizza. La terza è Berlusconi, il che mi fa sentire meno in colpa, perchè è come se si parlasse di un'idiozia tutta all'italiana, non soltanto del Sud. Qualcuno mi ha anche detto che dalle sue parti si dice che a Napoli si gettano i mobili inutilizzati dalla finestra, simpaticamente gli ho risposto che forse si riferiva alla defenestrazione di Praga. Lui mi ha guardato perplesso, forse a scuola non ne ha mai sentito parlare, o forse, non ci è nemmeno mai stato. Oggi, lontana dalla mia città, capisco il senso dell'appartenenza, quello che scorre nel tuo sangue e ti rende parte di un luogo geografico nonostante sia andata via. Ed oggi capisco la bellezza dell'essere terrona, il senso di protezione che devo alla mia terra, malandata e disgraziata, ma pur sempre la mia, che forse non darà alcunchè al mio futuro, ma un sorriso quando solo ne sento parlare.

Ma che significa essere terrone?

Dimostrazioni.
Il terrone che sbarca in terra straniera - ove per straniera reputo, a questo punto, anche il Veneto autoproclamatosi illegittimamente indipendente per una spinta egocentrista - deve dimostrare subito una cosa: essere una brava persona, anche se pronuncia le "e" aperte. Perchè c'è questo luogo comune dell'essere imbroglione, di chi, quando può, fotte. Non vi do tutti i torti. Ma c'è questa innata sensazione dentro di me, come se volessi dire: "Mi chiamo Antonia, sono del Sud, e sono stata educata, come voi, se non di più", che non se ne va. Dimostrare di valere il doppio. Non ci viene posta nessuna richiesta esplicita. Ma è un po' come se ce la sentissimo addosso, come un olezzo pungente, un po' per smorzare anche luoghi comuni.

Nonni.
Il terrone ha presumibilmente nonni terroni. La nonna del Sud, non prendiamoci in giro, non è come la nonna di Milano. La nonna terrona ti sveglierà con la tazza di latte ed il caffè ancora bollente sul tavolo con la domanda "cosa vuoi per pranzo?" nonostante siano ancora le otto del mattino. Il non avere appetito equivale al non stare bene. E non importa se dopo un'abbondante piatto di pasta nel tuo stomaco c'è spazio solo per una polpetta e non per le tre grosse che ti aveva conservato, se non le mangi tutte non stai bene, hai bisogno di farti delle analisi. C'è mia nonna materna che prepara le sue famosissime melanzane sott'olio, più che sotto l'olio vi sprofondano sulla superficie del contenitore come piombo su un fondale marino. Quando mia sorella le dice di essere a dieta, lei quasi irritata le dice: "Ma tanto è verdura". Ed in fondo ha ragione.
La nonna terrona diventa la tua seconda mamma, la baby-sitter che tutti desidererebbero, la tua ancora di salvezza - soprattutto se hai fame -, la tua banca che ti passa di tanto in tanto la famigerata "mazzetta" in stile pusher, per non farsi notare. 

Cibo.
Lavorando in un ristorante in stile fast food, mi capita di imbattermi in intere famigliole che consumano lì il loro pranzo domenicale. E mi sento quasi fortunata ad essere, nei geni, una terrona. Perchè ricordo mia nonna o mia zia o anche mia madre svegliarsi presto di domenica mattina per preparare dei piatti succulenti, di quelli che si cucinano quando si ha tempo ed in occasioni speciali. La domenica, per esempio, è un'occasione speciale, perchè nessuno avrà altri impegni, si è tutti insieme, dal primo al dolce. E non c'è nulla che possa essere definito "fast": andiamo piano, con calma. Durante lunghi pranzi attendiamo anche quaranta minuti prima di servire il resto, per digerire e gustarlo meglio. Ci piace così, mangiare "slowly". Quando passo per i tavoli chiedendo loro se il cibo è di loro gradimento, il più delle volte mi rispondono che quel pezzo di pollo cucinato sulla griglia e delle patatite imbevute di olio da motore sono semplicemente deliziosi. Io faccio un respiro e mi trattengo. Se non lo facessi mi ritroverei a gettargli in viso il piatto e a far arrivare mia nonna con il teletrasporto, con una parmigiana di sette chili, dopo aver fritto una decina di chili di melanzane per l'intera mattinata. Con una pasta al forno croccante in superficie, ma morbida all'interno, perchè accompagnata da ragù e da uno strato di mozzarella filante catalogata fra le sette meraviglie del Mondo. 

Caffè.
Per chi vive al Sud, ma soprattutto nel territorio partenopeo, l'andare a prendere un caffè non equivale necessariamente a berne una tazza. Il caffè può diventare una birra, un aperitivo, un sandwich. E' un modo per intrattenersi tra una chiacchiera e l'altra quando si è in compagnia, l'unico che conosco per svegliarmi. "Sì ma l'English breakfast è più ricca". Per voi, finti radical chic, forse. Dite quello che volete ma, al mattino ci vuole caffeina. Caffeina vera, non acqua colorata di marrone, che poi, è un marrone manco tanto scuro. Non pancetta e uova, con quella ci faccio la carbonara per pranzo. Provatelo a spiegare alla nonna terrona. Vi guarderà con due occhi spalancati e magari vi dirà: "Bevi prima il latte con il caffè, mangia due fette biscottate, una fetta di panettone, questo te lo porti, se ti viene fame dopo, prima di pranzo".

Famiglie allargate.
Sembra quasi di vivere nella soap opera Beautiful, ma quello delle famiglie allargate è un dato che ci contraddistingue. La figlia della tua migliore amica diventerà tua nipote, pur non avendo con lei alcuna familiarità, amici di famiglia diventeranno i tuoi zii, il fidanzato di tua sorella diventerà il fratello maschio che non hai mai avuto, i tuoi amici saranno fratelli acquisiti, che chiameranno tua madre per nome e seguiranno in salotto il campionato di calcio con tuo padre. Quello che è mio, diventa anche tuo. Tutti una grande famiglia, ma nulla di perverso alla Brooke Logan. 

Mare.
Spostandoci in grandi metropoli, ci illuderemo di aver scoperto di essere affetti da metereopatia. Ci ammaliamo per il clima uggioso, per la pioggia, il vento e l'umidità. Non saremo metereopatici. Quella è mancanza di mare. Ogni tanto, lo ammetto, spero di girare l'angolo e di ritrovarmi su di un bagnoasciuga. Ogni tanto avremo il desiderio di vederlo, solo per gettarvi i pensieri che sembra svaniscano, per essere al cospetto di qualcosa che nonostante dicano sia infinito, non ci farà mai paura.



Mi chiamo Antonia, dicono di me che sono una brava ragazza. Mi manca la parmigiana di melanzane preperata con cura da mia nonna. Al mattino, per svegliarmi, bevo un espresso, di quelli belli forti. Ho un cognato-fratello, amiche-sorelle, amici di famiglia che chiamo zio e zia. Mi manca il mare, il suo profumo, la brezza che inumidisce la mia pelle. Sono una terrona, ma non amo gli orologi da braccio, per questa ragione non li indosso.




lunedì 24 marzo 2014

Imparare da quando si era bambini.

Ogni tanto ho un'insolita paura: quella di non essere, un domani, in nessun vecchio album di fotografie, da sfogliare di domenica pomeriggio, quando fuori piove e si diventa nostalgici.
Quella, in fondo, di non essere nei ricordi di nessuno, nonostante io ne abbia parecchi.
Quando ero piccola, per esempio, non ricordo di essere mai stata seduta sulle ginocchia di mio nonno paterno, ma sempre di fronte. Ero la prima nipote, quella grande, ed è per questo che forse mi ha sempre trattata da adulta. Lo faceva con le sue domande su quali fossero le mie prospettive di vita, seduti al tavolo, uno di fronte all'altro, come il maestro e la sua allieva. Come quando mi chiedeva cosa volessi fare da grande. Al contrario di molti bambini, non ho mai sognato di fare l'astronauta. Volevo fare la scrittrice. Ma nonostante la mia giovane età, mi ponevo anche alternative nel caso in cui non ci fossi riuscita: la scultrice o la pittrice. In poche parole, avrei voluto essere un'artista. Mio nonno mi trattava da adulta, nelle domande, quanto nelle risposte. E allora mi fece presente che non avrei avuto bisogno di una rigida istruzione per fare tutto questo. Ed è per questo che forse ho represso tutto d'un tratto i miei desideri: perchè sin da piccola ho creduto che una buona educazione fosse la base per poter condurre una vita fatta di successi. Nessuno mi disse che avrei potuto fare entrambe le cose, l'ho capito strada facendo, quando sono diventata grande sul serio.
Appena ho imparato a leggere e scrivere, mi dilettavo nella scrittura di pensierini, su piccoli fogli di carta, che accartocciavo con cura e riponevo dietro la statua della Madonna, che mia nonna aveva sul mobile della cucina durante il mese di maggio. "Lei ti ascolta", mi diceva nonna, e allora ogni tanto le scrivevo, un po' come quando si scriveva a Babbo Natale, o come quando si credeva nella fatina dei denti. Un giorno però non ero a casa dei miei nonni, ed in casa non c'era nessuna statua cui potessi affidarmi, e allora dato che nonna mi aveva detto che "la Madonna ci ascolta sempre, ovunque noi siamo", ho incominciato a fare una preghiera, stringendo le mie manine più forte che potevo. La mia generazione è nata nei tempi in cui alle elementari esisteva una sezione, che comprendeva due classi, due diversi moduli. Io ero nella sezione F, modulo G. Ma per qualche strana ragione, le insegnanti avevano deciso di spostarmi nell'altra classe, nel timoroso modulo E. Io non ci volevo stare. Volevo i miei compagni. E allora chiesi alla Madonna di far tornare tutto come era prima. Il giorno seguente, appena entrò la maestra, mi disse di tornare nell'altra classe. Ricordo che in quel momento capii che i tuoi desideri diventano realtà, solo se realmente ci credi con tutto te stesso. Se lo fai, stringendo forte le mani sino a farle sudare, qualcuno ti ascolterà.
All'età di otto anni cominciai a scrivere il mio primo libro: Polvere di Stelle. Presi un vecchio diario, di quelli che si chiudevano con il lucchetto, e lo riempii scrivendo a mano almeno una ventina di racconti frutto della mia fantasia. Ognuno era intervallato da giochi o quiz che avrebbero intrattenuto il mio lettore immaginario. Quando mia sorella lo ebbe tra le mani, lo distrusse con una serie di scarabocchi. Anch'io ero piccola e ci rimasi molto male, ma pensai che avrei potuto un giorno scriverne un altro, e che quello era in fondo soltanto una bozza.

E' vero forse che il nostro presente è, in fondo, un tempo assurdo, in cui viene chiesto di mantenere l'ingenuità e la freschezza dei bambini, anche se non lo si è più, ed alimentare quella saggezza che cresce solo in età avanzata. Oppure possiamo fare una cosa più semplice, restando nel nostro presente: imparare da noi stessi, ricordare quello che si era quando ancora ci chiamavano bambini. E oggi capisco di aver imparato dai miei nonni le cose più importanti, quei pilastri che pur sgretolandosi man mano che l'età avanzava, con il tempo si sono ricostituiti:

  • la fantasia non è solo una prerogativa dell'infanzia, ma può accompagnarci per tutta la vita. A nulla serve reprimere passioni o desideri, perchè il destino avrà già scelto per noi, e quello che ci viene chiesto di fare è solo di assecondarlo.
  • Non bisogna mai smettere di credere in qualcosa. Possiamo chiamarlo Dio, fato, karma, o semplicemente qualcosa di superiore, in cui confluiscono forze positive, che ci permettono di credere che c'è sempre una via d'uscita, che la felicità non appartiene solo ai protagonisti di un film o ai personaggi di un libro di fiabe, ma è una cosa meravigliosa che può toccarci se non smettiamo mai di crederci, se mettiamo un tassello ogni giorno, se stringiamo forte le mani, quanto i denti, e andiamo dritti per quella strada che il nostro cuore avrà scelto di percorrere.
  • Che c'è sempre una seconda possibilità, ma anche una terza, una quarta, una quinta, cento, mille. La vita stupisce, ma anche noi possiamo stupirla. Lei, che ogni giorno ci abbatte e ci rialza, in un ciclo continuo di scommesse, sconfitte, e vittorie.
E tutto è già ricordo appena un istante dopo averlo vissuto. Ma i ricordi insegnano. Tutti.

venerdì 21 marzo 2014

L'uomo che spazzava via le briciole.

L'altro giorno percorrevo la strada che faccio di solito, sempre con immancabile fretta, quando mi è capitato di rivolgere lo sguardo ad una coppia di anziani seduti dietro ad un bancone di un fast food.
L'uomo scrollava con delicatezza le briciole cadute sulle gambe della donna, reggendo nell'altra mano dei tovaglioli, pulendole il viso mentre mangiava.
E allora ho pensato alle due categorie di uomini esistenti su questa Terra: quelli che lanciano a te patate bollenti, da tenere nelle mani mentre pian piano la tua pelle si brucia, costringendoti, prima o poi, a farle cadere come l'ennesima palla di cristallo che si frantuma sul pavimento, e quelli che invece con premura e sottile tenerezza, si addossano il compito di spazzare via le briciole, di persone vuote, di carezze mancate, di un passato di solitudine, lasciando che tu stia lì semplicemente a guardare.

L'altro giorno lui è arrivato con un pacco pesante, chiedendomi di aprirlo. Dentro c'era una macchina del caffè. Ho sempre ricevuto scarpe, borse o qualsiasi altro accessorio che, si sa, fanno sempre felice una donna. Ma lui, con l'ingenuità di un bambino mi ha detto che poichè mi lamento della ciofeca che in Inghilterra propinano come caffè, avrei potuto adesso preparare in pochi minuti un espresso, come facevo di solito a casa mia.
Ogni tanto, quando sto male, mi prepara dei piatti genuini, caldi, di quelli che mi avrebbe preparato mia madre.
I primi tempi, chiesi timidamente di fare una doccia, perchè dovevo lavorare e andavo di fretta. Mi ha preso un accappatoio dicendomi di non averlo mai usato, e che potevo lasciarlo in bagno perchè sarebbe stato mio da quel momento. E lì ho pensato ad un'altra sottocategoria di uomini: quelli che aprono gli armadi, facendoti entrare negli abiti della loro vita, e chi, non appena osi lasciare il tuo spazzolino nel bagno, lascia sull'uscio della porta le tue valigie, perchè è l'uomo del ognuno-i-suoi-spazi, dell' andiamo-con-calma, del ho-ancora-lo-scheletro-della-mia-ex-sotto-il-letto, del non-ho-tempo, del non-ho-voglia-di-cose-serie-adesso-ma-solo-pensare-alla-mia-vita.

Litighiamo spesso perchè non siamo perfetti. Ma il punto è che l'amore non chiede di esserlo. Spazza briciole, per costruire edifici in cemento armato, con tante porte e finestre di ogni misura, da cui entrare quando fuori piove, ed uscire solo se si vuole, solo se fuori c'è una bella giornata di sole, insieme, o anche da soli. Non conosce nessuna dimensione spaziale o temporale, non ascolta il tempo, non guarda al passato e la generosità è una sua appendice.

Ho ricevuto così tante patate bollenti tra le mani, che mi ero illusa di poter diventare un'esperta nel mantenerle, nonostante la pelle bruciasse. Ma oggi capisco che non vi è cosa più umiliante di scottarsi per qualcosa di bollente solo per l'involucro, ma all'interno freddo, vuoto. E ho capito che questo è un sentimento solo per donne fiere, e per uomini che sanno osare, per quelli che non giocano con la vita, ma rendono la vita il gioco più emozionante che ci sia.

Quando sono triste mi dice sempre: "Everything is gonna be fine, Antonia". Ed io lo credo.

lunedì 17 marzo 2014

Stagioni inverse.

Tra qualche giorno inizierà la primavera, esattamente il giorno del mio compleanno. Ho sempre pensato a questa stagione come ad un dolce risveglio, allo sbocciare dei primi germogli, alla migrazione delle rondini, ai primi caldi, quelli tiepidi che non bruciano, ma che riscaldano timidamente, quasi come se ti accarezzassero la pelle senza voler fare troppo rumore. Ed io in fondo mi sono sentita sempre così, come una parte di questo ciclo: quella sezione che si chiama "profumi nuovi", "freschezza", "inizi". Anche se al momento, sarà il clima londinese, ma io mi sento ancora in inverno. Con quell' inaccettabile freddo che colpendoti alle spalle, ti conteggia più mancanze di quanti siano i tuoi attuali desideri.
E sarebbe troppo ovvio dire che mi manca casa, famiglia ed amici. In realtà, oltre a tutto questo, mi mancano cose più piccole.
Mi manca la mia tappa quotidiana alla libreria per comprare qualche nuovo best seller di cui ho sentito in radio, in tv, o da qualsiasi altra parte.
Mi mancano quelle giornate che sembravano così lunghe, tanto che le colmavo scrivendo, una, due, anche più volte al giorno.
Mi manca mia madre che di buon mattino, mentre ancora dormivo, entrava con l'aspirapolvere in camera per pochi minuti, quanto bastava per svegliarmi, per poi andarsene via, chiudendo dietro di sé la porta.
Mi manca mio padre che ogni sabato, talvolta anche la domenica, comprava il pesce che tentava di pulire, pur rifilando dopo un po' a mia madre questo compito.
Mi manca mia nonna che prima di pranzo vuole che si faccia la preghiera, per poi benedire tutte le famiglie del mondo, come se davvero creda che la sua voce possa arrivare al Signore.
Mi mancano le serate in cui non uscivo e me ne stavo in casa a guardare un film sul divano con mio padre, mentre mia madre guardava qualche altro programma televisivo in cucina.
Mi manca litigare con le mie sorelle, anche solo per noia, anche solo per lo scambio di scarpe e vestiti.
Talvolta penso che cosa mi stia perdendo di tutti loro, nel corso di questi mesi, e cosa, anche solo per bilanciare, io stia costruendo, quanto stia crescendo. E a volte credo che non valga mai la pena perdere tutta questa ingenua, semplice ma eterna banalità. Non vale la pena, ma se primavera equivale a risveglio, quest'ultimo incamera in sè la parola crescita. E allora lo si deve fare, è parte di un ciclo naturale che corre al contrario: inizia con il gelido freddo invernale, si assesta con la caduta delle foglie in autunno, che danno spazio ai primi fiori e a quei caldi preludio della migrazione delle rondini. Poi il Sole, da che era cornice, diventa parte del dipinto. E' come lo immagino. O almeno è quello che voglio credere.

domenica 9 febbraio 2014

Una soffitta per biciclette.

Ieri, di ritorno da Amsterdam, ho avvertito la sensazione del tornare a casa dopo una vacanza, dove tutto é pateticamente sempre lo stesso, dove hai un affitto da pagare e spese varie che riducono drasticamente il tuo salario, dove esiste quella famigerata routine che ti costringe ad alzarti dal letto con gli occhi ancora gonfi per iniziare la tua corsa quotidiana contro il tempo, quella che ti fa rimbalzare come una pallina da ping pong tra scuola-lavoro-casa.
Ma la cosa che più mi ha fatto riflettere é stato il pensare, ormai, a Londra come casa. É stato pensarla come una di quelle case antiche, con pareti altissime, con un gran camino che riscalda un salone in cui ci si entra solo nelle grandi occasioni, e lí fa caldo, ma il resto della casa rimane sempre molto fredda, alcune stanze sono addirittura inutilizzate e la soffitta é solo per i ricordi, o per la solitudine. É per quella pace interiore che di tanto in tanto hai bisogno di sentire, lontano dai rumori degli elettrodomestici, dal vociare delle persone, pur mantenendoti in alto, in quella stanza dove nessuno vorrebbe entrare perché é presumibilmente sporca, fredda, piena di cianfrusaglie.
Ma a me le soffitte piacciono, perché c'é sempre una finestra nascosta da cui riesci a vedere tutto dall'alto, con maggior distacco, come se fossi, per un attimo, il padrone di un impero, standotene in silenzio in quel disordine che nasconde un ordine sublime: quello della mente.
Ad Amsterdam mi é sembrato di essere perennemente in una soffitta in cui la tua immaginazione prende forma, in cui una sola finestra non bastava per ammirare tutto, quasi come fosse straordinariamente a cielo aperto. É tutto più piccolo, le strade sono piccole, i marciapiedi sono ancora più piccoli, i coffee shops sono piccoli, i canali che l'attraversano sono piccoli ma tanti, ne puoi scorgere uno ad ogni angolo di strada, come quei sentieri nascosti della tua anima in cui l'acqua scorre timidamente, in una quiete quasi fittizia.
In casa non ho una soffitta, ma ogni tanto mi piace sentirmici, adoro costruirla dentro di me. E non perché io sia un'introversa fuori misura, ma compio un'azione importante: metto ordine.
Ho bisogno della calma di una soffitta per non sentire rumore, perché devo ascoltarmi.
Non tutte le mie domande trovano pronte risposte, ma anche quelle, le lascio scorrere lentamente insieme alle acque dei canali che avranno uno sbocco, o semplicemente cesseranno di esistere quando smetteremo di interrogarci, quando saremo stanchi di vivere di immaginazione, e allora torniamo a casa: quella dove c'é un lavoro che ti permette di pagare una scuola ed un affitto, dove hai costruito castelli di sabbia spazzati via dalle acque di canali che reclamavano verità, quella dove speri di mettere un mattone ogni giorno nonostante spesso la tua pazienza vacilli, quella in cui, in fondo, sei sola.

martedì 4 febbraio 2014

Prendiamoci del tempo.

" Il tempo é vostro nemico! "

É una delle frasi che uno dei docenti della London School of Journalism ha pronunciato nella sua prima lezione. In realtà non mi sono spaventata, anzi, avrei dovuto rispondergli che tra me ed il mio nemico costante non é mai scorso buon sangue. Avrei dovuto parlargli di quanto detesti gli orologi da braccio, ancor di più quelli appesi al muro, quelli che di solito piazzi in cucina, di cui non puoi non accorgerti, perché sono proprio sopra la porta, di quelli belli grandi, quadrati o circolari, che ti ricordano di quanto il tempo stia passando e quanto tu sia in ritardo. O avrei dovuto piuttosto ricordare a me stessa l'ansia inculcatami dai calendari, appesi rigorosamente al muro della cucina, quasi come se la cucina non fosse più un luogo di convivio e di un semplice riconciliarsi dopo una dura giornata, ma un posto in cui ansia e tensione danzano a braccetto, mentre stacchi i fogli di mesi oramai trascorsi, contando i giorni di quelli che ancora più frettolosamente passeranno. O di quanto detesti correre in metro insieme ad una folla impetuosa che non può perdere secondi preziosi. O di quanto detesti che un orologio sia uno dei simboli di una città come Londra, che ogni volta che scocca vorrei dirgli: "Sappiamo che sei lí, non c'é bisogno di far tanto rumore!"
O probabilmente a titolo esplicativo avrei potuto dirgli di quanto riesca a gestire male le scadenze, specialmente degli yogurts che compro in blocco dall'entusiasmo, ma che poi marciscono in frigo seppelliti da frutta e verdura, che in parte dopo un po' vedranno soltanto il fondo del secchio della spazzatura.

Ma forse il problema reale non é in sé il concetto del tempo, di quanto tempo ci resti, di quanto ne potremmo avere. Il punto é di come ad esso ci rapportiamo, sono gli obiettivi che ci poniamo, é il con chi scegliamo di condividerlo. Allora un domani può diventare un oggi, un ieri può essere un mai più, possiamo scegliere di trasformare un oggi in un per sempre. Possiamo scegliere di condividere il nostro tempo con qualcuno che sarà in grado di moltiplicarlo, o di dividerlo, sminuzzarlo, sino a farne poltiglia. Gli obiettivi di ieri possono servire per coltivare i sogni di oggi, che forse diventeranno i traguardi di domani. E niente di ieri é stato sbagliato se non ci sarà logica connessione con la strada che oggi si é scelto di intraprendere. Ieri non c'é più, domani forse non ci sarà, ma oggi ci siamo noi.
E forse questo non ha nulla a che fare con orologi, calendari e yogurts scaduti nel frigorifero.
Dobbiamo scegliere chi essere, considerando la vasta gamma dei colori che la vita ci offre, a qualsiasi condizione, contro ogni impedimento, e lo dobbiamo fare oggi, non ci é chiesto di farlo domani, ieri é oramai troppo lontano. C'é soltanto una cosa che dobbiamo evitare: ciò e chi vive di un passato che scombussola un presente che, per ovvie ragioni, ruba il nostro futuro prima ancora che abbia inizio.

Allora forse adesso sono pronta a riconciliarmi con il tempo, a non commettere ritardi, a fare pace con le scadenze.

I miei yogurts sono peró ancora in frigo in attesa di essere gettati.


giovedì 16 gennaio 2014

Ne vale la pena.

Ci sono giorni in cui mi capita di urlare "Next, please" almeno un centinaio di volte al giorno, duecento, trecento, oramai ne ho perso il conto.
Alla cassa arriva un cliente o anche più di uno che con fare, il più delle volte, non aggraziato ed un tono spesso da cavernicolo ordina da mangiare. Spesso é indeciso, talvolta ha già una lista, ed io sono lí ad aspettarlo, ad accontentarlo.
A volte mi chiedo se ne valga la pena, altre quando arriverà il mio turno, quando ci sarà qualcuno ad urlare "next, please" al mio posto, quando potrò dire la mia, urlando la mia lista di desideri.
Ma altre volte mi chiedo perché me lo chiedo. Perché in fondo ne vale sempre la pena. Ne vale la pena avere il coraggio di lasciare per seguire ciò che in fondo al tuo cuore credi che ti appartenga, ciò che in fondo ti é sempre appartenuto ma che non hai mai avuto il coraggio di urlare sino al momento in cui hai avvertito stanchezza nel seguire schemi preordinati ed inutili cliché da quattro soldi che un po' ti fanno sentire in trappola. Ne vale sempre la pena sacrificarsi per qualcosa che reputi più grande di te, ma non per questo così irraggiungibile se sei lí ad un passo dall'afferrarlo. Ne vale la pena perché l'essenza di vivere é avere coraggio di osare, di cambiare, é sentirsi ogni giorno vincitore di qualcosa. Non é necessariamente l'ottenere o meno qualcosa a far di noi il più grande dei vincitori o dei vinti. É il modo in cui tentiamo di afferrare il nostro bottino. Ed é l'adeguarsi ad un contesto a noi estraneo pur di rimanerci inghiottito sino al collo o dimenticarsi chi si é per compiacere qualcun altro la più grave ed irrimediabile sconfitta che un uomo possa riportare. Una sconfitta già scritta, oserei dire, quasi pianificata.
C'é chi pur non conoscendomi mi scrive, o per vie traverse chiede cosa sto facendo. E penso a quanto sia vuota la loro vita se si interessano alla vita di qualcuno che magari per strada a stento saluterebbero, mentre io sto vivendo la mia e basta.

Oggi c'é il sole, fuori ed anche dentro, perché nonostante la fatica sento che ne vale la pena, sento che il mio turno, qualunque ne sia la forma, sta arrivando. Perché arriva solo quando vivi la tua di vita, quella che senti mentre il vento ti scompiglia i capelli, dentro le ossa, sulla tua pelle, come una delicata brezza mattutina.
Oggi mi sento così: vincitrice di coraggio, ambizione, di granelli di speranza, di mattoni di vita.

martedì 7 gennaio 2014

L'altra parte di me.

Oggi é uno di quei giorni in cui fa freddo, fuori e anche dentro. Sono stata svegliata da schizzi di pioggia che battevano sui vetri come il rumore di tamburi. Mi piace alzarmi dal letto quando piove, immaginare che quegli schizzi di pioggia siano come pennelli che si intingono in colori ad olio per realizzare un dipinto. Ma stamattina non ho visto nulla di tutto questo: solo rumore e confusione, anche nel modo in cui gli schizzi di pioggia scorrevano sui vetri. Fa sempre molto freddo nel silenzio di una stanza che sembra vuota nonostante si stia in due, in cui quando si sceglie di rompere il silenzio lo si fa in modo sgraziato, o almeno non nella maniera più appropriata.
Ma ad un certo punto é uscito il sole, tiepido, timido, tra cupi nubi che lo accerchiavano, tentando di nasconderlo. Allora ho pensato che oggi é così, domani andrà meglio. Ma forse andrà meglio quando riuscirò a domare quella che chiamo "l'altra parte di me". Quella che si sente sotto pressione per futilità, quella che non gode il presente perché pensa al futuro, che per la sua incertezza le fa spesso paura. Quella che preferisce sbattere i piedi per terra, proferire parola per dire la propria, anziché fare un passo indietro e dare qualche carezza in più. Quella che aspetta l'inaspettato, quella che crede nell'incredibile, quella che ancora, alla sua età, piange quando non si sente capita.
Sono come due poli, il bianco e il nero: il bianco che con la sua luce prova a ritagliarsi uno spazio, come il sole tra nuvole di pioggia, e il nero che incombe e che come di consueto lo neutralizza, come quando ad un certo punto comincia a piovere nonostante guardando il cielo non l'avessi previsto.
Una parte che esercita pressione, l'altra che chiede di non pensare. Una parte che vorrebbe una palla di cristallo per sapere come andrà a finire, l'altra che chiede di guardare solo a questo momento, quest'ora, questa vita, qui ed adesso. Una parte che urla, l'atra che chiede solo attenzione, carezze, amore.

Allora forse non vale la pena aspettare a domani, quando domani può essere adesso.

giovedì 2 gennaio 2014

A me, a voi, buon 2014!

Ho cominciato questo nuovo anno mangiando grappoli d'uva, dicono che qui sia di buon auspicio. Ho alzato gli occhi verso un cielo cupo ma illuminato da fuochi d'artificio che rendevano il London Eye qualcosa di incantevole. Per la prima volta ho lavorato, tanto. Ho servito del pollo a clienti che sembravano così lontani dalle nostre consuete tradizioni, quasi come se fosse un giorno qualunque. Ho sempre festeggiato queste feste in famiglia e a dire il vero non mi è mai sembrato una gran cosa. Minimizzavo il riunirsi attorno ad una tavola con bicchieri, posate e tovaglioli rossi da cui ci si alzava con almeno tre chili in più. Detestavo il pomeriggio del giorno di Natale: mi trasmetteva un'insolita malinconia, simile a quella di un'ordinaria domenica pomeriggio. Detestavo la scontata domanda nei giorni che precedevano il 31 "Cosa fai a Capodanno?" ed io che con aria annoiata rispondevo "Non lo so", per poi organizzarmi all'ultimo minuto perché l'importante era stare insieme. Come insieme alla mia famiglia sono stata per 23 anni a scartare i regali sotto l'albero, aspettando ciascuno il proprio turno. Quest'anno la mia famiglia non c'é stata, né un albero di Natale sotto il quale scartare i regali, nemmeno la consueta tavola imbandita, né la fastidiosissima domanda pre-Capodanno. 
Ed è in queste circostanze che capisci che forse stai crescendo, e crescere significa anche questo: dare valore a ciò che prima sembrava scontato quando scontato forse non lo è mai stato. 
Ma crescere significa anche abituarsi a nuove cose, allargare i propri orizzonti, aprirsi a nuove culture, modi di pensare, tracciare nuovi sentieri che possano farti gioire comunque, nonostante tu conosca sempre dentro di te il reale significato di "casa", pur tentando di costruirne un'altra, o più di una.
Nel mese di dicembre nel posto dove lavoro sono state arrestate tre persone senza regolare permesso di soggiorno, due del Pakistan ed un ragazzo dello Sri Lanka. Quest'ultimo si trova ancora in prigione, con una vita spezzata, i cui pezzi sono appesi ad un filo sottilissimo, in attesa di conoscere il suo futuro, se restare, o più presumibilmente tornare nel suo Paese, dove non esistono leggi né forse morale, dove se sei macchiato lo sarai per la vita, come un portatore di peste, relegato agli ultimi posti di una società già retrograda di per sé.  Ma nonostante tutto, la sua fidanzata va a trovarlo ogni lunedì, con la disperazione negli occhi, ma con un'invidiabile costanza, che fa crescere la sua speranza ogni giorno nonostante l'esito di questa triste storia sia quasi certo, in uno Stato, come questo, in cui leggi di ferro sotterrano ogni traccia di sentimentalismo. Ma lui, in uno dei loro incontri, le ha chiesto: "Se devo andare via, tu vieni con me?" E lei, senza alcuna esitazione, con la voce rotta dal pianto, ma con un amore che avrebbe sciolto anche la legge più ferrea, gli ha detto: "Ovvio, vengo con te!"


Non ho propositi per questo nuovo anno, per voi, né per me stessa, ho sempre odiato le solite liste della spesa che divengono dopo poco carta straccia. 

Ma se dovessi dare nomi a questo nuovo anno vorrei si chiamasse: crescita, costanza, amore.
Vorrei si chiamasse "trasformare-disperazione-in-speranza", "amare-senza-timore-perché-si-é-piú-forti-del-ferro", "pazientare-in-attesa-di-successi-piú-propizi", "porre-un-mattone-su-di-una-superficie-fangosa-per-costruire-una-casa-dalle-pareti-indistruttibili".
Vorrei che quest'anno si coniugasse con il verbo "restare".

Perché é vero che gli anni passano, ma noi possiamo scegliere di restare, sempre, ovunque e con chiunque ci capiti di trovarci.

A voi, a me, buon 2014!