Da poco più di quarantotto ore tutto il mondo si stringe al dolore del popolo francese.
Lo si fa un po' tutti, mentre c'è chi chiama bastardi un intero popolo: uomini barbuti, donne con il burka, bambini, tutti. Come se fosse un dato precostituito che tutti siano armati di kalashnikov o pronti a farsi saltare in aria.
Mentre c'è chi richiama chi vuole pregare, perchè piuttosto sarebbe più importante pensare.
Mentre c'è chi si azzuffa su chi abbia delle reali responsabilità.
Mentre c'è chi, alla cieca, getta nella cesta dei colpevoli tutti: dall'Oriente all'Occidente.
Mentre c'è chi è pronto a stanare l'ultima gaffe di un qualche politico di turno, per poi non risparmiarci nemmeno il commento.
Mentre c'è chi asserisce che ogni giorno si muore, non solo a Parigi.
Ed è vero che non esistono morti di serie A, B o C. Ma il pensiero che quasi 130 morti in casa nostra scuotano più di mille in altre parti del mondo, sfugge alle regole di logica anche dell'animo più sensibile, purtroppo.
Ma oggi è a lei cui ho rivolto il mio pensiero, a Valeria. Alla studentessa della Sorbona trovata morta nell'attacco al Bataclan. E non perchè la sua morte valga più delle altre centoventotto, nè di quelli che ogni giorno perdano la vita in quei Paesi che non abbiamo mai visto con i nostri occhi, ma in cui sappiamo solo che tutto ciò avviene a scadenza quotidiana.
Perchè lei incarna quello che siamo anche noi, forse, quando prepariamo una valigia per dirigerci all'estero. Quando la carichiamo di tutte le aspettative che la vita può riservarci solo se ad essa ci apriamo abbastanza. Quando decidiamo di andare in un altro Paese per studio, lavoro, o solo alla ricerca di qualcosa che sia lí ad attenderci per cambiare il corso delle nostre vite. Quando crediamo in un' Europa unita che sia pronta ad accoglierci e a cui daremo il meglio di noi. Quando crediamo in un mondo che è cosí grande da poterci districare liberamente. Quando crediamo che non esistano confini segnati da una lingua diversa, da una cultura distante dalla nostra, e forse anche da una religione, perchè, alla fine, apprenderemo tutto cosí da poterlo rendere parte della nostra quotidianeità. E quello che non possiamo imparare, cercheremo di comprenderlo, ed accettarlo, comunque.
Perchè oggi i genitori di Valeria, sono anche un po' i nostri. Quelli che supportano un figlio in ogni sua scelta. Quelli che gioiscono al solo pensiero di vederlo tornare di tanto in tanto, anche solo per vedere il letto disfatto. Quelli che si stringono, con dignità, in un dolore che non è paragonabile a nulla: scoprire che il proprio figlio non riuscirà mai più a raggiungere la casa in cui è cresciuto.
Potevamo essere Valeria, o qualcun altro. Potevano oggi essere i nostri genitori a piangere.
E sí, la paura. Quella paura che possa riaccadere. Quella che non conosce nessuna dimensione, o spazio temporale, o area geografica. Quella che non risparmia nessuno e che ci rende tutti schiavi.
Ma come diceva Marcel Proust: "Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison, dont nous ne savons pas nous débarrasser - il nostro amore per la vita non è che un vecchio legame di cui non ci sappiamo sbarazzare".
Lasciamo che lo sia. Lasciamo che sia l'antidoto più prezioso per vincere la paura. Lasciamo che lo sia, nonostante il dolore. Questo non dovrà togliercelo nessuno. Come se si immaginasse di passeggiare per le strade sulle note della vie en rose, in un mondo simile a quello di Amelie, come se si partecipasse a jeaux d'enfants.
Il mondo è diventato un posto invivibile, ma se ci si arrende a questo postulato, significherà che avremo già perso.
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