L'altro giorno la pigrizia ha miracolosamente abbandonato il mio corpo, cosí ho pensato non avessi più alcun alibi per non andare in palestra. E dato che di alibi me ne procuro già abbastanza, ho ceduto alla tentazione di non farlo anche stavolta, accarezzata da un lieve venticello e da raggi di sole stranamente tiepidi per una giornata di fine dicembre.
E proprio mentre ero lí, a contare i minuti che mi separavano tra il tapirulan ed il poggiare i piedi su di una superficie statica che non imponesse alcun esercizio fisico, il mio sguardo si è poggiato su di un uomo, nemmeno troppo anziano, che indossava una maglia giallina a mezze maniche, un pantalone chiaro e delle scarpe marroni.
La mia attenzione è calata su di lui, come luci su di un sipario, non perchè indossasse un abbigliamento poco sportivo e forse non consono ad un ambiente come quello. Ma l'uomo andava in giro per la sala con un bastone con cui si aiutava per passare da un attrezzo all'altro, prima di lasciarlo quando trovava qualcos'altro cui appoggiarsi.
Vederlo girovagare per la sala tra busti che sembravano scolpiti nel marmo lo rendeva quasi diverso dagli altri. Ma quando saliva su di un attrezzo qualsiasi, ponendo il bastone vicino la parete alla sua sinistra, diventava come gli altri: uno che, in una giornata di fine dicembre, dai raggi di sole stranamente tiepidi, aveva deciso di allenarsi. Con quegli indumenti lí. Nonostante fosse claudicante. Nonostante non riuscisse a camminare se non per aiuto di un bastone.
Ed allora ho speso l'intera mattinata in palestra ad osservarlo, quasi come se volessi emularlo.
Perchè in fondo è vero che siamo i primi boicottatori di noi stessi.
Lo facciamo con i nostri desideri, quelli cui ad un certo punto attribuiremo l'aggettivo dell'impossibile, solo per non ammettere di non averci creduto abbastanza.
Lo facciamo con le circostanze che avremmo voluto vivere, se solo non avessimo avuto paura di saltarci dentro anche quando tutto ci diceva di non farlo.
Lo facciamo con le persone, quando ci convinciamo che non hanno fatto abbastanza, senza contare ciò che noi, invece, avremmo potuto fare.
E lo facciamo con la nostra felicità, quando crediamo di non poterla meritare.
Ho cercato, per giorni, qualcosa da aggiungere alla lista dei buoni propositi di quest'anno.
Come un rituale che osservi nonostante finisca tra quelle abitudini che forse non inizierai mai.
Ma poi ho capito che quest'anno non ci sarebbe stata alcuna lista nè un alibi che giustificasse le mancate scelte.
Quell'uomo è diventato il simbolo di un anno in cui ho spazzato via gli alibi sull'uscio della porta, e mi sono arrampicata, anche quando credevo potessi cadere. Ma nonostante tutto, non ho smesso di farlo. E quando non potevo, mi costruivo un bastone e proseguivo, insieme a lui.
C'è l'abitudine di augurarsi che l'anno che verrà sia sempre migliore del precedente.
Io invece lo desidero esattamente cosí come è stato.
E di scoprire, solo alla fine, cosa hai imparato e chi sei diventata.
Come guardare un film muto in una sala per pochi.
Attraverso chi, intanto, ti sta insegnando che a poco conta augurarsi il meglio, se prima non sei tu ad andartelo a prendere. A qualsiasi condizione, e con ogni mezzo.
Quell'uomo me lo stava insegnando, in una giornata di fine dicembre qualunque.
Che siamo tutti scalatori, amatoriali o professionisti, con una meta da raggiungere.
Ed i mezzi, spesso, riducono i limiti. Le ragioni li vanificano.
Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.
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