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venerdì 22 luglio 2016

Tutto quello che pensiamo non sia

Non so quando sia accaduto che abbia messo un punto fermo alla mia vita, senza riuscire a voltarmi,  a guardare oltre.
Sarebbe stato tutto più semplice, perchè mi sarei imposta di non sentire più nulla.
Né la fatica nel ricominciare, 
 l’entusiasmo di non smettere mai.
I profumi della primavera.
Il caldo tiepido delle giornate di mezz’estate.
Il rumore della pioggia.
E quello dei miei passi su di una distesa di foglie ingiallite.

Poi ho cominciato ad interrogarmi su quanto grande possa essere un nodo. Quanto stretto al punto da resistere per una vita intera. Quanto congeniale al punto da averne uno in ogni parte del corpo per trattenere tutto , per non sentire più niente. Né il battito cardiaco né il suono del tuo respiro.
Ed è stato allora che l’ho capito.

Che stavo riempiendo la mia vita di cose che non volevo, trascurandone altre.
Che stavo lasciando andare cose di cui avrei voluto riempire la mia vita al punto da farla scoppiare.
Cose che forse non mi sarebbero mai appartenute. Cose per cui ho deciso di tacere per paura di possedere. O cose per cui ho deciso di raccontarmi un’altra storia che potesse avere un inizio ed una fine pur perdendomi nel mezzo, senza alcuna ragionevole giustificazione che non fosse quella del lasciarsi andare alle cose belle.
Ma le voglio e le ho volute tutte. Quelle che non potrò avere, quelle che ho lasciato stramazzate sull’asfalto, ed anche quelle che forse non avrò.

Allora non so cosa sia l’amore.
Se guardarsi negli occhi e capirsi al primo battito di ciglia.
Se parlarne come fosse qualcosa che possa essere razionalmente spiegato mentre ci si perde l’uno nello sguardo dell’altro.
Se un bisogno, naturale, di sapere che c’è qualcuno accanto a te.
Se un volersi e non dirselo mai abbastanza.
Se sentire nello stomaco che sia lui o lei la persona che non stavamo cercando, ma che abbiamo trovato così, strada facendo, come una margherita in un campo di girasoli in una giornata di solleone.
Se sia come burro su marmellata.
O come una simbiosi che genera fuochi d’artificio. Dentro e fuori.

Qualsiasi sia la forma che gli si possa attribuire, gli opposti si attrarranno ma saranno i simili a restare insieme. 
Se riusciranno a riconoscersi.
Saranno quelli che si cercheranno anche quando si racconteranno di non volerlo.
E non so bene quali siano gli antidoti per creare tutto questo, ma ne conosco pochi che forse d'ora in poi riuscirò a farmi bastare.
Gli occhi.
Il sorriso.
Le parole, che non dovranno mai bastare.
Quella voce, dentro, che ti dice “lascia che sia”.
Sentirsi.
E sarà questo, forse, mentre ci affatichiamo pensando possa essere fatto d’altro.
Sarà forse tutto quello che pensiamo non sia.
E viviamo, spesso, tutto quello che non è e che non sarà mai.


domenica 17 luglio 2016

Io non ho paura

Ho fatto un gioco con la mia vita.
Le ho chiesto se io fossi abbastanza per lei.
Mi ha detto che non ero abbastanza.
Abbastanza onesta con me stessa.
Abbastanza sicura di me stessa.
Abbastanza audace nelle mie scelte.
Abbastanza serena da poter decidere da che parte remare.
Lei mi ha rivolto la stessa domanda.
Credevo di poterle rispondere a tono, dicendole che in fondo si stava sbagliando.
Invece ho capito che lei aveva ragione, e l'aveva sempre avuta.
Tutte le volte che ho avuto paura di scegliere, lei era lì a conservare il conto e a gettarmelo in faccia al primo momento utile.
Quando sarei stata pronta a non aver paura di leggerlo e a pagarlo. Tutto insieme.
Così ho capito quanto bene potessimo stare. Io e la mia vita.
Se solo l'avessimo saputo prima. Se solo ci fossimo interrogate più spesso. Se avessimo interpretato tutti i dettagli come segni del destino. Se solo non avessimo avuto timore di accoccolarci, l'una nelle braccia dell'altra, per capire che se non ci si ama abbastanza si riesce ad amare poco anche tutto il resto.
E se la paura é un sentimento che appartiene ai deboli, a chi non è in grado di scegliere, a chi non si ama fino in fondo, io scelgo di essere forte per amare ogni singola parte di me.
Perché io non ho paura.
Di scoprirmi donna.
Di sapere di essere forte.
Di conoscere tutte le mie debolezze ed attaccarmele al petto per non aver timore di affrontarle.
Di riconoscere chi sono riflettendomi nello sguardo di qualcun altro.
Io non ho paura.
Di sconfiggere quel male che come un cancro ti priva di sprigionare energia vitale.
Quello che ti priva del tuo essere donna, del riconoscerti forte, ma anche debole. Di conoscerti, in ogni tua sfumatura.
Io non ho paura.
Di ricominciare da un nuovo punto di partenza che abbia come prerogativa la consapevolezza che nella vita si sceglie. 
Questo é l'unico modo che conosco per assumere consapevolezza che possiamo scacciare via ciò che non ci è mai appartenuto fino in fondo, senza per questo sentirci colpevoli.
È l'unico modo che conosco per provare a riempire la propria vita di occhi in cui riusciremo invece a riconoscerci.
É l'unico modo per liberarci del superfluo e seguire la via dell'autenticità.
Quella che ci vede di fronte ad uno specchio in cui saremo in grado di riconoscerci.
Pieni di ferite, ma ancora lì a tifare per noi.
E capiremo che scegliamo ogni cosa. 
Così avremo anche scelto di essere felici.

sabato 18 giugno 2016

L'ho chiamato semplicemente amore

Ogni volta che apro il frigorifero impiego circa una decina di minuti nel decidere se sia meglio consumare i cibi di prossima scadenza o quelli che invece desidererei maggiormente.
Lo faccio, tutte le volte, nonostante sappia benissimo sin dal principio quale sarà la mia scelta.
Perchè sceglieró sempre i primi a discapito dei secondi.

La considero una scelta obbligata ma intelligente. Non mi piace gettare via il cibo, mi dico. E con ogni probabilità, la volta successiva mangeró i secondi, che però al giro successivo saranno diventati come quelli per cui avevo optato la volta precedente. Quasi avariati.

L'altro giorno, mentre pensavo al mio modo di scegliere 'intelligentemente' cosa mettere nello stomaco, ho pensato che per una volta avrei potuto contravvenire alle regole.
Cosí, oltre a sentirmi meglio, mi sono saziata di più.
Una volta ogni tanto. Non capita quasi mai, ho pensato.
Ed è stato in quel momento che ho realizzato quanto riuscissi ad adottare questa modalità di scelta anche per tutto il resto, preferendo, quasi sempre, situazioni su cui attacco un adesivo con sù scritto 'da consumarsi preferibilmente entro il ...' a quelle che mi lasciano con il fiato sospeso ed il cuore in gola perchè si disperdono nell'universo come residui di esplosioni stellari che non riuscirai mai a toccare, ma a guardarne la scia da lontano, forse, molto tempo dopo, quando non esistono già più.
Preferendo, spesso, le vite degli altri. Pensando sia giusto cosí. Pensando che in fondo, possa trasformarsi anche nella propria.

Ma da quando ho gustato ció che preferivo nel momento esatto in cui non desideravo altro, disinteressandomi delle scadenze sovrapposte sulla confezione, ho capito che farò sempre cosí.
E non significa contravvenire alle regole.
Nè scegliere in modo poco intelligente.
Ma nutrire e cacciar fuori da ogni poro della propria pelle il rispetto per se stessi, per quello in cui si crede, per ció che in fondo si vuole.

Perchè non esistono regole che ti impongono quando scegliere qualcosa che ci sta a cuore, nè quale sia il modo più intelligente per dargli una forma.
E non esistono mali che ti perseguiteranno, se non il rancore di non averlo fatto.

Gli ho voluto dare un nome.
A questo modo di decidere e a quello che con questo poi si diventa.
A quello che si prova nel farlo.
Gli ho dato un nome banale.
L'ho chiamato semplicemente amore.
Qualsiasi sia la forma, la sostanza, il volto, il profumo ed il colore che gli si voglia attribuire.
Perché non ha scadenze contro le quali si possa combattere, né tempi, illusori, che possano farci credere che finisca, né regole da imporre se non quella che nessuna possa essere così forte rispetto il desiderio di gettarle all'aria.

Perché esistono infinite strade.
Ma sempre una che non riuscirai a non imboccare, anche quando sentirai di averla invece smarrita.

domenica 12 giugno 2016

Spalle sul mondo

Pensavo che il mondo si dividesse in due categorie: quelli che svestendosi di qualsiasi rimorso si sdraiano con la schiena nuda sulle possibilità del mondo, lasciandosele scorrere lungo tutto il corpo e dilatandosi, insieme a loro, ad ogni loro cenno di espansione. E quelli che inghiottono rimpianti, lasciando che questi annichiliscano l'anima rendendo sempre più freddo il pavimento ruvido su cui si sono imposti di rimanere.

Gli uni e gli altri.
Diversi nel loro approccio alla vita, ma simili nei loro desideri.

Ma è stato proprio quando ho constatato ambedue le dimensioni, quella che mi vedeva con la schiena nuda a fare a cazzotti col mondo purchè su di essa fosse dipinta anche solo una fetta dell'universo che immaginavo, e quella che invece mi vedeva ricurva ad accettare ogni cosa mi si presentasse, che ho invece scoperto l'esistenza di un'altra.
Una di quelle che si pone in bilico tra l'accettarsi e l'accettare.
Che rinuncia alle mezze misure per crearne di proprie, soltanto per sè.
Una di quelle che comprendere è una virtù, il perderle di vista un atto di vigliaccheria, verso se stessi.

La immagino come una spiaggia deserta.
O come un campo di girasoli su cui batte forte il sole.
Come quei luoghi in cui riconosci che non puoi prenderti tutto, ma solo quanto basta.
E se non ti basta non è che te lo fai bastare, ma ti approprierai di quello che ti spetta, lasciando il resto al caso.
Farai come chi, sdraiato con la schiena sul mondo, farà di quest'ultima una cartina, i cui contorni saranno disegnati da volti e da emozioni. Da circostanze e da bivi dinanzi i quali scegliere. Da strade da percorrere e da possibilità, colte o cedute.
Perchè alla fine non sarà importante quanto sia scritto lungo tutto il tuo corpo, ma con quanta passione tu abbia voluto dipingere tutto ciò che il tuo corpo racconta.
Ed è cosí che, ad un certo punto, saprai anche dire basta. Perchè ti sarai riempito di cosí tanta bellezza che non ci sarà più nulla da aggiungere, anche quando avresti immaginato contorni diversi da quelli raffigurati.

Riuscirai a fermarti, ma lo farai per te stesso.
E per quella voglia matta di non annichilirti lasciando che le tue guance restino schiacchiate su di un pavimento freddo.
Ma per incidere su di te altre storie.
Altre strade.
Altri paesaggi.
Altri volti.
Altre emozioni.
Per cercare altri corpi, forse, che sapranno sdraiarsi con te, dando le spalle a quel mondo in cui avevi sempre immaginato ci fossero soltanto due possibilità: espandersi con forza e passione o guardare dal basso.
Per poi scoprire o lasciarti insegnare che talvolta bisogna anche alzarsi ed andare.
Il bilico tra l'accettare e l'accettarsi consiste proprio in questo: avere occhi profondi da poter cogliere tutto, e spalle possenti abbastanza da poterti voltare e disegnare altre vie.

giovedì 2 giugno 2016

La vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti


Molto spesso mi sono imposta delle scadenze al termine delle quali tiravo delle somme.
Questo lo facevo, e tuttora lo faccio, per capire se stia proseguendo nella direzione giusta, dove per giusto non pongo come condizione una serie di equazioni che diano tutte lo stesso risultato, ma numeri messi lì, anche a caso, che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, diano un risultato modesto, che possa essere solo il primo di tanti altri.
Come mattone su mattone, un passo dopo l'altro.

Ci sono stati dei momenti in cui il sottrarre mi sembrava la strada più comoda da seguire.
Altri in cui quest'azione proseguiva in modo inarrestabile e non ero io a gestirla.
Momenti in cui invece ho aggiunto numeri aspettando si moltiplicassero con altri.
Momenti in cui questo è accaduto, altri in cui ho capito che l'attesa doveva essere colmata da altro prima che questo accadesse.
Momenti in cui pensavo di condividere, e invece poi ci hanno diviso.

Ma se oggi dovessi dare un nome a tutto questo, non ce ne sarebbe uno appropriato.

Nè momenti, né lezioni di vita.

Perché i momenti fanno pensare a qualcosa di temporaneo, a quegli scatoloni chiusi con il nastro adesivo perché sono fragilissimi e non vogliamo toccarli, né tanto meno aprirli. 
Quelle bolle di sapone in cui soffiamo pochi istanti dopo averle create per annusarne solo il profumo nell'aria, che man mano sfuma, che odora già di passato.
Ed invece questi si collocano in una dimensione senza tempo ed in scatoloni rigidi e tutti aperti, in cui non si annusa la puzza di stantio delle soffitte in cui si nascondono cianfrusaglie inutilizzate.
Sono come numeri che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, non abbiano ancora portato ad un risultato esatto e definitivo, nonostante sembri tutto già accaduto.

Nè lezioni di vita, perché tutte le volte che pensavo di aver appreso la lezione, scoprivo che ci sarebbe stato ancora tanto altro da imparare o che, forse, non sarei mai riuscita ad imparare una sola pagina a menadito. 

Ma se c'è una cosa che ho imparato man mano che i momenti si susseguivano e che ricevevo pagelle al termine di ogni lezione, è che non si deve necessariamente dare un nome alle cose, perché non tutte le emozioni, gli attimi, le esperienze ed i bagagli che ci portiamo dietro ne hanno bisogno.

Perché esistono cose che possono avere un metro di paragone, di cui si possono descrivere i contorni, indicare le gradazioni di colori, per cui addirittura immaginare un suono o un profumo.
Ed altre che invece nascono così, prive di connotazione.
E non attendono che tu ne possa trovare una.
Si addizionano perché tu possa credere nella loro esistenza.
Si sottraggono perché tu non possa pensare di poterle possedere per sempre.
Si moltiplicano perché tu possa crederci.
Si dividono, come strade.

Perché la vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti.
Una serie infinita di tappe in cui ciascuna sarà come un ponte per l'altra.
Quella in cui non ti sentirai forse mai arrivato abbastanza, fin quando non ti volti e contando i passi che ti separano da dove sei a dove hai cominciato, capisci l'unica cosa che conta: ne è valsa la pena.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 3 aprile 2016

La stagione della resilienza

Ho capito quanto la resilienza fosse parte integrante di un processo di cambiamento solo dopo esserci entrata dentro tante volte.
Quando le cose non riuscivano a cambiare me ed allora io cambiavo le cose.
Solo quando ho capito che ci saranno sempre mille strade alternative per non sbatterci contro, ma solo una che vale la pena percorrere. Quella nascosta, a tratti invisibile, buia, dal selciato fangoso e a tratti impervio, ma la più vera. Quella in cui non incrocerai sempre volti gentili, né sorrisi raggianti, né sempre una mano tesa in tuo soccorso ogni volta che la vorrai.

Ma ho anche capito che la resilienza non è un qualcosa di innato.
Né di logicamente precostituito, per cui se si è pronti al cambiamento significa che lo si debba accettare escludendo automaticamente qualsiasi peso dal cuore.
E nemmeno un qualcosa che va insegnato.

Lo si impara, come fosse una regola da porre in cima alle nostre priorità.
E lo si amalgama a tutto il resto, come un ingrediente aggiuntivo che seguirà ogni avvenimento.
Come pochi granelli di zucchero in una tazza di caffè.

Ne si assume consapevolezza scrutando negli occhi di chi non avremmo mai voluto incontrare se avessimo optato per un percorso alternativo.
Ma anche di chi ci ama, mentre ci promette che andrà tutto bene.

Ed allora impareremo a sfidarla.
Davanti le rimanenze di un take-away della sera precedente preso in un ristorante cinese, pur essendo un giorno di festa.
Davanti scatoloni da riempire per traslochi imminenti da trasportare chi sa come.
Davanti un armadio che sarebbe stato sempre troppo pieno o valigie troppo piccole per portare con me ogni cosa.
Quando certe parole devono bastare per colmare le distanze, pur non attutendo le mancanze.
Quando la pazienza riuscirà a prendere il sopravvento sull'insoddisfazione.
Quando comprendi che cosí come la vita sia trascorsa per te, lo stesso sia avvenuto anche per gli altri.
Che le persone cambiano, cosí come sei cambiato tu.
Che possiamo scegliere di cambiare le cose se non accettiamo che siano loro a cambiare noi, ma può capitare che queste l'abbiano già fatto prima ancora che ce ne si renda conto.
Possiamo cambiare pensando di catapultarci in un nuovo inverno in cui nessun piumone sarà abbastanza caldo per riscaldarci.
Oppure possiamo farlo pensando sempre che fuori sia primavera.

È questa per me la resilienza.
Non soltanto adattarsi in maniera positiva a qualsivoglia evento ci capiti, ma imparare ad accettare anche quello che non possiamo cambiare.
E non è vero che col tempo queste cose ci cambieranno solo perché avremmo imparato a conviverci.
Scompariranno, cosí, all'improvviso, in un giorno di primavera.
Proprio quando avremmo imparato ad annusarne i primi boccioli.
Proprio perché avremmo deciso di farlo quando nessuno se lo sarebbe aspettato.
Quando tutto ci diceva il contrario, ma abbiamo preferito non ascoltare.


sabato 6 febbraio 2016

Siate donne, siate leonesse


Fino a qualche tempo fa mi comportavo come il mio gatto che va a nascondersi per espellere i propri bisogni e poi li sotterra tra i sassolini della lettiera, in attesa che qualcuno vada a scovarli per rimuoverli.

Perché esiste questa categoria di persone. Quelle che fanno come i gatti.
Ed io ne facevo inconsapevolmente parte, fin quando un giorno ho capito che non volevo essere quel tipo di donna.

Quella che si nasconde per timore di palesare i propri bisogni.
Quella che li esprime sotto voce, per timore che facciano troppo rumore.
Quella che li sotterra, non perché li reputi poco importanti, ma in attesa che qualcun altro li scopra e faccia qualcosa per portarli in superficie.

Cosí un giorno ho scoperto che volevo essere quella donna che mette i propri bisogni al primo posto. Che li urla, fino a sgolarsi. Che li sbatte in faccia a chiunque, affinché nessuno possa giustificarsi dicendo di non esserne a conoscenza.

Poi, col tempo, ho scoperto che questo sodalizio che avevo stretto con il mondo esterno non era destinato a durare. 
Perché chi mette i propri bisogni al primo posto diventa egoista nei confronti dell’altro.
Chi li urla rischia di bombardare le orecchie con il suono di quello che diverrà man mano soltanto un’eco.
Chi li manifesta come se non vi fosse altra che quella priorità, assoluta ed immediata, rischia di diventare schiavo delle persone. Della richiesta a loro rivolta di accondiscendenza, in ogni caso.

Cosí ho cercato una via di mezzo, catalogandomi tra le persone-gatto e tra quelle che credono di avere il mondo ai loro piedi. 
Mi sono riservata uno spazio in questa giungla, e ho capito che potevo essere una leonessa.

Le donne-leonesse siglano un patto di forza, tra loro stesse e tra loro ed il mondo.
Un compromesso tra i loro punti deboli e quelli saldi, in cui non vincono sempre i secondi a discapito dei primi.
Perché palesano i propri bisogni mettendoli in cima alla lista, consapevoli però del fatto che lì non potranno restare per sempre e ad ogni condizione. Perché forse questi stessi cambieranno cedendo il passo ad altri. 
Li esprimono con tono maturo di chi sa ciò che vuole.
Non li sotterrano mai, né lasciano che qualcun altro li scopra. 
Lo faranno da sole, perché avranno scelto di non essere schiave.

Ed è allora che ho scoperto che non volevo essere né quella donna, né l’altra.
Che desideravo sentirmi una leonessa, perché così non sarei mai stata schiava dell’accondiscendenza altrui. Perché mi sarei sentita sempre forte abbastanza, così da non aver alcun timore di palesare le mie debolezze.

Perché chiunque scelga di far parte di una simile categoria lo sa. 
Che quando avverti che le debolezze ti portino a fondo come un fiume in piena, questa può rivelarsi invece un’opportunità per sentirsi più forte.
Che il silenzio o le urla ti rendono solo una persona timorosa o una persona egoista.
Che spesso è necessario porsi al centro per guardare il mondo circostante con la giusta equidistanza.
Che in fondo i tuoi bisogni sono importanti, e dovrai esserci tu quando sarà il momento di soddisfarli. 

Che non esiste assenza più incolmabile di quella di non esserci per se stessi.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

martedì 26 gennaio 2016

Quando per innamorarsi servono gli occhi degli altri

A lui avrei perdonato tutto. Anche il maglione con i richiami natalizi, che da brava veterana, ho deciso a malincuore di lasciare al freddo delle mensole nell’armadio già da una ventina di giorni, subito dopo la fine delle festività natalizie.
Su di lei, invece, ho avuto delle riserve sin da subito. Ma a primo impatto, non le avrei mai perdonato le calze color carne, le ballerine ed il giubbotto di pelle nonostante fuori piovesse e ci fossero zero gradi. In fondo lo sanno tutti, le ballerine sono perfette per le giornate di pioggia.

I due erano in un pub, poggiando i gomiti sul bancone di legno massiccio, e mi erano di fronte quando lui le offriva da bere e le versava la birra in un bicchiere di cristallo.
Sarebbe stato un gesto di gentilezza qualunque, se lui non l’avesse guardata in quel modo. 
Come se dovesse fare qualsiasi cosa gli fosse concesso per meritarla, come se si sentisse non abbastanza. Come se domani fosse troppo tardi, perché lei sarebbe già stata di un altro.

La annusava, come se le sue narici non fossero in grado di percepire nessun altro profumo se non quello della sua pelle. Le toccava il braccialetto che aveva al polso e poi le ha detto qualcosa che le ha fatto accennare un lieve sorriso sul viso, mentre lui ha cominciato a ridere di gusto. 
Poi le ha portato una ciocca di capelli che le si poggiava sulla fronte nascondendole l’occhio sinistro dietro l’orecchio. 
Ad un certo punto però le avrà detto qualcosa che l’ha infastidita. 
Così lei ha accantonato il modo disincantato di lui di essere uomo accondiscendo al suo celato desiderio di sentirsi donna il doppio.
Il suo modo semplice di farsi entrare dentro il suo profumo, nonostante non si riuscisse a percepire altro che quello del malto d’orzo impregnato persino nel bancone di legno massiccio.
La sua risata incontrollata, anche quando lei vi ha posto un freno.
Il suo desiderio di volerla guardare dritto negli occhi scostandole i capelli che le coprivano il viso.

Cosí si è irritata. Il suo corpo si è irrigidito, mentre sorseggiava la birra come fosse un sistema per scaricare l’ansia. Immagino che lei sperasse che continuasse tutto come stava andando sino a quel momento. Ma invece lui è tornato al suo posto, sedendosi su di uno sgabello libero a qualche centimetro in più di distanza.

Poi li ho persi di vista, ma ho cercato di immaginare un finale che fosse verosimile.

L’unica immagine che la mia mente è riuscita a concepire è stata quella di lei che si strappa i capelli per lui, e di lui che, invece, preso dalla disillusione di quanto quella donna audace abbastanza da poter indossare un paio di ballerine in una giornata di pioggia non fosse poi così speciale, l’aveva scaricata.

Perché in fondo noi donne siamo fatte un po’ tutte così: crediamo di essere speciali, e questa convinzione diventa la più grande delle nostre frustrazioni.
Per questo ci fa credere che dobbiamo dimostrare il nostro essere donne nel tenere tutti alla larga e nell’imporre sempre le nostre condizioni. E spesso ci rende anche cieche.


Perché magari avessimo gli occhi degli altri. Saremmo in grado di innamorarci più spesso della persona giusta.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

mercoledì 30 dicembre 2015

Quando tutto diventa un alibi

L'altro giorno la pigrizia ha miracolosamente abbandonato il mio corpo, cosí ho pensato non avessi più alcun alibi per non andare in palestra. E dato che di alibi me ne procuro già abbastanza, ho ceduto alla tentazione di non farlo anche stavolta, accarezzata da un lieve venticello e da raggi di sole stranamente tiepidi per una giornata di fine dicembre.

E proprio mentre ero lí, a contare i minuti che mi separavano tra il tapirulan ed il poggiare i piedi su di una superficie statica che non imponesse alcun esercizio fisico, il mio sguardo si è poggiato su di un uomo, nemmeno troppo anziano, che indossava una maglia giallina a mezze maniche, un pantalone chiaro e delle scarpe marroni. 

La mia attenzione è calata su di lui, come luci su di un sipario, non perchè indossasse un abbigliamento poco sportivo e forse non consono ad un ambiente come quello. Ma l'uomo andava in giro per la sala con un bastone con cui si aiutava per passare da un attrezzo all'altro, prima di lasciarlo quando trovava qualcos'altro cui appoggiarsi. 

Vederlo girovagare per la sala tra busti che sembravano scolpiti nel marmo lo rendeva quasi diverso dagli altri. Ma quando saliva su di un attrezzo qualsiasi, ponendo il bastone vicino la parete alla sua sinistra, diventava come gli altri: uno che, in una giornata di fine dicembre, dai raggi di sole stranamente tiepidi, aveva deciso di allenarsi. Con quegli indumenti lí. Nonostante fosse claudicante. Nonostante non riuscisse a camminare se non per aiuto di un bastone.

Ed allora ho speso l'intera mattinata in palestra ad osservarlo, quasi come se volessi emularlo. 
Perchè in fondo è vero che siamo i primi boicottatori di noi stessi.
Lo facciamo con i nostri desideri, quelli cui ad un certo punto attribuiremo l'aggettivo dell'impossibile, solo per non ammettere di non averci creduto abbastanza.
Lo facciamo con le circostanze che avremmo voluto vivere, se solo non avessimo avuto paura di saltarci dentro anche quando tutto ci diceva di non farlo.
Lo facciamo con le persone, quando ci convinciamo che non hanno fatto abbastanza, senza contare ciò che noi, invece, avremmo potuto fare.
E lo facciamo con la nostra felicità, quando crediamo di non poterla meritare.

Ho cercato, per giorni, qualcosa da aggiungere alla lista dei buoni propositi di quest'anno.
Come un rituale che osservi nonostante finisca tra quelle abitudini che forse non inizierai mai.

Ma poi ho capito che quest'anno non ci sarebbe stata alcuna lista nè un alibi che giustificasse le mancate scelte.

Quell'uomo è diventato il simbolo di un anno in cui ho spazzato via gli alibi sull'uscio della porta, e mi sono arrampicata, anche quando credevo potessi cadere. Ma nonostante tutto, non ho smesso di farlo. E quando non potevo, mi costruivo un bastone e proseguivo, insieme a lui.

C'è l'abitudine di augurarsi che l'anno che verrà sia sempre migliore del precedente.
Io invece lo desidero esattamente cosí come è stato.
E di scoprire, solo alla fine, cosa hai imparato e chi sei diventata.
Come guardare un film muto in una sala per pochi.
Attraverso chi, intanto, ti sta insegnando che a poco conta augurarsi il meglio, se prima non sei tu ad andartelo a prendere. A qualsiasi condizione, e con ogni mezzo.

Quell'uomo me lo stava insegnando, in una giornata di fine dicembre qualunque.
Che siamo tutti scalatori, amatoriali o professionisti, con una meta da raggiungere.
Ed i mezzi, spesso, riducono i limiti. Le ragioni li vanificano.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

lunedì 28 dicembre 2015

Gocce di empatia

Empatia.
Nel linguaggio psicologico, è una forma di immedesimazione negli stati psicologici dell'altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o "comprensione", del suo comportamento. In sostanza, la capacità di porsi nella situazione di un'altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell'altro.

Io invece ho sempre pensato fosse un altro modo per comunicare.
Quello che si sceglie in modo naturale quando non c'è altra alternativa alla distanza.
O quello che si scopre imparando ad osservare qualcuno che ci è sempre accanto.
Quel linguaggio che lega fili di silenzio in un mucchio e che ad un certo punto si lascia cadere, cosí che ogni filo scivoli via per raggiungere l'altro, senza alcuna possibilità di essere riavvolto.

Ho sempre creduto vi fosse un modo di sentire differente.
Quello che di fatto appartiene già a chi sente troppo tutto.
A chi è in grado di cambiare la vita di qualcuno, ma sempre con la massima cautela.
A chi entra nella tua vita e prima di andar via ti chiede perdono.
A chi rovescia tutto e prima di gettarne i cocci cerca di rimetterli insieme.
A chi prima di attaccare una fotografia alla parete, pensa alla parete appiccicosa che non andrà più via se un giorno deciderai di rimuoverla.

Ho sempre creduto che una cosa come questa appartenesse a queste persone qui.
Quelli che si prendono cura di te al punto da pensare a quello che potrai essere un domani e mitigare le loro scelte per non compromettere quelle che forse un giorno potranno essere le tue.
È una sorta di missione. Entrano dentro di te, senza sconvolgerti la vita.

Credevo che potesse essere una qualità da apprendere o una di quelle con cui ci devi nascere.

Invece ho capito che si trova.
Per caso, in un giorno qualsiasi, o negli occhi di chi al principio ti apparirà come uno qualunque.
Si addiziona, come un'operazione algebrica.
Si moltiplica, come una radice quadrata.
E poi si mescola, come una poziona magica.

Prendi uno, per esempio, che creda di conoscerne già il procedimento, ed un altro che non si sia mai interrogato sulla possibilità di farlo.
Li metti insieme ed entrambe capiscono che ne vale la pena.
Chi credeva di conoscere tutto ciò che bastava, imparerà a conoscere ciò che credeva non potesse meritare.
Chi credeva di non saperlo fare, apprenderà ciò che credeva non potesse esistere.

Uno dei due pronuncerà quello che avrebbe detto l'altro appena un attimo dopo, se solo i suoi attimi durassero meno.
Entrambe colmeranno le distanze con gesti di pochi secondi, che appariranno come attimi di gioia infiniti.
Riusciranno a mettere in ordine le cose, lí dove era giusto che stessero.
Saranno gli unici in grado di comprendersi anche in silenzio.
Perchè avranno scoperto come sentirsi, in tutti i modi in cui sia possibile farlo.

E niente, questa è l'empatia.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.




domenica 29 novembre 2015

Una casa normale

Adesso vivo in una casa normale. A me piace chiamarla cosí.
Quella dove esiste un confine reale tra la tua camera da letto, il soggiorno e la cucina.
Quella in cui hai piazzato un divano, finalmente comodo, su cui spendere il resto delle tue giornate dopo il lavoro, o che potrà diventare una plausibile sistemazione di chi, si spera, ti verrà presto a trovare.
Quella in cui c'è spazio in sovrabbondanza, per comprare finalmente un mobile in cui riporre i tuoi libri su di ogni scaffale ben in vista. Dove appendere alle pareti un quadro che ti piace tanto e delle fotografie, quelle che ti hanno seguito ovunque tu sia andata, come a voler svelare parte della cesta dei tuoi ricordi, ma mai abbastanza.

Quella in cui per i tuoi vestiti non ci sarà mai abbastanza spazio, ma almeno riuscirai ad identificarli nel tuo armardio nuovo più capiente, ancora con gli occhi gonfi di buon mattino, senza convincerti di averli maldestramente persi. E poi dove?

Quella che per tre giorni di fila hai rassettato con cura, rimuovendo ogni briciola dal parquet, ordinando tutto a tua immagine e somiglianza, perchè si sentisse nell'aria il tuo profumo, perchè raccontasse qualcosa di te, perchè sembrasse perfetta nonostante le tue imprecisioni.

Come un traguardo che pensavi non potessi mai raggiungere, eppure è arrivato prima del previsto. Proprio mentre ricordavi il tuo soggiorno in una casa per dodici, con una pila di piatti di sporchi nel lavabo che avrebbero atteso il ritiro dei soldati in Afghanistan per essere puliti e la carta igienica nascosta come fosse un prezioso arsenale. Mentre ricordavi, accennando un sorriso, il tuo passaggio in una casa con la metà dei coabitanti, ma pur sempre un campo di battaglia. O mentre ricordavi, appena un anno fa, quando mettesti piede in una casa, piccola ma accogliente, che fosse solo per due. Dove il confine tra la camera da letto, il soggiorno e la cucina era inesistente. Dove ti sei convinta che il divano fosse comodo, nonostante non lo fosse. Dove riponevi i tuoi libri in cima all'armadio, che risploveravi di tanto in tanto. Dove non c'era spazio a sufficienza per appendere ai muri tutti i tuoi ricordi, qualcuno lo lasciavi nel cassetto. Dove ogni giorno perdevi una camicia nell'armadio, ma il giorno seguente ne recuperavi un'altra.

Non ho cambiato zona, e nemmeno l'edificio. Sono scesa semplicemente di qualche piano. Ed è per questo, che proprio l'altra sera, mentre ero in giardino ho alzato gli occhi verso quella finestra chiusa al secondo piano, con le luci oramai spente e senza più fiori sul davanzale.
Ho immaginato la mia figura sporta alla finestra e quanti pensieri in poco più di un anno abbia lasciato su quel davanzale.
Ma è successo solo quella sera. Ho deciso di lasciarli lí, almeno quei ricordi, perchè qualcuno meritava di essere spento come le luci di quella casa.
Ho capito che non avevo bisogno di portarli con me. Avrei voluto, forse, ma probabilmente sono stati loro a scegliere di non seguirmi, per rimanere in una stanza buia, dalle pareti bianche, lasciando che sia il silenzio a colmarli.

Perchè tutto cambia. Le circostanze, le emozioni, le persone, ed anche i ricordi. E cambiano perchè a mutare è il modo con cui a loro ci rapporteremo.

Ma in ognuna di queste fasi ricordo quella sensazione. Palpabile, come il terreno bagnato dopo una giornata di pioggia, e percepibile, come l'aria fresca che al mattino ti entra nelle narici. Mi bastava, ed è sempre stato cosí.

Non desideravo una casa diversa, perchè quello che adesso chiamo "passaggio alla normalità", sapevo di dovermelo guadagnare e che, un giorno, sarebbe arrivato, tra lo stupore del sentirmi felice perchè ho un mio spazio per scrivere, uno per leggere, uno per dormire, un altro per cenare, ed un altro in cui prendere aria anche se piove.

Non sapevo che volto avesse questa felicità, nè che nome attribuirgli. Ma adesso la rivedo in tutti i luoghi precedenti cui ho sempre attribuito nomignoli simili ma mai identici, come fossero un ponte per arrivare a quella che è, e che ancora forse dovrà essere.

Perchè ci vuole cura per far crescere un cuore.
Lo si innaffia a giorni alterni, esponendolo al sole.
Non lo si lascia morire.
Quando muore, lo si butta via e se ne fa crescere un altro.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.


sabato 21 novembre 2015

Occhi sani non conoscono nemici

Ho immaginato di svegliarmi un giorno ed un tratto percepire sulla mia pelle in rancore riflesso negli occhi di perfetti sconosciuti. O di essere io a possedere quegli occhi inquisitori.  

L'ho immaginato mentre lei mi diceva: "Dopo quello che é successo a Parigi, ce l'hanno tutti con noi", raccontando di essere stata verbalmente aggredita da un uomo mentre si trovava in ospedale con sua madre per una visita medica.
Parlando in prima persona, ma al plurale, presupponendo che dall'altra parte ci sia un "voi", ed in mezzo un deserto a separarci. Lei era il noi, io ero il voi. Intercambiabili a seconda del punto di vista dell'interlocutore.

Lei è una mia collega, cui ho scelto di dare un nome di fantasia. Allora facciamo pure che ve la presenti con un nome "occidentale", tipo Monica.


La famiglia di Monica è originaria del Bangladesh, ma lei è nata in un quartiere a Nord di Londra. Non so di che colore abbia i capelli, nè se li porti lunghi o corti, perchè indossa sempre un burka nero in tinta con i colori sobri degli abiti che indossa. Le chiedo spesso di insegnarmi come mettere l'eye liner con la sua stessa precisione, senza rischiare di sembrare un panda ogni volta. Ma probabilmente, nemmeno se riuscissi ad apprenderlo, sortirebbe su di me lo stesso effetto elegante che ha sopra i suoi occhi neri e dal taglio lungo.

In pausa pranzo evitiamo i ristoranti cinesi, perchè dice che non si fida. Potrebbero facilmente spacciare il pollo per halal anche quando non lo è, dice lei.

Quando andiamo al pub il fine settimana, è l'unica ad ordinare una coca cola. Tempo fa, quando ho fatto il vaccino contro l'influenza, mi ha stretto la mano mentre giravo i polsini della camicia e l'infermiera si preparava a farmi entrare l'ago nel braccio. Perchè a ventisei anni, ho ancora paura dell'ago. E lei, nonostante avesse di fronte una donna poco più grande di lei, mi ha detto sorridendo: "I'm proud of you", una volta terminato, assicurandosi ricevessi una caramella alla frutta subito dopo, come fosse un premio, come si fa per un bambino terrorizzato. 

Monica non ha mai conosciuto la guerra.
Non ha mai visto il cielo del Medio Oriente.
Non ha mai annusato l'odore della polvere da sparo.
Non sa maneggiare un kalashnikov.
Non ha un fidanzato di vent'anni più grande di lei.
Non pensa di diventare la schiava di nessun uomo. Probabilmente una madre, ma è ancora troppo presto.
Prega Allah, perchè questo è il nome del suo Dio. Ma organizza un minuto di silenzio per la commemorazione dei caduti inglesi nella guerra mondiale, cosí come per le vittime degli attacchi a Parigi.
Monica non ha la minima conoscenza sull'educazione impartita ai bambini nei villaggi sotto il controllo dell'Isis. Gliel'ho raccontato io, in modo approssimativo, dopo aver visto un documentario.
Invece lei mi ha detto che il principe dell'Arabia Saudita ha più di centoventi figli e trenta mogli, ma che nonostante il loro sangue blu, non vorrebbe mai essere tra queste, e nemmeno essere associata ad una cultura cosí estremista.

Monica è musulmana. Fa parte di quel "loro" che attribuiamo ad un popolo intero, suddividendoli per sottocategorie cui riserveremo lo stesso sguardo. Quello che attribuisce loro colpe di altri. Che li guarda con lo stesso spavento di chi crede che potrebbero farsi saltare in aria da un momento all'altro, e noi con loro. Quello sguardo che li etichetta come impositori di una cultura ed una religione pronte a smembrare le nostre.
Perchè in fondo, chi è che il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi non si sia imbattuto in uno di loro e non li abbia guardati con rabbia, o semplicemente con spavento. 

Ed anche Monica ne era a conoscenza, non appena ha aperto la porta dell'ufficio, che quello non sarebbe stato un ordinario lunedí come gli altri. E l'ho capito quando ogni pretesto si è per lei trasformato in un motivo giusto per parlare della sua religione, della sua cultura, della sua gente, per spiegare il suo punto di vista, cosa che prima non aveva mai fatto. 

E lo sapeva anche lui, cui darò un altro nome di fantasia, tipo Marco. Ma che quel lunedí ha scelto di reagire in modo diverso. 
"Ho visto che hai scritto qualcosa su Parigi", mi ha detto.
Ed io ho soltanto annuito, perchè per me si trattava di un lunedí diverso dagli altri, ma pur sempre un lunedí in cui fatico per le prime ore del mattino a mettere insieme frasi di senso compiuto.
Ed allora pensando che avessi scritto qualcosa di male che non sarebbe stato in grado di tradurre, mi ha detto: "Mi dispiace, sono solo degli assassini."
Ed io, ascoltando quella frase, ho sentito il bisogno di svegliarmi sul serio tutto d'un tratto. 
Perchè l'aria era pesante e ho avvertito quanto sentisse il peso della giustificazione per qualcosa di cui lui non era colpevole. Quanto mettesse sulle mie spalle il peso di una superiorità che non desideravo possedere. 
Cosí ho rotto il silenzio aprendo la busta dei biscotti che abbiamo messo al centro del tavolo per mangiarne qualcuno insieme. È stato il primo gesto istintivo, per smorzare quell'atmosfera che più che paura, sapeva di qualcosa di irreale che intanto si consumava di fronte i nostri sguardi impotenti.

Ma è ciò che è accaduto in un lunedí che poteva essere come tutti gli altri, ma che purtoppo non lo è stato. 
Perchè io ho sempre detto di essere cristiana, loro musulmani. Ma se l'avessimo saputo, avremmo forse evitato di puntualizzarlo troppe volte, per non scambiarci pesi gli uni con gli altri, che nemmeno ci spettano. Per non aspettare risposte o rassicurazioni che non siamo tenuti ad offrire.

Ma la domanda che mi sorge spontanea non è se questa sia una guerra giusta o sbagliata. La sola idea che si faccia chiamare guerra, dovrebbe d'istinto metterci tutti uniti e puntargli il dito contro. 

Vorrei piuttosto sapere cosa state insegnando ai vostri figli o nipoti, per comprendere cosa possa insegnare ai miei tra qualche anno. 

Come faccio ad insegnare a mio figlio che quelli con la barba lunga e la carnagione scura, quelli che riconoscono in Allah il proprio Dio e ne Il Corano il loro testo sacro, sono diversi, per questo potenziali nemici?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che gli esseri umani non sono tutti uguali, e che esistono culture superiori alle altre?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che aggredire fisicamente o verbalmente qualcuno non è una cosa giusta, ma se il soggetto in questione è il nemico cui tutti sembrano aver dato quel volto, potrebbe essere giustificato?

Non so che state dicendo ai vostri. Io sono sicura che al mio lascerò la libertà di scegliere cosa sapere solo dopo aver sperimentato, lasciandolo solo in quest'esplorazione.

Perchè so già, con molti anni in anticipo, che alla fine lo capirà anche lui o lei. 

Che Monica e Marco non rappresentano il nemico. Che se pensiamo possano esserlo, saremo destinati a possedere occhi inquisitori. Quelli che osservano il diverso con disprezzo, rinunciando alla curiosità dello scoprire.
Spero allora che, come me, sceglierà di avere occhi sani. Che non significa svuotarsi completamente dalla paura, ma trattare tutti con grazia, non avere inutili pesi sul cuore, guardare tutti come esseri umani, per riuscire a domarla.

Ve l'ho voluto raccontare, per lasciare a voi la possibilità di scegliere da che parte stare.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 15 novembre 2015

"Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison..."

Da poco più di quarantotto ore tutto il mondo si stringe al dolore del popolo francese.
Lo si fa un po' tutti, mentre c'è chi chiama bastardi un intero popolo: uomini barbuti, donne con il burka, bambini, tutti. Come se fosse un dato precostituito che tutti siano armati di kalashnikov o pronti a farsi saltare in aria.

Mentre c'è chi richiama chi vuole pregare, perchè piuttosto sarebbe più importante pensare.
Mentre c'è chi si azzuffa su chi abbia delle reali responsabilità.
Mentre c'è chi, alla cieca, getta nella cesta dei colpevoli tutti: dall'Oriente all'Occidente.
Mentre c'è chi è pronto a stanare l'ultima gaffe di un qualche politico di turno, per poi non risparmiarci nemmeno il commento.
Mentre c'è chi asserisce che ogni giorno si muore, non solo a Parigi.

Ed è vero che non esistono morti di serie A, B o C. Ma il pensiero che quasi 130 morti in casa nostra scuotano più di mille in altre parti del mondo, sfugge alle regole di logica anche dell'animo più sensibile, purtroppo.

Ma oggi è a lei cui ho rivolto il mio pensiero, a Valeria. Alla studentessa della Sorbona trovata morta nell'attacco al Bataclan. E non perchè la sua morte valga più delle altre centoventotto, nè di quelli che ogni giorno perdano la vita in quei Paesi che non abbiamo mai visto con i nostri occhi, ma in cui sappiamo solo che tutto ciò avviene a scadenza quotidiana.

Perchè lei incarna quello che siamo anche noi, forse, quando prepariamo una valigia per dirigerci all'estero. Quando la carichiamo di tutte le aspettative che la vita può riservarci solo se ad essa ci apriamo abbastanza. Quando decidiamo di andare in un altro Paese per studio, lavoro, o solo alla ricerca di qualcosa che sia lí ad attenderci per cambiare il corso delle nostre vite. Quando crediamo in un' Europa unita che sia pronta ad accoglierci e a cui daremo il meglio di noi. Quando crediamo in un mondo che è cosí grande da poterci districare liberamente. Quando crediamo che non esistano confini segnati da una lingua diversa, da una cultura distante dalla nostra, e forse anche da una religione, perchè, alla fine, apprenderemo tutto cosí da poterlo rendere parte della nostra quotidianeità. E quello che non possiamo imparare, cercheremo di comprenderlo, ed accettarlo, comunque.

Perchè oggi i genitori di Valeria, sono anche un po' i nostri. Quelli che supportano un figlio in ogni sua scelta. Quelli che gioiscono al solo pensiero di vederlo tornare di tanto in tanto, anche solo per vedere il letto disfatto. Quelli che si stringono, con dignità, in un dolore che non è paragonabile a nulla: scoprire che il proprio figlio non riuscirà mai più a raggiungere la casa in cui è cresciuto.

Potevamo essere Valeria, o qualcun altro. Potevano oggi essere i nostri genitori a piangere.

E sí, la paura. Quella paura che possa riaccadere. Quella che non conosce nessuna dimensione, o spazio temporale, o area geografica. Quella che non risparmia nessuno e che ci rende tutti schiavi.

Ma come diceva Marcel Proust: "Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison, dont nous ne savons pas nous débarrasser - il nostro amore per la vita non è che un vecchio legame di cui non ci sappiamo sbarazzare".

Lasciamo che lo sia. Lasciamo che sia l'antidoto più prezioso per vincere la paura. Lasciamo che lo sia, nonostante il dolore. Questo non dovrà togliercelo nessuno. Come se si immaginasse di passeggiare per le strade sulle note della vie en rose, in un mondo simile a quello di Amelie, come se si partecipasse a jeaux d'enfants.

Il mondo è diventato un posto invivibile, ma se ci si arrende a questo postulato, significherà che avremo già perso.



Quando torni? il mio romanzo che affronta l'altra faccia della migrazione in Regno Unito, dando voce alle storie degli italiani che lasciano il proprio Paese. Disponibile in ebook su Amazon, Itunes, Scribd, Kobe, Barnes&Noble, Smashwords e Lulu.com e su quest'ultimo anche in versione cartacea.




domenica 25 ottobre 2015

Le conseguenze dell'autunno

Sarà che mi lascio cullare dalla stagione autunnale.
Dall'aria fresca, dalle foglie ingiallite che coprono l'asfalto, dalla sequenza di alberi quasi spogli che il mio sguardo segue come a volerne disegnare le curve.

Sarà che in autunno sento di mancarmi. Un po' e solo qualche volta.
Quando vorrei farmi entrare nei polmoni tutta l'aria respirabile.
Quando vorrei colorare le foglie ed immaginare di accogliere una nuova primavera in anticipo.
Quando vorrei prepararmi una tazza di cioccolata calda, solo per annusarne il profumo, perchè non ho bisogno che il suo tepore mi riscaldi le mani.

Perchè mancarsi significa perdere quella parte di sè che respirerebbe a pieni polmoni, senza mai fermarsi anche quando sono pieni, senza mai avvertirne il freddo.
Significa non riuscire a vedere i colori della natura, se non immaginando di ridipingerla su tela.
Significa cercare qualcosa, non perchè ci faccia bene, ma perchè ci siamo convinti che faccia parte della scala dei nostri bisogni, che ad ogni scadenza imposta arrivano puntuali a bussarci alla porta.
Significa che non ci manca niente. Niente che faccia pensare ad un vuoto da colmare. 

Solo quella parte, quella che si imponeva di non lasciare mai i sogni in un cassetto, che sfidava le cose impossibili perchè sapeva che un giorno sarebbe stata in grado di afferrarle, quella che alzerebbe una cornetta per togliersi dei pesi dal cuore, quella che voleva essere grande non per gli altri, nè per se stessa, ma per ciò che sarebbe stata in grado di fare. Quella parte, che a volte sembra nascondersi sotto i binari di un treno, dietro uno schermo di un apparecchio elettronico qualunque, dietro silenzi che sono come singhiozzi che ci salgono in gola ad intermittenza. 

Quella parte manca, un po' e solo qualche volta.

E non so se sia l'autunno o semplicemente la consapevolezza che occorre mancarsi.
Quando cambia la scala delle nostre priorità, quando si comprende che procedere spesso significa lasciare pezzi di te sparsi ovunque, raccoglierli senza mai dimenticarli, pur prospettando per essi una posizione differente. 

Ed è forse questa la sfida più importante: imparare a mancarsi, senza perdersi mai del tutto.
Mancarsi, senza mai lasciare vuoti.
Mancarsi, un po' e solo qualche volta.

domenica 18 ottobre 2015

Scrivete una lista di cose importanti e provate a darle un nome: sarà dignità

Ho pensato alle cose importanti. Quelle cui non potrei mai a fare meno. Di quelle che porteresti sempre con te, perchè ti completano e ti fanno essere quella che sei.
Nonostante ti portino via del tempo. Nonostante siano imperfette. Nonostante sai di non poterle mai concludere del tutto, perchè forse ci sarà sempre qualcosa da aggiungervi.

Ho pensato che scrivere sia una cosa importante, nonostante mi rubi del tempo. Ma credo che sia il tempo più prezioso che io abbia mai impiegato per me stessa.

Credo che conservare yogurt scaduti nel frigo o cianfrusaglie in ogni borsa o essere sempre in ritardo, siano cose imperfette. Ma allo stesso stesso non potrei mai rinunciarvi. Perchè se un giorno mi svegliassi e decidessi di fare spazio nel frigo, di gettare tutta la robaccia che conservo in ogni borsa, o di trovarmi in un posto con dieci minuti d'anticipo, probabilmente non mi riconoscerei. Pertanto, anche queste sono cose importanti. Quelle che mi concedono il lusso di elencare una lista di difetti che ho imparato a farmi andare bene lo stesso.
Perchè la coscienza di essere imperfetta mi fa pensare che anche gli altri lo siano, cosí come certe circostanze, imparando ad accettarle cosí come sono, come ho fatto per me stessa.

Nutrire ambizioni è un'altra cosa importante, ma una di quelle che sai bene non giungeranno mai ad un approdo definitivo. Perchè cresceranno sempre dentro di te, come rami di una quercia pronti a fortificarsi con l'andar del tempo. Man mano che vedrai un ramoscello crescere, ne vorrai sempre un altro, ed ancora un altro, e sempre più grande.

Ho pensato che ognuno abbia la propria lista e che ciascuno sia in grado di riassumerla in una sola parola, quella che sussumerà tutte le altre.

La mia parola importante è dignità.

Scrivere mi dà dignità, perchè se non lo facessi mi sentirei incompleta. È una di quelle cose importanti a cui non potrei mai dire basta. Perchè scrivere mi fa essere quella che sono, nel momento in cui desidero esserlo. Conquisto un pizzico di dignità ogni volta che le mie dita impugnano una penna, che l'inchiostro macchia un pezzo di carta qualunque, che le mie dita scivolano sulla tastiera. Ogni volta che qualche mio pensiero prenda forma in una serie concatenata di parole, ogni volta che mi accingo in una qualche impresa più elaborata. Ogni volta io sono lí. Ad aspettare le parole, a far scorrere i pensieri, a metterli insieme in modo naturale, a creare quello che nel mondo non riesco a trovare o forse a vedere, ma che lí invece ho il potere di immaginare. Sono lí, con me stessa, perchè quella è una cosa importante e merita che io ci sia dentro, completamente.

Trascinare cianfrusaglie nella borsa, conservare yogurt scaduti nel frigo, essere sempre in ritardo, non mi offre la stessa dignità, a meno che ad essa non si attribuisca una differente sfumatura: quella di identità. Quella che potrebbe migliorare, ma che sceglie di essere cosí com'è, perchè ha imparato ad amare le sue imperfezioni. È quando prendi coscienza dei tuoi limiti, senza nutrire la presunzione di volerli sfidare a tutti i costi, che li vinci. E sarà allora che ti approprierai di una delle porzioni di dignità più importanti: non pretendere la perfezione.

Nutrire ambizioni e pianificare mete successive una volta raggiunte le precedenti mi dà dignità. Perchè desiderare qualcosa di meglio per se stessi non è sempre sintomo di una cronica insoddifazione, ma il desiderio di sentirsi infinito ed immaginarsi in un territorio senza confini pur quando ti troverai in una strada stretta apparentemente senza via d'uscita. Ti regala l'immaginazione, quella che ti farà percepire le infinite strade che potrai percorrere come se i tuoi polpastrelli fossero già in grado di palparne l'asfalto. Ed anche quando fallirai, saprai non sarà l'ultima volta, ma è per quella percentuale di riuscita che ancora resta, che varrà la pena provare ancora.

Ciascuno credo abbia una propria di lista. Di esigenze, aspettative, desideri, abitudini. Una propria lista di luoghi, circostanze e persone da non abbandonare. Una sorta di cartella che salveremo con il titolo di "cose importanti".
Una lista che per tutti sarà diversa. Eppure tutte potrebbero essere etichettate in un solo modo, riassunte in quell'unico termine che sembri quasi raggrupparle in un'unica categoria assoluta: dignità.

Quella cui non poter fare a meno perchè ti fa sentire quello che sei esattamente nel momento in cui lo desideri. Quella che non misura tempo e distanze, che non prevede altre priorità. Quella che ti completa ma allo stesso tempo ti fa sentire incompleto, come se non fosse mai abbastanza, come se ci fosse sempre altro da scoprire. Quella che ti elenca una lista di difetti che imparerai ad accettare nonostante tutto, perchè quell'imperfezione fa parte di te, non facendoti sentire diverso o sbagliato, ma solo te stesso, nel pieno della tua umanità. Quella che incontra tanti "ma", che sarà sempre in grado di scavalcare, perchè per ciascuno di questi ci sarà sempre una ragione per andare oltre.

Tutte le cose importanti sono cosí: offrono spicchi di dignità. E qualsiasi sia la forma che scegliamo per essa, sortirà il medesimo effetto: quello di sentirsi tutti interi, pieni, vivi.


domenica 27 settembre 2015

Il viaggio più bello che una persona possa fare

Non ricordo il preciso momento in cui una mansarda per due sia diventata la mia casa.
Ma so che il suo divenire ha seguito un ritmo lento, mentre compravo piante da porre sul davanzale della finestra con il proposito di maturare il pollice verde (che non è mai nato), mentre compravo ingredienti per cucinare un dolce (che ho preparato solo un paio di volte), e mentre appendevo poster alle pareti evitando di lasciarvi segni (che inevitabilmente si sono trasformati in buchi).

Prima di allora c'era un appartamento per sei, ed ancora prima uno per dodici. In nessuno dei due ho comprato piante, preparato dolci per tutti i coabitanti ed avevo solo qualche fotografia attaccata con il nastro adesivo ai lati dell'armadio, per non macchiare le pareti. In nessuna di queste, in verità, ho provato una sensazione simile a quella del sentirsi pienamente a casa. Quella in cui hai la libertà di camminare scalza, senza pensare a quanti microbi stiano facendo capriole nella moquette che riveste il pavimento. Quella in cui puoi sederti sul divano, senza immaginare di dover chiedere un tuo spazio ad altri dodici. Quella in cui se ti scappa la pipí, non sei costretta a fare la fila come se stessi in un bagno del Mc Donald's.

Eppure anche quelle, assumendo toni differenti, erano la mia casa, pronunciandone i suoni in modo poco deciso, come quando leggi una frase tra parentesi che credi sia poco importante.

Ma il tempo insegna che quello che credi abbia un valore approssimativo, diventa spesso quel tassello che congiunge tutti i punti, ciò che si traduce nella causa di tutti i passi successivi e che ne spiega le conseguenze.

Allora sono partita dall'inizio, da quando desideravo di girare il mondo e poi ad un certo punto mi sono fermata. E non perchè stessi rinnegando i miei voleri. Ho semplicemente avvertito quel bisogno naturale di ogni essere umano di sentirsi a casa anche lontano da casa. Quel bisogno di costruirne una, che fosse per dodici, per sei o solo per due, in cui poter veder crescere o seccare le proprie piante, in cui comprare ingredienti per preparare una torta o riporli nel frigorifero, in cui appendere alle pareti i propri ricordi, per guardarli ogni tanto cosí da ridurre la responsabilità della mia mente: quella di raggrupparli tutti in cesta che pur diventando talvolta troppo pesante, decidi di lasciarla lí, proprio sopra la tua testa.

Ma ho cercato di fare un gioco con la mia vita. Come quando entri in un supermercato, compri quello che desideri, approfittando a volte delle offerte, altre accontentandosi di quello che si trova, altre ancora trovando esattamente quello che stavi cercando, pagandone il conto alla cassa al termine del tuo giro. Allora per ogni anno che passa, prima di gettarlo alle spalle e ricominciarne un altro, leggo la lista delle cose che ci ho messo dentro, la analizzo, e poi la pago, tutta.

Ed è stato allora che ho scoperto di quanto più che vagabondare, io desideri che ogni anno sia sempre diverso da quello precedente e dal successivo. Quanto io desideri sperimentare quanti nuovi prodotti sia in grado di mettere nella cesta. Quanto sia grande il mio bisogno di crescere insieme ai miei sogni, e di andare avanti, di anno in anno, nella loro ricerca, nell'appuntarli come su di una lista della spesa, nel pagarli, e nel cercare poi qualcos'altro da aggiungervi.

Credo sia questo il senso del viaggio, quello intimo che silente si insidia nelle fessure di un'anima pronta a sperimentarne tutte le sfumature, e certa di non volersi mai fermare. Pur mantenendo una casa in affitto, continuando a far seccare le proprie piante e a nascondere i buchi alle pareti con altri poster.

Ed è in quest'intimo vagabondare per sentieri che non si conoscevano che si scopre che c'è qualcosa che non cambia, nonostante ci si imponga di farlo. È una sensazione costante rispetto l'anno precedente, che forse l'anno seguente sarà attutita, o forse no, ma sarà sempre lí a chiederne il conto.
E tu forse non riuscirai a pagarlo, te lo trascinerai dietro, prima di capire che quelle sono le cose importanti. Quelle che non potrai appendere alle pareti, nè riporre in una cesta, quelle che credevi di aver cancellato dalla lista. Quelle di cui forse un tempo avresti dovuto prendertene maggiore cura, ma avresti inevitabilmente modificato il corso degli eventi. Quelle che nonostante tutto però restano lí, perchè è in quella zona grigia cui sono state destinate, perchè un tempo ti hanno fatto sentire a casa ed una persona migliore, forse.

Non so quanto sia vero ciò che si dice in giro, che si lascia un pezzo di cuore ovunque tu vada e si costruisce in ciascuno una dimensione che poi imparerai a chiamare casa. Io ho lasciato porzioni di cuore importanti o anche pezzi più piccoli. Tutto il mio cuore o proprio niente. Ma mi piace pensare che sempre, ovunque e con chiunque, io abbia fatto il più bel viaggio che una persona possa fare: ho vissuto, in tutti i modi in cui una persona possa vivere.

domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.