lunedì 20 maggio 2013

Scelte di vita.

Se è vero che la vita è fatta di scelte, scegliamo sempre noi chi diventare, partendo dal presupposto che stesse scelte significano stessi errori.
Possiamo scegliere di rischiare o essere codardi.
Possiamo scegliere di essere sconfitti dalla paura o di vincerla.
Possiamo scegliere di star seduti in salotto a guardare le porte chiuse alle nostre spalle o scegliere di alzarci per aprirne altre, in un qualche altro angolo freddo della casa che potrebbe generare un lieve tepore tale da riscaldarci la pelle.
Possiamo scegliere di credere nelle cose belle o farci cullare dall'onda della disillusione.
Possiamo scegliere di perdonare o vivere nel rimpianto.
Possiamo scegliere di ascoltare e di entrare silenziosamente attraverso le fessure nelle vite altrui oppure chiuderci nei nostri silenzi non permettendo a nessuno di entrare né dando a noi la medesima possibilità.
Possiamo scegliere di pensare a ciò che sarebbe stato ma non è accaduto o a quello che potrebbe invece accadere.
Possiamo scegliere di ergerci su di un piedistallo, programmando con attenzione ogni conseguenza di un possibile gesto, imprigionati in quegli schemi che bistrattano il senso di libertà che ci avvicinerebbe alla nostra intima indole, oppure possiamo scegliere di scendere, senza che prevalga alcun programma, senza farci risucchiare da alcuno schema, agendo come solo il cuore comanda, sentendoci in fondo più liberi perché più vicini a quello che siamo.
Possiamo scegliere di essere maturi o credere ancora di diventare l'altra metà della mela di qualcuno.
Possiamo scegliere di essere uomini o bambini, donne o femminucce. 
Possiamo scegliere di restare sulla riva, arrivando a bagnarci soltanto i piedi, o scegliere di tuffarci, bagnandoci completamente, senza pensare a quando sarà il momento giusto per asciugarci.
Possiamo scegliere di vivere o soltanto di esistere. 
Scegliamo tutto noi, ed è questo che dobbiamo capire. Ed anche se le persone sembrino non apprezzare o forse poco intenti nel comprendere, io ho scelto di fare scelte diverse. Ho scelto di rischiare, di non avere paura, di cercare di aprire porte senza timore di doverle richiudere un giorno, di credere che qualcosa di bello sia ancora possibile, di perdonare quando occorre, di entrare nelle vite degli altri almeno quanto nella mia, di scendere dal piedistallo, di ascoltare di più il cuore, di tuffarmi nel mare della vita, di essere finalmente più matura. Ho scelto semplicemente di essere donna, perché ho capito che ero soltanto io a dover prendere questa decisione, senza poterla delegare a nessuno, tanto meno far scegliere alla vita al mio posto.

sabato 18 maggio 2013

Tua per sempre.

Spesso ciò che serbiamo dentro necessita di prendere voce. Lo dobbiamo sussurrare oppure urlare, ma quando non riusciamo a fare nessuna delle due cose, sarà talvolta proprio lui a raggiungerci nei sogni, quasi come se ti dicesse "Non puoi respingermi, perché io sono qui".
Ed io ho provato a respingerti tante volte in questi anni, sperando che tu non mi cercassi in nessuna delle possibili forme in cui avresti potuto farti trovare, perché in fondo quando te ne sei andato non hai pensato a nessuno, non hai pensato nemmeno a me, anche se in fondo non riesco a comprendere perché avresti dovuto farlo. Ed è per questo che a volte vorrei dirti di lasciarmi stare, perché forse soltanto se lo facessi sarei in grado di vivere due vite, la mia ed anche la tua. Ma ogni tanto ti insinui dentro di me, pensando di farlo silenziosamente ed invece fai rumore. Sì non immagini il rumore. Un rumore destabilizzante che richiama ricordi che vorrei cancellare, ma tu me li riproponi anche se non avrei voglia di sfogliarli come un album di fotografie, costringendomi a vivere con una mancanza per cui non ho pianto come avrei dovuto, ma che ogni giorno mi ha divorato sino a creare una voragine in cui costantemente mi ci butto dentro faticando a risalire. Vorrei dirti tante cose ma la prima che mi viene in mente è che ti voglio bene ma non voglio essere come te. Ti voglio bene ma ci dobbiamo dividere, anche nei sogni, come in effetti hai scelto tu di fare in questa vita terrena. Perché esistono momenti nella vita in cui l'unica liberazione reale deriva dalla parola basta. E adesso dico basta io, come quando sei costretto ad abbandonare qualcuno con le lacrime agli occhi per intraprendere una strada che ti conduca alla serenità, alla vita piena perché palpabile. Che cosa mi hai insegnato se non che la vita può essere più amara dell'inchiostro, se non che le persone ad un certo punto decidono di andarsene e tu senza farti domande come un mulo devi ubbidire al loro volere, che non c'è scelta alla frustrazione, che nemmeno l'amore può salvarti. Hai voluto insegnarmi tutto questo quando ero ancora troppo piccola per sopportare una colpa così grande, ma mi sono fidata e mi sono distrutta tra le paure di un'amarezza certa, come certi sarebbero stati gli abbandoni, nonché certa la mancanza d'amore che non salva di certo le vite delle persone. Ma se posso essere sincera, io questo non volevo conoscerlo, avrei voluto non diventare grande così in fretta e godermi l'ingenua spensieratezza dei miei anni.
Però adesso ti chiedo soltanto di farmi vivere un po', di non prendertela se non ti voglio più come insegnante come facevamo quando eri ancora con me, perché tu adesso non ci sei più, ma io voglio esserci. Forse un giorno ci rincontreremo, ma allora vorrò essere io ad insegnarti qualcosa, tutto quello che avresti potuto conoscere ma hai scelto di ignorare, che la vita può essere meravigliosa se cerchiamo anche il dolce invece di sottostare soltanto a ciò che ci sembra amaro, che le persone se ne vanno ma c'è chi decide di restare se non ci facciamo prendere dalla paura, che possiamo scegliere di dire basta alla frustrazione lasciandoci cullare dall'amore in ogni sua forma, quell'amore che in fondo salva chiunque non abbia paura di viverlo.
Ti voglio bene ma è giunta l'ora di dividerci.

Tua per sempre, anche se non ci sono stata sempre.

Scusa il ritardo ma prima o poi ciò che non diciamo cerca voce, ed io conosco soltanto questa come possibile voce.


venerdì 17 maggio 2013

Cos'è l'infinito?

Ho un collana che porto sempre al collo ed un bracciale che ho sempre al polso con il simbolo dell'infinito: per molti simile ad un numero otto disteso, ma forse più propriamente un insieme di punti di cui non si conosce l'esatta direzione, che convergono tutti in un unico punto, dove si nasce e allo stesso tempo si muore, o dove si muore per poi rinascere ancora.
Oggi mi guardavo allo specchio e ho pensato a cosa fosse in fondo quest'entità astratta, se potesse avere un altro nome, una forma, un odore che non fosse quello dei fumi che si confondono nell'aria rarefatta di una grande metropoli, se addirittura potesse avere anche un volto. 
Ho pensato che l'infinito potesse avere il colore di un cielo terso, la profondità di un oceano, la freschezza di una leggera brezza che ti bacia la pelle per poi penetrarti silenziosamente dentro attraverso i pori sin dentro le ossa, il profumo delle viole, la libertà del vento, la dolcezza del miele, la tenerezza di un bambino che piange perché vuole la sua mamma, la passione del cuore, il battito d'ali di una farfalla ma al contempo la maestosità di un'aquila, la grandezza di una metropoli che serba in seno le tradizioni folcloristiche di un piccolo villaggio di campagna dove si prepara ancora il pane in casa che sa di una quotidianità che abbaglia per la sua semplicità. Ho pensato che l'infinito potesse avere il volto di un uomo afflitto nei suoi mille perché, in ginocchio per le continue sconfitte, che muore per poi rinascere in quel punto di convergenza in cui decide di non domandarsi più niente lasciandosi trasportare dalla dolce melodia di un cuore che gli farà aprire nuove porte dimenticandosi di quelle chiuse alle sue spalle, meravigliandosi ogni volta che alzerà le sue ginocchia da quel ruvido asfalto umido. Ho pensato ai rapporti che ti riscaldano, come fossi una rondine che migra in primavera alla ricerca di posti caldi, ai sorrisi e agli abbracci che sussurrano un ti voglio bene che, nonostante la finitezza dei termini racchiusi tra vocali e consonanti, sembrerà infinito. Ho pensato ad una strada larga che vorrai percorrere a marce basse per goderti la bellezza di ogni dettaglio, dal rosa dell'alba che si perde nell'azzurro di una mattinata soleggiata, al rosso di un tramonto che farà spazio all'imbrunire di una notte stellata. Una di quelle strade che percorrerai ad occhi chiusi, senza sapere dove ti condurrà, dando fiducia al cuore che intanto ascolti e segui non incantevole costanza.
Ho pensato anche alle cose che iniziano per poi finire, vedendoci nel mezzo qualcosa che rassomigliasse all'infinito. Perché sebbene ci sia un inizio ed una fine per ogni cosa, ciò che c'è al centro può chiamarsi infinito. Perché forse l'infinito ce lo portiamo dentro, perché forse in base alla definizione che proporremo per quest'entità misteriosa, potremo decidere noi stessi di esserlo, perdendoci nel mare della bellezza più preziosa con chi sceglierà di essere infinito.

giovedì 16 maggio 2013

Rapporti umani.

Se mi domandassero che cosa fra tutte considero la più difficile da affrontare in questa vita, io risponderei : i rapporti umani.
C'è un'innata bellezza che profuma di spontaneità ma che al contempo si inasprisce di paura, quella paura che ti interroga sul chi, sul come, sul quando e sul perché a cui talvolta basta rispondere nel modo più naturale, semplicemente "E' così". E parlo di tutti i rapporti, da quelli che viaggiano in sordina a quelli che i timpani li corrodono diventando un rumore assordante o la sinfonia più bella mai ascoltata. Considero i rapporti umani ciò che più conti realmente, nonostante talvolta risultino difficili da instaurare e da gestire per la ricerca spasmodica di certezze che ci divora, nonostante la certosina pazienza che è necessario impiegare per capire il mondo dell'altro, per entrarci lentamente, attraverso le fessure di una finestra socchiusa che ci chiede di entrare silenziosamente come formiche. Ed in effetti non c'è qualcosa che offra maggiore pienezza dei legami, nemmeno la parmigiana di melanzane di mia nonna riesce a riempirmi di più, per questo ho sempre investito tutto ciò che possedevo. Ci ho investito cuore, anima, polmoni, corpo, mente, sempre, anche in quei legami risultati poi sbagliati, non pentendomene mai, perché preferivo entrare e sbattere la fronte sullo spigolo di un qualche mobile del salotto su cui non riuscivo a riporre la mano, piuttosto che attendere sull'uscio ed immaginare cosa sarebbe accaduto se non mi fossi fermata. Non credo che le persone, particolarmente quelle che si fanno tante domande, siano in grado di affermare con fermezza la loro felicità, forse non è possibile stare bene nel vero senso del termine, ma è possibile stare meglio, ed i rapporti umani, di qualsiasi entità, aiutano proprio a questo.
Ma oggi ho capito che nonostante i rapporti umani siano di quanto più complicato possa esistere, ho estrapolato una regola, forse l'unica a dar merito al cuore che si tinge dei colori più belli perché autentici e mai mescolati a caso e frettolosamente. Credo fermamente in una cosa, cioè che le persone vadano lasciate libere di scegliere, sempre, senza mai imporsi nella vita dell'altro ricordando ogni giorno cosa manchi o cosa ti aspetteresti: libere di accoglierti, di scoprirti, di aprire una finestra perché possa filtrare un raggio di sole attraverso i vetri, libere di farti conoscere gradatamente ogni angolo della casa, libere di sceglierti come l'ospite più gradito per poi chiederti di restare. Perché forse quando una persona è libera di scegliere e sceglie te nonostante avesse potuto incanalarsi verso altre direzioni, in amicizia come in amore e come tutto ciò che si definisca legame, sceglie il tuo cuore, la tua anima, il tuo polmone, il tuo corpo, la tua mente, ciò che in fondo hai investito e sentirai che comunque andrà a finire, in quel dato frangente, la tua vita sarà piena, sarà piena di una meravigliosa autenticità.
E' questo il mio senso della vita, quello che profuma di un'amorevole libertà che sa di veritiera bellezza.

martedì 14 maggio 2013

Se fossi un giorno della settimana ...

Se fossi un giorno della settimana sarei probabilmente il giovedì.
Perché il giovedì è quel giorno che spezza la settimana, prima del weekend ma molto distante dal lunedì. Insomma uno di quei giorni che inculca un'insolita tranquillità perché giunge prima del caos e degli appuntamenti del weekend osservati come fossero un sacro rituale, uno di quelli in cui non ti viene chiesto di iniziare niente, chi inizierebbe qualcosa di giovedì? Credo nessuno. Di giovedì non si comincia nulla, ma è probabile che si riparino cose, perché in fondo è un giorno così, che funge da anello di congiunzione tra un inizio e una fine, in cui il più delle volte non si ha niente da fare, e allora ci si dedica a quelle cose per cui in altri giorni non ci sarebbe tempo a sufficienza. Ma in fondo il giovedì, per questo suo modo di essere, risulta forse il giorno più importante, quello indispensabile perché le cose possano procedere con cautela, quello che porta i conti e che alla fine diventa il più pieno, il più pieno di tutti.
Ed io mi sento esattamente come lui. Spezzo gli equilibri con un'innata maestria spesso non dandomi tempo per curare il mio, ma quando me ne accorgo li riparo. Sì, io riparo cose. Sembra quasi il mio mestiere. Riparo stati d'animo, vuoti, emozioni, spesso ho quasi la sensazione che mi si chieda tra le righe di riparare le vite degli altri. Ed io acconsento, non riesco a disubbidire. Talvolta le ho riparate anche a discapito della mia, come se l'equilibrio degli altri fosse stato per me sempre più importante, un po' come quando rassetti casa per mettere ordine nonostante il tuo animo resti a soqquadro.
Mi colloco nel mezzo, come un mendicante rivestito di stracci che chiede l'elemosina al centro di una stazione, lontano dal caos, dalle formalità, dalla folla che passa veloce e che rumoreggia, seduto lì in un angolo, nel suo silenzio, senza mai pretendere, ma sperando in fondo che qualche passante si accorga di lui ed infili una moneta nel cappello capovolto come fosse una carezza non trattenuta.
Mi sento come un giovedì, mi sento un prima ma in fondo anche un dopo che si combinano neutralizzandosi diventando in fondo niente. Mi sento come un giovedì, un anello di congiunzione, un bilanciere, ma in fondo una portatrice sana di tranquillità, che credo sia anch'essa una forma d'amore, forse la più importante, perché parte da te senza attraversare altri canali.
Mi piace il giovedì perchè spesso riesce a conservare la laboriosità del lunedì, ad anticipare l'entusiasmo del venerdì, nonostante spesso ci si scontrerà con la stanchezza della domenica ancora lontana. Mi piace perchè sembra un giorno messo lì ed invece è fondamentale perché unisce.
Mi piacciono le persone così, quelle che sono un giovedì.

venerdì 10 maggio 2013

Danza danza danza!

Ci sono persone che muoiono tutti i giorni, ovunque, e con chiunque si trovino.
Muoiono quando scelgono di non sentire, di non guardare ciò che è sotto il proprio naso girando il capo dall'altra parte, di non esprimersi per urlare soltanto quando oramai è tardi.
Muoiono quando non scelgono, quando affogano invece di inebriarsi del profumo della loro passione, quando mentono agli altri ed in primis al loro cuore. 
Le persone muoiono quando non ascoltano, quando sbraitano invece di piangere, quando ad un come stai rispondono che va tutto bene mentre dentro muoiono, muoiono di un dolore incontenibile.
Muore chi spegne l'interruttore delle emozioni, chi prova a gestirle come se volesse porre argini ad un fiume in piena che a breve potrebbe straripare, chi le minimizza perchè ha paura, ha paura di sentire.
Muore ogni giorno chi guarda le porte chiuse, invece di guardare avanti nell'attesa di aprirne altre.
Muore chi non ama, chi non gode della bellezza di un tramonto, di una passeggiata all'ombra dei cipressi con del fresco venticello che ti scompiglia i capelli, di una risata, di un gesto semplice che vuole dire semplicemente "ti voglio bene". 
E muore chi si nutre della vita degli altri, standola a guardare come se fosse un film da Oscar senza pensare mai di tuffarvisi dentro, magari di emularla. Muore chi si siede a guardare gli altri correre.
E muore chi guarda a ciò che non c'è e che non potrà forse mai esserci, invece di stare attento a quel poco che si possiede in cui potrebbe celarsi il tesoro più grande.
Muore chi non rischia, chi si incatena alle barriere partorite da un cervello divoratore di umanità e ne fa il motore della propria esistenza.
Certe persone muoiono quando non vogliono scoprire, perchè non c'è tempo, non è il momento, lasciandosi sbranare da un tempo malevolo che distrugge i momenti, rendendoli i nostri peggiori carnefici.

Non so perchè certe persone scelgono di morire. Forse perché vivere non ti risparmia nulla, il dolce ti apparirà talvolta dolcissimo, ma l'amaro talvolta così amaro da non riuscire a deglutire.
Eppure io ho deciso che non voglio morire. Preferisco essere risucchiata in una danza tra viventi, che affogare con chi sceglie di morire senza mai esser stata abbagliata da un raggio di sole. 
E se a qualcuno venisse in mente di chiedere "Ma cosa devo fare allora?" risponderei come Murakami nel suo libro "Dance dance dance":

 Danzare, continuare a danzare, finché ci sarà musica. Capisci quello che ti sto dicendo?Devi danzare. Danzare senza mai fermarti. Non devi chiederti perchè. Non devi pensare a cosa significa. Il significato non importa, non c'entra. Se ti metti a pensare a queste cose, i tuoi piedi si bloccheranno. E una volta che saranno bloccati, io non potrò fare più niente per te. Tutti i tuoi collegamenti si interromperanno. Finiranno per sempre. E tu potrai vivere solo in questo mondo. Ne sarai improvvisamente risucchiato. Perciò i tuoi piedi non dovranno mai fermarsi. Anche se quello che fai può sembrarti stupido, non pensarci. Un passo dopo l'altro, continua a danzare. E tutto ciò che era irrigidito e bloccato piano piano comincerà a sciogliersi. Per certe cose non è ancora troppo tardi. I mezzi che hai, usali tutti. Fai del tuo meglio. Non devi avere paura di nulla. Adesso sei stanco, stanco e spaventato. Capita a tutti. Ti sembra sbagliato. Per questo i tuoi piedi si bloccano. Danzare è l'unica possibilità. Devi danzare, e danzare bene, tanto bene da lasciare tutti a bocca aperta. Se lo fai, forse anch'io potrò darti una mano. Finché c'è musica, devi danzare!



mercoledì 8 maggio 2013

Tante virgole, nessun punto.

E' che a volte vorrei mettere un punto. Uno soltanto. E invece mi ritrovo in balia delle virgole, dei punti interrogativi che non trovano risposte, dei puntini sospensivi che come una danza tribale mi avvolgono come fosse la cosa più divertente eppure mai così angosciosa. Mi vorrei imputare come una bambina capricciosa che si accovaccia e dice "Adesso è il mio turno", ma inevitabilmente davanti a me passano tutti, e con loro in fondo anche io senza far rumore, in quel silenzio che per gli altri è assenza di parole, per me fa invece un rumore assordante. Vorrei urlare, è questo che vorrei fare. Però c'è il buon senso che me lo impedisce, e c'è la calma che devo perseguire per poter procedere come se tutto fosse esattamente al suo posto. Ma qual è questo posto e quali sono le cose che gli altri vedono in un ordine soltanto apparente? Non lo so.
Se fossi in grado di parlare le cose sarebbero più semplici. Invece mi perdo in un silenzio in cui annego senza che nessuno mi tenga la mano e mi dica "Sono qui". Ma la colpa non è di chi non lo fa, la colpa forse è la mia perché voglio fare soltanto quello che so fare: scrivere.
Scrivo, ma non parlo, perché non so parlare come scrivo.
E se nessuno mi rivolge domande, allora lo faccio io a questo punto e mi domando: cosa desideri?

Ho voglia di sentire sulla pelle il fresco venticello primaverile che come rugiada sembra bagnare l'epidermide ed offre un lieve senso di leggerezza. Ho voglia di una spiaggia, di un libro, del mare che ti ascolta, cui puoi dire ogni cosa senza mai farlo sentire pieno, perché è infinito. Ho voglia di punti fermi, quelli che sono lì ad aspettare te che smetti di piangere, quelli che ti chiedono poi di ridere perché tutto ritornerà al suo posto. Ho voglia di sentire le persone come se la loro voce fosse un eco della mia, di guardarli negli occhi per scrutarne la mia immagine riflessa. Ho voglia di dire basta alle mie paure. Ho voglia di vivere. Ho voglia di tenerezza. Ho voglia di prevedibilità e normalità, ora dopo essermi scontrata con l'imprevedibilità che pensavo fosse il motore della vita, con anomalie che credevo ne fossero le logiche conseguenze. Ho voglia di quelle cose che sanno di abitudine, che ho sempre negato perché pensavo potessero spegnerti, mentre in fondo ciò che sapeva di opposto gradatamente mi ha bruciato senza che me ne rendessi conto. Ho voglia di libertà, quella del cuore e della mente, quella che ti fa dire "Basta, adesso comincio io."

giovedì 2 maggio 2013

Forse le persone aspettano di morire.

Aspettiamo di invecchiare per diventare più maturi.
Aspettiamo di finire gli studi per dedicarci ai nostri interessi ed alimentare le nostre passioni che intanto appassiscono preda di un tempo che inesorabilmente scorre.
Aspettiamo di sbagliare per dire "Non lo farò più!"
Aspettiamo anche lo sbaglio successivo, e quello che verrà ancora dopo, e ancora, e ancora, per ammettere che nella nostra costanza si nasconde forse un'incapacità nel vincere.
Aspettiamo le feste comandate per abbracciare i nostri cari e rivolgerci frasi d'affetto che in altre circostanze non saremo in grado di pronunciare, perché Natale o Capodanno ce lo impongono, anche se giungono in un normalissimo martedì o mercoledì.
Aspettiamo sull'uscio della porta che le persone ritornino, nonostante se ne siano andate senza offrirci troppe spiegazioni, lasciandoci accovacciati dietro quella porta che in fondo resterà chiusa.
Aspettiamo i momenti giusti. Aspettiamo il momento giusto per vendicarci, per avanzare, per vincere, per invitare qualcuno, anche per innamorarci. Pianifichiamo un'intera esistenza, ordinando a noi stessi quando sia il momento giusto per una sana solitudine che vedrà sgombro il cuore, quando sia invece quello per far entrare qualcuno. Aspettiamo che trascorra del tempo sufficiente per sanare le ferite di una fresca delusione e se ci sarà qualcuno disposto forse ad aiutarci o ad alleggerire il peso noi ci nasconderemo perchè in fondo non è il momento giusto, quello lo stiamo ancora aspettando nonostante spesso ignoreremo che forma possa avere.
Che sciocco a volte l'essere umano. Aspetta invece di vivere, programma invece di buttarsi a capofitto in una vita che non regala niente due volte. Aspetta ed intanto la vita gli passa di fianco, non comprendendo che in fondo i treni passano una sola volta, e se il cuore comincia a tremare seppur leggermente al suo passaggio, forse tanto vale salirci.
Allora forse non dobbiamo aspettare niente, piuttosto dovremmo cominciare a vivere tutto.
Non dobbiamo aspettare le rughe per dispensare maturità, forse allora sarà tardi. Dobbiamo chiudere i libri ed innaffiare quelle passioni che albergano dentro di noi prima di apparire come morti sebbene apparentemente viventi. Dobbiamo forse essere fieri degli sbagli, perché in loro si nasconderà tanta vita, quella che si porrà come insegnante nonostante ci sentiremo spesso impreparati, si celerà la vittoria di chi non si arrende e prosegue continuando a sperare. Dovremmo pronunciare frasi cariche di affetto almeno due o tre volte a settimana, anche se non sia Natale, Pasqua o Capodanno. Dobbiamo alzarci da dietro quella porta chiusa e guardarci intorno per aprirne altre che potrebbero rivelarsi sorprendentemente meravigliose. Dovremmo capire che non possiamo aspettare il momento giusto, perché lui non aspetta noi ed allora inevitabilmente finiremo per perderci nell'abisso delle paure e delle perseveranti insicurezze. Invece di tenere nel frigorifero il cuore aspettando di tirarlo fuori pianificando il come ed il quando, focalizzati sul chi. Caccialo quel cuore, non aspettare, prima che sia tardi, prima che quel treno ti passi di fianco a gran velocità e tu non riuscirai più a salirci. Caccialo adesso, prima che si congeli, ed urlalo, urlalo pure se vuoi. Ma cosa stai aspettando? Ho talvolta la sensazione che le persone aspettino di morire.

martedì 30 aprile 2013

Vogliamo essere diverse, ma siamo tutte uguali.

Ci sono sere che ti interrogano come fossi per l'ennesima volta una studentessa impreparata.
Quelle sere che ti rivolgono domande a cui tenti di dare risposte guardando ovunque tra le pareti bianche della tua stanza che ridipingeresti di verde, come la speranza. Quella speranza che poi affoga tra le piume del cuscino del tuo letto, per riaccendersi come la luce fioca sul comodino che ti permette di finire le ultime pagine di un libro oramai impolverato che attendeva quasi con trepidazione che finissi. Sì che finissi per cominciarne un altro. Magari impiegassi lo stesso entusiasmo che impiego per cominciare a sfogliare le pagine di un nuovo libro che trovo interessante anche con gli uomini. Conosco soltanto la parola fine. Conosco a memoria le parole di circostanza che potrebbe dirmi un uomo per interrompere un rapporto che molto spesso l'ho zittito per precederlo, anche se questo significava facilitargli il suo gioco, ma complicare il mio. Conosco il rumore delle porte che sbattono, l'angoscia che quasi si cristallizza nel silenzio di un telefono muto. Non so perché abbia imparato a conoscere tutto questo soltanto, in fondo se c'è una fine ci sarà stato sicuramente anche un inizio, ma non me lo ricordo. No, io gli inizi non li ricordo mai, perché in fondo non li so vivere. Riesco a sentire ogni cosa, eppure gli inizi non li sento quasi più, né ascolto con attenzione il cigolio dell' apertura di una porta. Sento soltanto quelle fini che mi trascinano su carboni ardenti costringendomi a denti stretti a sopportare l'ustione. Forse consapevole del fatto che tutto è destinato a finire, prima o poi, è come se dell'inizio non godessi, quasi come se aspettassi la fine con l'orologio alla mano, facendo il conto dei giorni. A volte ho contato fino a 100, per altre è bastata la prima decina. E' che forse questo desiderio innato di noi donne di essere qualcosa di speciale, qualcosa che sia diverso, ci riduce ad essere in fondo tutte uguali: ci spegniamo nel vortice delle paure rincorrendo una fine prima ancora che ci sia stato un inizio.

Un soffio di sincerità.

Credo che la sincerità non sia un gioco villano per maschi e femminucce, non sia uno scudo dietro cui difendersi dopo aver sporcato il tuo viso di parole veritieramente amare lasciando soltanto a te scegliere il miglior modo per ripulirti. Questa è un'inesatta definizione di sincerità che puzza di una vigliacca menzogna. Credo sia piuttosto una dote che si poggia su altre, una dote che si serva di modi che dovrai scoprire strada facendo, cominciando ad appartenerti solo nel momento in cui si sceglie di essere veri uomini o  vere donne. Quando immagino che figura potrebbe avere una dote penso ad un soffione, perché la immagino delicata, silenziosa, leggera al punto da farsi trasportare dalla forza del vento. Nell'immaginario collettivo c'è questa idea che una persona sia sincera soltanto quando sia in grado di sputarti in volto ogni verità, dalla più dolce alla più meschina. Perché forse si cerca la sincerità nelle parole, quando invece basta sentirsi anche senza parlare. Perché forse le persone sincere si guardano senza dover necessariamente dirsi proprio tutto, perché in uno sguardo hanno già capito ciò che le parole forse complicherebbero. Perché c'è chi ama attribuirsi questa dote pur gestendo pesantemente e rumorosamente le parole. Ecco perché mi piace immaginare che la sincerità abbia le stesse caratteristiche di un soffione: delicata, silenziosa, leggera. Come quando riuscirai già a riconoscerlo tra le tinte variopinte dei fiori che colorano una distesa di verde, senza mai tradirti perché è l'unico fiore a possedere le caratteristiche che avrai imparato a sperimentare. Come quando lo toccherai delicatamente per il suo essere così fragile, per poi lasciarlo andare in un leggero soffio spinto dalla forza di un vento che nel suo silenzio ti riconcilierà alle verità nel modo più autentico. Come la bellezza, quella vera, quella che non fa rumore. Quella che toccherai delicatamente sapendo che nonostante possa pungerti non ti farà sanguinare per sempre. Quella che non ha nulla a che vedere con un dire la verità soltanto perché non si è più disposti a mentire.

domenica 28 aprile 2013

Sentirsi.

Sono stata sempre attratta dagli opposti. Quel nero che si accostava al bianco, quel freddo che credevo avesse intiepidito l'afa, quella razionalità che accanto alle pulsioni del cuore si sarebbe ammorbidita e al contempo liberato il cuore dalle sue catene. Ma proseguendo intuivo che il nero ed il bianco non si sarebbero mescolati a lungo così da tendere al grigio, che non ci sarebbe stata alcuna temperatura mite come conseguenza del contemperamento fra freddo e caldo, né che la ragione potesse succhiare un po' del sangue del cuore o che quest'ultimo facesse la sua parte ammorbidendo la prima. Sono sempre stata attratta dagli opposti, ma oggi capisco che ho sempre sbagliato. E sbagliavo soprattutto quando non modificavo le mie scelte meravigliandomi che il risultato fosse in fondo sempre lo stesso, allungando la lista dei miei errori, come quasi un post it da attaccare al frigo come fosse una lista della spesa da non poter dimenticare, tra cui inserivo anche me stessa. Ho sempre sbagliato e solo oggi lo capisco. Perché soltanto oggi capisco che forse basta sentirsi, sì. Probabilmente una percezione così delicata, silenziosa, naturale quanto insidiosa, basterebbe per rivolgere lo sguardo altrove ed interrompere il ciclo degli errori che partoriscono paure. Sentirsi nelle parole dell'altro quasi come fosse un eco della tua voce che rimbomba tra le umide mura di una caverna, sentirsi in uno sguardo che si posa come rugiada su dei petali freschi appena sbocciati, sentirsi in delle tenere movenze. Sentirsi parte di qualcosa che riuscirai a condividere, perché avrai le giuste lenti per osservarlo e scoprirlo non definendolo mai opposto ed irraggiungibile. Sentirsi nell'altro come due anime avvolgenti, prima di essere due corpi che si compenetrano. E tutto questo non lo si decide a tavolino, credo che questo sia la caratteristica di ciò che definirei parte di una "naturalezza silenziosa". Capita di sentirsi, come capita che spunti un arcobaleno dopo una pioggia battente, come capita che la neve si sciolga per lasciar spazio a delle tinte variopinte dei fiori di primavera. Capita. Ci si sente. Ed è meraviglioso.

domenica 21 aprile 2013

Perché scrivere un libro?

Una sera, mentre mi stavo struccando, ho pensato ad una storia, a tre donne, a tre diversi modi di comunicare. Ho pensato ad una storia che potesse coinvolgere per la sua semplicità, la cui modalità di scrittura doveva trasudare spontaneità, forza d'animo, profondità. Ho pensato a Sofia, una giovane ventenne orfana, commessa in un negozio di fiori, blogger per diletto, con il mito della scrittura, l'unico modo che le consenta di esprimere se stessa. Ho pensato alla signora Parks, un'anziana donna rimasta vedova, dalle origini inglesi, trapiantata in Italia per seguire l'amore della sua vita, con la passione per la letteratura inglese, in particolare per Shakespeare, Dickens e Wilde, chiamando così anche i suoi tre gatti. Ho pensato alla signora Ada, una donna quarantenne eccentrica e dai facili costumi, cliente abituale del negozio di fiori in cui lavora Sofia, richiedendo il solito mazzo di rose bianche, destando profonda curiosità nella giovane per l'inevitabile contraddizione tra il messaggio di delicatezza e purezza impregnato in quei petali bianchi ed il fare sfacciato di quella donna. Ho pensato a tre generazioni, tre vite che potessero intrecciarsi, tre diversi modi di scoprirsi vicendevolmente, oltrepassando l'apparenza per cogliere l'essenza, scrutandosi, vogliose di emulazione, eppure non così diverse. Ho pensato a Sofia, Annie, Ada che in fondo non sono altro che la mia trasposizione su carta, i cui rapporti non raccolgono altro che il desiderio di vivere i rapporti nello stesso modo, silenzioso ma penetrante. E mentre pensavo, scrivevo. Scrivevo tra le pareti bianche della mia stanza, nel silenzio notturno, talvolta anche diurno. Scrivevo senza che nessuno sapesse cosa stessi facendo.
Qualcuno mi chiederà perché volessi scrivere un libro. Non perché avessi qualcosa da dire, figuriamoci. Né pensavo e penso tuttora di diventare una scrittrice famosa firmando autografi. Volevo semplicemente scrivere qualcosa che avesse la mia firma, un prodotto che fosse quasi come un figlio partorito dal cuore, lo stesso che d'impeto ha lasciato cadere le mie dita sulla tastiera. Poi un giorno ho pensato di spedirlo a varie case editrici, per evitare che il mio prodotto prendesse polvere. Non aspettavo nessuna risposta, mi interessava soltanto che il mio mondo ed il mio modo di comunicare arrivasse a qualcuno senza timore di alcun giudizio. Ma poi è successo che in una mattinata di sole ho ricevuto due risposte, una di queste da un'importante casa editrice che valutava positivamente l'opera e pronta per la pubblicazione, quasi fosse un premio per aver bistrattato paure ed insicurezze. Non chiedetemi cosa ho pensato, perché per la prima volta nella mia vita non ho pensato, i miei pensieri scivolavano tra le lacrime che corrugavano il viso senza che potessi far nulla per frenarle. E mentre piangevo, in me cresceva l'entusiasmo, un entusiasmo che sono riuscita a condividere con pochi, valutando quei pochi gli stessi che in fondo mi hanno da sempre sostenuto, quella famiglia vera in cui si condivide l'amore per i propri successi. Valutando ancora la proposta editoriale, ho pensato ad una frase da me pronunciata qualche giorno fa che diceva "una botta di vita sento di essere io quando non ho paura". Allora, forse, vale la pena far scoppiare questa vita, vale la pena scoppiare insieme a lei, nonostante spesso mi senta sola davanti questa piccola porta che è ancora socchiusa, che attende solo che io la varchi. Ma io, in fondo, non ho paura, perché le cose belle accadono soltanto se consentiamo a noi stessi di non averne. E quindi forse, per citare J. Lennon, potrei concludere dicendo che andrà tutto bene alla fine, e se non andrà, non sarà la fine.

mercoledì 17 aprile 2013

Temo chi non ha amici.

C'è chi ha paura del buio, dell'altitudine, dei luoghi affollati, degli scarafaggi.
Io ho paura delle persone che non hanno amici. Perché non conoscono il silenzio con cui ci si insinua in una vita, il rumore delle marce per procedere nell'attraversamento di quella strada impervia o scoscesa, la piacevole sensazione di conoscere senza mai stancarsi. Non conoscono il rosa di un'alba in cui sorgono i tuoi dubbi e le tue mille paranoie che troveranno sollievo nel rossore di un tramonto con cui verranno rimosse al sopraggiungere dell'imbrunire. Non conosceranno il movimento delle onde che cullano sulle note di una dolce ninnananna, calde come un abbraccio, fresche come la primavera, sussurri come echi che non smetteranno mai di rimbombare. Non conosceranno la parola casa. Non riusciranno a coniugare il verbo restare. Non assaporeranno la dolcezza di un affetto disinteressato. Non capiranno il significato di insieme e di bisogno. Non si sentiranno mai parte di qualcosa in cui la parola d'ordine è: condivisione, in cui si coglie la lucentezza di un sorriso come cenno d'intesa, in cui anche rotolare nel fango, insieme, diventa quasi più divertente, in cui si coglie un'inaudita bellezza nel rialzarsi, insieme, dopo che le onde del mare ti abbiano travolto. Non conosceranno il suono squillante di una A di amicizia e di amore. Non conosceranno la fatica che assume i toni del lavoro più leggero e spontaneo, nel coprire del fango di asfalto che diventerà una strada, la vostra, che sarà l'unico posto sicuro nelle notti più buie, quella che si percorrerà quando si avrà voglia di scoprire la verità. Non conosceranno il moto dilatatorio del cuore ad un ti voglio bene urlato o racchiuso nel più semplice dei gesti.
Ma ciò che più mi fa paura, sono le persone che parlano di amicizia pur non avendo mai sperimentato nessuno di questi aspetti, o avendoli a mala pena sfiorati. Di quelli ne ho il terrore.

Perché conosco soltanto un modo per vivere un'amicizia: esserci.

E' facile "stare", peccato che "esserci" sia un'altra cosa. Un verbo che sussume tutte le sfumature di colori, tutte le fragranze dei profumi, tutti i termini elencati. Un verbo che non si coordina ad alcun complemento, perché da solo basta.

sabato 13 aprile 2013

Che cos'è una botta di vita?

In un fiacco pomeriggio d'aprile, con l'intento di scrivere un post diverso dai soliti sermoni, ho rivolto a qualcuno una domanda: "Cos'è per te una botta di vita?"

Una botta di vita è uno stile di vita che si chiama "hakuna matata".

Una botta di vita è uno stato d'animo che si chiama: spensieratezza. 

Una botta di vita è agire avendo come unico metro di valutazione il piacere.

Una botta di vita è qualcosa che giunge all'improvviso cambiando il corso degli eventi, stampandoti in volto un sorriso, rendendoti l'animo leggero al punto che pensi "Che bella la vita!"

Una botta di vita è soddisfare una pazzia del momento.

Una botta di vita è la musica. Quando sono nervoso mi basta ascoltarla, poi siamo io e lei, il resto non conta.

Una botta di vita è la compagnia di una bella donna.

Una botta di vita è nuotare nelle acque gelate alle 5 del mattino, fare tutto ciò che sappia di trasgressione.

Una botta di vita è vivere un'esperienza indimenticabile che ti arricchisce, perché vivere la routine quotidiana ti riduce in stand by, lasciando a digiuno lo spirito, vuota la valigia della tua vita.

Una botta di vita è rischiare con qualcuno o in qualcosa, senza timore delle conseguenze.

Una botta di vita è qualsiasi cosa che non ti faccia pensare a quanto ti manchino un letto ed un cuscino.

Una botta di vita è quando l'adrenalina è l'unica tua energia.

Quello che provi quando qualcuno dimostra di tenerci particolarmente a te, questa è una botta di vita.

Una botta di vita è l'immagine di te che fai il primo bagno a mare, in acque ancora tiepide, dopo il trascorrere dell'inverno e scopri parti del tuo corpo di cui ti eri dimenticata.

Direi che nella vita quotidiana ci sono giorni in cui a volte ci dimentichiamo perché siamo qui. Seguiamo le indicazioni segnalate e ci dimentichiamo di godere la vita. Ma quando qualcosa come questa "botta di vita" succede è come se si è dormito per tutto il tempo e all'improvviso ti svegli!
Mia sorella ha recentemente dato alla luce il mio primo nipote. Quando l'ho visto per la prima volta mi sono reso conto subito di quanto possa valere la pena vivere. Sono stato stupito di vedere come qualcosa di così piccolo come un bambino possa regalare felicità a così tante persone. E' stata sicuramente una botta di vita e non ricordo di averne avute altre così grandi come queste.

Una botta di vita è un'amica che ti contatta strafatta di antistaminici a causa dell'allergia e ti domanda "Cos'è per te una botta di vita?"

Allora, condividendo tutte queste risposte cogliendone parte di ciò che per me rappresenta una botta di vita, vale la pena che anch'io risponda a questa domanda.
Per me una botta di vita è tuffarmi nelle vite degli altri e sentire splash, come fossi l'esploratore di paesaggi incontaminati, un sub che tenti di scoprire le bellezze nascoste di un fondale marino. Per me una botta di vita è scrivere un post in un fiacco pomeriggio d'aprile invece di scrivere la tesi. L'affetto e la costanza che impiegate tutti voi nel seguire il mio blog, anche questo è una botta di vita. Per me una botta di vita sarebbe apprendere la notizia della pubblicazione di un libro che hai scritto. Una botta di vita è piangere di felicità o ammalarsi di malinconia. Scoprire nelle persone una smisurata bellezza che si chiama rispetto, lealtà, autenticità: questa sì che è una botta di vita. Una botta di vita sono gli amici, quelli presenti, quelli che ti dicono ti voglio bene in una giornata in cui la noia fa da padrona, quelli che riscaldano con i loro abbracci. Per me una botta di vita è quando decido di partire con un biglietto di sola andata, con una valigia quasi vuota per lasciar spazio a tutto ciò di cui si riempirà, giornate di sole o di pioggia battente, esperienze, sorrisi, baci, carezze, le avventure più disparate, le emozioni, in una sola parola : persone. Una botta di vita è quando capisco di dover lasciare e vado avanti, quando lascio certa di essere seguita soltanto da ciò che conta. Una botta di vita sento di essere io quando non ho paura.
Ognuno, in fondo, può essere la propria botta di vita, quella che senti come il vento che si insinua nell'epidermide silenziosamente o generando un frastuono simile ad un "TRACK".


mercoledì 10 aprile 2013

Ad un "come stai" rispondo "bene, grazie".

Non ho mai cercato consensi perché piacere a tutti ad ogni costo lo trovo un atteggiamento puerile e poco intelligente, mai parlato con chi non mi andava di parlare perché credo così profondamente nelle parole come un qualcosa che in fondo ci distingue dall'essere animale, un tesoro di cui talvolta si ignora la preziosità, che non mi va di disperderle, mai domandato un formale "come stai" se della risposta me ne sarei comunque infischiata, mai detto due cose differenti a due persone diverse perché ho sempre creduto che nella mia asfissiante insicurezza si celasse la pretesa di soggiogarla esprimendo un pensiero che al di là della condivisione sarebbe stato il mio, un pensiero che nonostante tutto mi avrebbe definito, sebbene detesti quelle definizioni che divengono presto etichette perché non si ha tempo di scoprirsi. Non ho mai posto limiti, nemmeno al tempo. Non ho mai conteggiato il tempo trascorso con una persona potenzialmente interessante, mai osato bloccare il timer quando credevo che fosse abbastanza, mai incasellato le emozioni, mai schematizzato gli appuntamenti né pianificato i come ed i quando. E questo in un rapporto, dalle voci popolari, spesso viene definito un correre troppo, esser pesanti quando non occorre, bruciare le tappe. Io invece lo chiamo semplicemente passeggiare mentre un tiepido sole ti riscalda le gote perdendoti nell'armonia dell'altro a tal punto da allontanarti dal punto di partenza senza aver necessità di tornare indietro ma il desiderio di procedere oltre senza che questo abbia qualcosa a che vedere con un bruciarsi per poi spegnersi. Lo chiamo passeggiare sino a che il sole nascosto tra le colline lascia spazio all'imbrunire ma adori così tanto quella sensazione che non vuoi tornare, e decidi di restare, nonostante tua madre ti aspetti per cena. Lo chiamo viversi come se il piacere fosse un apostrofo tra due persone che dimenticano che esista un tempo. Lo chiamo, contrariamente alle voci popolari, lasciarsi andare alla leggiadria delle emozioni, pratica insolita per un animo pesante di banalità e congetture. Ci ho messo un po' a capire tutto questo, a comprendere che vivere di emozioni non è come insegnare l'inglese, allora è inutile che mi ostini a far capire cosa ci sia dietro un atteggiamento che fa poco scena, e non perché voglia rimanere sempre dietro le quinte, ma palesarmi solo ad un pubblico che capisca il mio linguaggio così da avere applausi sentiti, di vero cuore, non soltanto un meccanico gesto alla chiusura del sipario. Ci ho messo un po' a capire che mentre passeggiavo e godevo della bellezza del paesaggio, qualcuno trovava più bello tornare a casa per cena ed il sol pensiero di passeggiare ancora un po' gli suscitava un insolito affanno, giustificandolo con una corsa che in effetti non era mai avvenuta. Ci ho messo un po' a capire che viviamo di opposti, non intersecabili. E non voglio dire che il mio modo sia migliore degli altri, in effetti ho anche cercato di analizzarlo senza che nessuno mai cominciasse a studiare il mio, perché volevo capirlo. E se qualcuno, leggendo, si alzasse e mi dicesse cosa c'è di simile ad una vita, quella vera, dove è bello piangere di felicità ma anche ammalarsi di malinconia, dove è bello divorare gli attimi che dopo poco potrebbero loro sbranare te, in un'esistenza schematizzata, in cui si ha la presunzione di controllare le emozioni, di decidere al posto del tempo, di manipolare i come ed i quando, in cui si chiede come stai per educazione senza impiegare la stessa nell'ascolto della risposta, in cui non si apprezza il peso delle parole e la virtù del rispetto, io lo ascolterei comunque, ma sono certa che nessuno sia in grado di spiegare perché un campo fiorito su cui lo sguardo si perde senza scrutarne il confine sia più emozionante di un mazzo di rose preconfezionato e recapitato direttamente al destinatario. E allora alla vostra domanda del "come stai" non mi tocca che rispondere con il vostro semplicistico "tutto bene, grazie", anche se non è così, ma è l'unico linguaggio che riuscirete a capire, perché gli immensi campi fioriti vorrei calpestarli con chi è in grado di annusare il profumo dell'erba fresca senza paura di varcare il confine in una leggerezza che ha al colore delle viole appena sbocciate ed il profumo di libertà, pronunciando soltanto la parola "ancora". 

lunedì 8 aprile 2013

Le parole che non ho mai detto.

Ad un certo punto ho smesso di scrivere e ho cominciato a parlare. Ma ad un tratto ho temuto che le mie parole andassero in un'unica direzione, in quel vicolo cieco noto a tutti al di fuori di me, da cui tutti pian piano uscivano per prendere altre strade, restando sola in una strada che come fine aveva una caterva di mattoni posizionati in malo modo gli uni sugli altri, assorbendo montagne di parole, le mie, che faticavano a trovare un esatto allineamento, per poi evaporare attraverso le fessure di quei mattoni, raggiungendo le nuvole, che nel loro scomporsi e ricomporsi, lasciando che l'immaginazione disegnasse volti, sagome, figure strambe, non davano a me mai una risposta. E allora ho ricominciato a scrivere. Ho scritto tutto, forse troppo, ho scritto di tutti o forse di nessuno. Ho scritto pure di te sperando di raggiungerti nonostante la consapevolezza che tu forse non abbia mai letto una sola riga o che forse, mentre lo facevi, tu non l'abbia capito. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in luoghi troppo rumorosi, in cui le mie parole si sarebbero altrimenti disperse tra le altre senza lasciare alcuna traccia, come un foglio di carta gettato nel fuoco insieme agli altri per alimentare quella fiamma che sarebbe presto divenuta una montagna di cenere. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in quelle persone che all'ascolto delle mie parole dimostravano di non capirmi, forse di fingere addirittura di ascoltarmi. Ho scritto e non me ne pento, sebbene le mie parole non abbiano raggiunto quei luoghi che avevo prefissato come ultime destinazioni, perché alla fine hanno raggiunto me, una destinazione inesplorata quanto inaspettata ma di certo la più importante. Ed è per questo che ho smesso di scrivere con l'intento di raggiungere luoghi o persone in cui ho capito, solo con il tempo, che mi sarebbe stato vietato l'accesso, qualunque forma di comunicazione avessi scelto. Ed è per questo che ho smesso di osservare chi proponeva un linguaggio differente dal mio cercando di emularli, di quelli che si capiscono senza doverli decifrare, di quelli che però spesso io fatico a comprendere lo stesso. Ho smesso di specchiarmi in quegli occhi in cui non riuscivo ad immaginare nemmeno la mia immagine riflessa, di insinuarmi in luoghi in cui non avrei avuto il mio spazio nemmeno se l'avessi ritagliato in un angolo strettissimo, di cogliere risposte in dei silenzi che in effetti non dicevano nulla. Ho smesso di credere anche a te, perché tu sei rumore, sei il rosso di un tramonto che poco dopo lascia spazio alle scure tinte dell'imbrunire, sei il giallo delle foglie d'autunno, sei uno spazio ampio contornato da mura di cinta, io sono invece silenzio, il rosa di un'alba che cede il passo ad un nuovo mattino, un gelido inverno che si alterna con fresche primavere, uno spazio piccolo ma mai recintato ove è possibile che lo sguardo si perda senza scorgere la fine, ma nemmeno l'inizio. E quindi ho capito che talvolta dove non arrivano le parole che germogliano dal cuore, per sprofondare nello stomaco e risalire con estrema veemenza attraverso la bocca, non possono nemmeno quelle scritte aventi la stessa radice. Perché al di là di quale modalità si scelga, le parole arrivano se un cuore sia aperto abbastanza per coglierle. Spesso così aperto da sfamarsi persino di frasi leggermente sussurrate, talvolta addirittura di silenzi. 
Ma un cuore chiuso non riuscirà a recepire nemmeno le urla.

mercoledì 3 aprile 2013

Persone giuste. Momenti sbagliati.

Nel raccontarci la storia della "persona giusta al momento sbagliato" spesso ritroveremo il nostro alibi di ferro, catene ricreate dal nostro cervello che impediscono di essere profondamente liberi nonostante non ce ne si renda conto. Ma quando il nostro momento sbagliato sarà divenuto oramai un amaro ricordo sbiadito, cedendo il passo ad un momento che riterremo propizio, inciamperemo rigorosamente in persone sbagliate, non ricordandoci quasi mai che, in un passato prossimo o remoto, avevamo conosciuto una persona che avevamo definito giusta, non voltandoci mai per recuperarla, spesso non coltivandone nemmeno il desiderio. Ne collezioneremo così tante sbagliate da convincerci che la nostra vita sia nient'altro che un gomitolo inestricabile di errori. Non siamo mai lucidi abbastanza da poter fare un passo indietro, ricapultandoci in un passato che potremmo rendere presente ridisegnandovi i contorni, su cui passeggiare e lasciarvi le orme su quell'asfalto fresco. Mai abbastanza lucidi nell'ammettere di non saper amare la perfezione. Mai abbastanza coraggiosi nell'ammettere che l'unico errore è stato definire sbagliato il momento, mai lucidi abbastanza nell'ammettere che se c'era qualcosa di sbagliato era il non saper amare ciò che per noi sarebbe stato giusto, rincorrendo inesorabilmente chi aveva già sulla fronte il marchio di errore. Non siamo mai abbastanza obiettivi nell'ammettere che le persone giuste le abbiamo incontrate ma non le abbiamo volute e allora abbiamo scelto la strada del "momento sbagliato", mai lucidi nell'ammettere che possiamo anche noi, una tantum, essere l'errore di qualcuno, senza dover necessariamente riconoscere ad altri tale marchio con la presunzione di discolparci.
Non siamo mai maturi abbastanza nell'ammettere che non esiste un momento giusto o sbagliato, ma esistono soltanto persone che capitano in momenti che saranno sempre giusti se vorremmo inebriarci totalmente del loro profumo, tuffandoci nelle loro acque che potrebbero apparire calme nonostante le onde.

La verità è che ci vuole predisposizione per tutto, anche per darsi all'amore, anche per credere che chi abbiamo incontrato sia forse la persona giusta per ricominciare. E' strano come prima di parlare di emozioni, di quella più forte come l'amore, si debba riconoscere che anche il cervello faccia la sua parte. E' strano come l'amore possa rapire il cuore, solo se talvolta in fondo il cervello lo consenta, ed è incredibile come il più delle volte le false congetture del cervello risultino più penetranti delle melodie del cuore.
C'è chi la chiama mancata predisposizione, io forse la chiamerei talentuosa attitudine fallimentare dei rapporti, incapacità di emozionarsi perché si è profondi quanto un tappo di bottiglia, o semplicemente immaturità, quella che ti rende solo, muto, sordo e cieco al cospetto di tutto ciò che sappia di umanità.

sabato 30 marzo 2013

Rispetto

Nell'universo della finzione, dove bugiarda può essere un'amicizia, una presunta lealtà, ove bugiardo può essere uno sguardo, una promessa, un gesto, ove finto può essere un amore tanto osannato, c'è una cosa che costituisce la base di ogni sentimento, da cui deriva la naturalezza nel viverli, c'è una cosa che sfugge dall'universo della finzione: il rispetto. 
Non credo che non ci si riesca più ad emozionare perché ad un certo punto l'epoca delle emozioni ci deve abbandonare per lasciar spazio al pragmatismo sterile e senza alcuna forma.
Non credo che non si riesca più a vivere un'amicizia in modo empatico perché temiamo di offrire troppo all'altro al punto da rimanerne scottati e pronti a fare un passo indietro.
Non credo che oggi non ci si innamori più perché siamo giovani disillusi con un cuore troppo sporco e malandato per essere pulito e rinfrescato. 
Non credo che non si possa provare a vivere un amore come lo si faceva in passato, perché nessuno ci dedica più poesie, nessuno è pronto ad aspettare, nessuno vuol più parlare.
Credo semplicemente che esistano due categorie di persone: quelle che spalmano il senso di rispetto come fosse del buon burro sulla propria fetta biscottata appena svegli ogni mattina, e quelle il cui seme non è stato piantato né ci abbiano mai provato. 
Credo che se oggi non ci si innamori più, non ci si emozioni, non si riesca a vivere un'amicizia profonda in cui ogni gesto si sposa con una parola che ritroverai esattamente in uno sguardo che sarà come acque limpide di un mare cristallino, è perché della parola rispetto non si conosce alcunché.
Non pretendo amori, né amicizie, né promesse, sguardi limpidi, gesti estremi, naturalezza e lealtà. Pretendo soltanto l'unica cosa su cui nessuno è in grado di mentire, la madre dei sentimenti, ciò che rende il percorso lineare senza alcuna ombra: il rispetto.
Provo tenerezza per chi non lo offre, perché significa che non ne conosce alcuna forma, significa che non ce l'ha nemmeno per se stesso, significa che è solo.
Ma lo ringrazio perché ogni volta ricordo ciò che non vorrò mai diventare.

giovedì 28 marzo 2013

Una corsa contro il tempo

Ho sempre avuto paura che il tempo mi consumasse, che gli attimi corressero così velocemente in un tempo che intanto disintegrava pezzi di vita, come granelli di sabbia in una clessidra. Ho avvertito sempre come se ci fossero scadenze da rispettare, e allora riempivo quell'arco temporale di tutto ciò che trovavo per strada, anche di ciò che avrei potuto omettere, nella speranza che il tempo non mi tradisse opacizzandomi, che mi desse la possibilità di vincere quelle scadenze, di restare sotto qualsiasi forma anche una volta superate. E invece ogni volta mi tradiva, dalla scadenza non potevo fuggire, e quel tempo racchiuso tra una scadenza e l'altra diveniva un ricordo sempre più tiepido, sempre più amaro, una miscela di un "noi" sempre più opaco e di sottilissimi granelli retti in un pugno, da versare nella clessidra per ricominciare il gioco del "vediamo chi vince: noi o il tempo", senza mai render pubblica la mia corsa ove il respiro affannato mi induceva ad allontanarmi dal traguardo senza che nessuno si rendesse conto della fatica.
Ma ieri ero in metropolitana ed accanto a me era seduta una donna che maneggiava con un' inconsueta calma dei referti, forse sulla quarantina, visibilmente scarnita, di un pallore malato in volto ed un foulard colorato sulla testa che nascondeva la totale calvizia causata presumibilmente da cicli ripetuti di chemioterapia. Come d'incanto i miei pensieri si erano assottigliati sino a ridursi in poltiglia, quasi come se mi vergognassi nel pensare ciò che la mia mente aveva riprodotto, sentendomi una stupida alla visione di quella donna. Non conosco la sua storia, ma il suo volto parlava nonostante stesse in silenzio, mostrando la sua malattia senza alcun imbarazzo né volontà di generare compassione. Il suo sguardo fiero che non osava mai abbassare era sintomo di coraggio e desiderio di colorare la sua vita di tinte ben più vivaci di quel foulard che le copriva il capo, come se rappresentasse una battaglia tra la vita e la morte, una corsa contro il tempo in cui le scadenze non avrebbero mai preso il sopravvento, non prima di averci almeno provato.
Credo che ognuno a suo modo consegua una personale corsa contro il tempo che il più delle volte sfugge rendendoci impotenti. Anche quella donna ne aveva una, ma per la prima volta avevo visto una vittoria nonostante il traguardo non fosse stato ancora superato, nonostante la corsa non fosse ancora terminata, addirittura prima del tempo, come se le scadenze fossero illusorie. Allora aveva dato in quel preciso istante una lezione a me e a tutti quelli che come me giocano col tempo sapendo a priori di uscirne forse sconfitti: non aveva avuto paura di palesare la sua corsa contro un tempo che le remava contro come un vento sfavorevole. Forse questo è l'unico modo di sentirci padroni del tempo, di sentirci vincitori nonostante tutto.
E mentre me lo stava insegnando, per la vergogna, ho detto grazie zittendo i pensieri.

lunedì 25 marzo 2013

Amore e altre forme.

Siamo frutto dell'amore, di quella compenetrazione di corpi che ne è l' appendice, o fugace quanto una stretta di mano, che dell'amore potrebbe non avere nulla all'apparenza, ma in sostanza ne ha prodotto una forma. E allora è naturale avvertirne il bisogno, come naturale è stata la nostra nascita e la causa di essa. Ma allora perché abbiamo paura di dirlo o quando lo sussurriamo sottovoce per timore che qualcuno ci senta continueremo a vergognarci per il resto dei nostri giorni? Come un frutto maturo che una volta caduto dall'albero neghi la sua provenienza, non riconosca più il ramo che l'abbia visto sbocciare e poi maturare, come se preferisca essere scaraventato da una folata di vento sul terreno arido ai piedi dell'arbusto e lì voglia restarci nonostante presto potrebbe marcire.
Ma la verità è che dell'amore ne abbiamo bisogno in ogni sua forma, dalla più estrema, dalla più aspra, alla più minuziosa e delicata, anche se dell'amore non conosciamo nulla anche quando avremo la presunzione di conoscerne i dettagli o la pretesa di appurarne almeno gli aspetti principali. Anche quando dell'amore vorremmo conoscerne almeno una forma, pensando di non essere stati mai in grado di conoscerne una, ignorando di essere noi una delle tante, la prima, la più importante, l'inizio del nostro percorso cognitivo. 
Spesso capita di rincorrerlo, di pensare che si nasconda dietro una siepe, urliamo perché sia in grado di ascoltarci, illudendoci che l'amore abbia voce per risponderci. Ma l'amore non corre, passeggia, non si nasconde ma spesso si pone davanti a noi in una combinazione di forme o come manifesto di una di queste. L'amore non ha voce, ma soltanto occhi per vedere, orecchie per ascoltare. Non urla, ma è silenzio, quel silenzio pungente o intervallato da parole, poche, inaspettate, che riempiono più di qualsiasi dichiarazione.
Perché oggi la dichiarazione d'amore più bella è sentirsi una forma d'amore, imprecisa ma dai contorni definiti, è essere per l'altro l'unica forma visibile dunque esistente. Una forma che trova colori vivaci anche nelle tinte opache, precisione anche dove avremo potuto calcare meglio. 
E' questa la dichiarazione d'amore più bella, spontanea, controcorrente nel suo apparire obsoleta: essere la forma d'amore più piena, che ce lo dica qualcuno, che lo pensiamo noi.



domenica 24 marzo 2013

Le parole che fregano.

Le parole, quelle, mi hanno sempre fregato.
Forse perché mi piace scrivere, mi piace ascoltare la storia delle vite degli altri più che parlare della mia, mi piacciono le parole pronunciate a singhiozzo per l'imbarazzo del momento, intervallate da lunghi silenzi ove il respiro appare eloquente.
Non lo so, ma le parole, soprattutto quelle che sanno di promesse che non verranno mantenute, quelle, mi hanno sempre fregato. E mi hanno sempre fregato prima che fossi io a fregare loro, sono sempre cadute nel mio spazio come neve in primavera, come una palla battutami contro mentre ero di spalle.
Mi sono voluta convincere che i gesti contassero di più, ed in realtà è così, ma spesso mi capita di dare alle parole un'importanza maggiore, quasi come se volessi difendermi da gesti inesistenti, che quasi contraddicono quella ripetizione di suoni fatta da vocali e consonanti che si rincorrono come se volessero andare chi sa dove, frenando il loro flusso solo quando oramai varcata la soglia della comprensibilità io gli domando "Ma dove andate?" ma loro a quella domanda non rispondono mai.
Credo alle parole, soprattutto quelle più semplici, come un "ci vediamo", "ti voglio bene", "per te ci sono", nonostante passino giorni, a volte mesi prima di rivederci, nonostante spesso l'affetto sulla mia pelle io non l'avverta, nonostante ognuno ci sia a suo modo, per cinque minuti, un'ora, un'intera giornata o per anni, con una telefonata o una canzone che una volta ascoltata non sarà più soltanto tale ma il cui testo racconterà una storia, la nostra. Un modo che vede presenti nell'assenza o assenti avvertendone comunque la presenza.
Un modo che spesso non coincide con il mio, un modo che talvolta non è riuscito ad attutire le distanze come avrei desiderato. 
Ma alle parole credo così profondamente che a blande promesse raccontate per non ferire preferisco il silenzio. Ed è per questo motivo che parlo poco ma osservo tanto, che talvolta avrei preferito esser sorda  più che cieca. Perché l'assenza dei gesti quasi me l'aspetto, addirittura talvolta la giustifico nonostante non meritino giustificazioni, ma le parole, quelle, continuano a scivolarmi lungo tutto il mio corpo lasciando ovunque il segno della loro percorrenza.

giovedì 21 marzo 2013

Un anno in più.

Sono trascorse quattro stagioni, è di nuovo primavera, ho ancora una volta un anno in più, un numero in più da aggiungere. Un anno in cui ho avvertito presenze piene, qualche volta incostanti, altre che si sono man mano svuotate divenendo ineccepibili mancanze. Un anno in cui mi sono rimessa in gioco, come un giocatore di poker inesperto, riscuotendo talvolta la fortuna del principiante, altre pagando invece la mia inesperienza. Un anno di avventure, di valigie, di ricordi, di emozioni autentiche, di legami di cui ho appurato la triste fugacità. L'anno di un tempo che mi ha concesso, ma che mi ha anche tolto. L'anno delle parole e dei gesti, delle lacrime che dicevano addio pur sperando in un arrivederci, delle grasse risate che pronunciavano grazie, degli sguardi che volevano dire ci sono, delle spalle che una volta girate mi dicevano sto andando via.
L'anno dei sacrifici, della forza di volontà, della maturità nell'accettare che bisogna lasciare le persone libere di scegliere per coglierne la reale natura che si riscontra nelle scelte ed in ogni minuzioso dettaglio, dell'impotenza nel comprendere che tutti arrivano ma pochi restano, e che bisogna lasciare che le cose prendano il loro corso naturale per evitare di svegliarci un giorno con poche briciole inconsistenti nelle tasche di una vita che sembrerebbe poi non così piena. L'anno del risveglio delle passioni, dell'apertura dei cassetti in cui avevo riposto i miei sogni, dell'esigenza di avvertire calore come quello che filtra attraverso le piume di una rondine, bistrattando tutto ciò che non è in grado di darmene. 
Un anno in cui ho rinsaldato legami, coltivato quelli già esistenti, in cui ognuno mi è stato accanto, ciascuno a suo modo. Un anno in fondo pieno di scoperte, nonostante ancora nessuna prenda il nome di certezza. 
Un anno pieno di castelli di sabbia e di bolle di sapone, in cui ho cercato di godere comunque del Sole che tramontava all'orizzonte, abbassandosi mano mano nelle acque cristalline di un mare calmo, in cui ho tentato comunque di alzare gli occhi, lasciando perdere il mio sguardo verso ciò che avrebbe potuto nascondersi dietro le nuvole mentre le bolle scoppiavano una ad una senza riuscire a fermarle. 
Un anno in cui c'è stato tutto quello di cui avevo bisogno, o di cui a ventiquattro anni avrei potuto farne a meno. Un anno di A di amicizia, ma non di amore, nemmeno a pagarlo, nemmeno illusorio. 
Ma forse non importa ciò che c'è stato, ciò che non è accaduto, ciò che avrei voluto ci fosse, ciò che avrei desiderato tanto evitare. Conta che un altro anno c'è stato. Un po' l'ho riempito io, in parte ho lasciato che fosse, ma nessuno l'ha mai riempito al mio posto. Un anno di me, di me diversa, di un più che ho seminato per coglierlo col tempo, in attesa che giungesse di nuovo la primavera.

domenica 17 marzo 2013

Un universo di funamboli

Mentre casa mia veniva messa a soqquadro senza che facessi nulla per impedirlo, nelle case degli altri sono sempre dovuta entrare in punta di piedi, talvolta travestendomi addirittura da funambola. Il mio desiderio di occupare uno spazio che non mi vedesse con i piedi a mezz'aria, ha dovuto sempre fare i conti con l'esigenza, o forse il dovere, di diventare un'acrobata, ma quest'ultimo non ha mai vinto nonostante gli sforzi. Nonostante in equilibrio su di un filo non ci sapessi stare, tutti hanno sempre preteso che lo facessi ed io ho cercato di accontentarli pur di restare in uno spazio che appartenesse a qualcun altro, anche se paradossalmente non lo occupavo mai. Ho provato ad imparare nonostante abbia messo sempre tutti a sedere nelle prime file e quando cadevo ci riprovavo nonostante sentissi di non avere abbastanza forza nelle gambe, nonostante l'imbarazzo nel sentirmi schernita da un pubblico di funamboli di professione. 
Ho cercato di spiegare che il funambolismo non fa per me, ma sono stata sempre rimproverata e cacciata perché nessuno mi ha mai creduta, "Tutti ci sanno stare", mi dicevano, "perché non dovresti farlo anche tu?"
Mi sono convinta che avessi io qualcosa che non andasse, pensavo di non avere abbastanza forza nelle braccia e nelle gambe, né sufficiente concentrazione che me lo permettesse. Ho tentato di fare pratica, ma inevitabilmente cadevo e nel rialzarmi non desideravo mai di risalire sul filo, ma di strisciare sporcandomi di tutto ciò che ci fosse sul pavimento, mantenendo gli occhi aperti nonostante vi entrasse la polvere. 
Ma la verità è che ci vedo così tanta poca naturalezza e spontaneità, così poca umanità in questa pratica per me a tratti perversa, che non posso rivedermici. Non ho mai voluto che qualcuno dovesse alzare lo sguardo per vedermi in perfetto equilibrio, né io ho voluto mai realmente abbassarlo nonostante il suo sguardo tra la folla non riuscissi sempre ad incrociarlo. Non l'ho mai voluto eppure è accaduto, nonostante non ne ricorda il motivo ed il perché non abbia scelto una strada diversa prima di posizionarmi con i piedi a mezz'aria. 
Si innesca un meccanismo perverso nella mentalità di un funambolo: sta lì facendosi forza nelle gambe cercando di rimanere in equilibrio su di un filo, attento ad attraversarlo tutto per più di una volta, non occupando alcun volume, accaparrandosi gli sguardi della folla seduta sugli spalti che lo fissa dal basso, acclamandolo come grande artista. Ma io vorrei alzarmi tra la folla ed invece di acclamare chi paventa quest'arte che sembra contraddire i limiti umani, spezzare quel filo e vederlo scaraventato sul suolo. Vorrei vederlo strisciare o alzarsi mantenendosi in equilibrio con i piedi sul pavimento e nel constatare la sua mancata propensione dirgli: questa è la vera natura dell'essere umano, perché non dovresti farlo anche tu?

giovedì 14 marzo 2013

Fino ad innamorarci.

Facciamo come quelli che guardano attraverso il finestrino di un treno in corsa, potendone a mala pena ammirare la bellezza dei paesaggi, indicandoli con un dito attraverso i vetri sporchi del vagone, quel dito che abbasseremo quando man mano il nostro sguardo sarà lontano da quell'immagine, venendo irreprensibilmente catapultato su quella matassa di mattoni posti in malo modo l'uno sull'altro, senza forma, né odore, né voce, perché è esattamente lì che ogni volta ci fermiamo, in stazioni desolate che non offrono ampio spazio all'immaginazione. Saremo uno fra i tanti passeggeri, non gli unici, mai i primi ad accomodarsi, solo qualche volta gli ultimi a scendere. Parleremo con chiunque scelga di sedersi di fianco o probabilmente con nessuno, mentre la nostra mente potrà essere trasportata sull'onda dell' inconscia quanto irrealizzabile fantasia di voler far spuntare freschi germogli tra mattoni di una stazione ove nessuno passerebbe, nemmeno per caso, ad innaffiarli. Lasceremo che la nostra fervida immaginazione ci conduca all'ombra di un cipresso, in una tiepida giornata di primavera, ritagliando per noi due uno spazio che abbia l'odore del caffè o della spremuta di un'aranciata fresca e come voce il cinguettio degli uccelli, non privandoci di volare, ma nemmeno di sostare e dire ciò che siamo, così su due piedi, invece di invidiare chi per strada si tiene per mano, significando che ciò che si dovevano dire, per poi passeggiare in quel modo così vicini, già l'hanno pronunciato, in un tempo prossimo o remoto, quel tempo che noi non riusciamo mai a catturare, perché non sembra mai il momento, perché il nostro treno è pronto a ripartire. La fantasia sembra essere l'unico spazio in cui il vento non ci scompiglia i capelli nascondendoci il viso, in cui il tempo non ci è avverso ma nostro fedele alleato, in cui non serve zuccherare il caffè o temporeggiare con la cannuccia immersa nella spremuta, in cui il silenzio non innalza mura incomprensibili ma unisce in parole che non vanno necessariamente scandite una ad una, in cui l'unica premura è l'incrocio di sguardi senza mai abbassarli per timore di scoprirsi troppo, in cui possiamo rimuovere l'immagine di innamorati che passeggiano come a ricordarci quanto siamo infelici nel nostro essere bugiardi.

Ma cosa succederebbe se mancasse quella fantasia a tratti armoniosa, sotto altri aspetti perversa, ma fingessimo di ritrovarci in essa ricreando tutto senza tralasciare alcun dettaglio?
Come se il tempo non fosse una priorità, non un alibi alle nostre menzogne, come se le nuvole avessero già la nostra forma, gli uccelli la nostra voce, l'aria il nostro profumo, parleremo fino ad innamorarci, forse. 
Ma nella nostra vulnerabilità ogni cosa sembrerà renderci schiavi. Anche la fantasia.

La borsa: il contenuto dell'anima.

Una volta qualcuno ha detto che gli occhi sono lo specchio dell'anima. 
Ma senza paventare la presunzione di essere un giorno definita quel Qualcuno che abbia inteso modernizzare questo detto antichissimo, credo che almeno il contenuto di un' anima femminile lo si possa scorgere semplicemente guardando in una borsa. Almeno per me è esattamente così. E' incredibile quanta gente tema di guardarsi dentro, mentre invece io ho più paura di guardare dentro la mia borsa che dentro di me, quasi come se in effetti non trapelasse alcuna differenza evidente, ma come se le due cose si compenetrassero divenendo l'una la metafora dell'altra.
Perchè in effetti ho così tante borse nell'armadio, di qualsiasi dimensione, forma e colore, ma utilizzo ordinariamente sempre la stessa perchè l'unica più capiente, l'unica in grado di reggere il peso, l'unica di cui non senta mai l'esigenza di riordinarne il contenuto sebbene sarebbe opportuno. 
La mia borsa è veramente un disastro. Spesso dimentico di gettare le buste di tabacco oramai finite, lasciandole nella tasca laterale, in cui si nasconde quella appena comprata che inevitabilmente non riesco mai a trovare. Ad uno dei due lati casca sempre il borsellino, su cui si poggiano un libro, un'agenda, una penna che ovviamente non scrive ma non so perché dimentico sempre di gettarla via. Se sono fortunata mi capita di pescare anche vecchi biglietti del treno, nonostante non lo prenda da mesi, la cartina della metropolitana di Londra che sembra voglia farsi pescare proprio per far rivivere i ricordi che in certi momenti vorrei opacizzare ed ammutolire, addirittura biglietti dell'aereo, pacchetti di fazzolettini sparsi qua e là che penso sempre di non avere dietro quando qualcuno cortesemente me li richiede. 
In effetti c'è tanto disordine, la necessità di ordinare, ma la noia al solo pensiero. C'è tanto passato che spesso nasconde il presente, lasciando al futuro uno spazio irrisorio, quasi inesistente. C'è tutto, ma spesso manca l'essenziale, perchè in effetti spesso dimentico il cellulare e le chiavi di casa sulla scrivania portandomi dietro ciò che non serve e che pesa, come un libro, un'agenda, una penna che però non scrive.  
E allora, avvalorando questa mia modernizzazione, potrei dire che la mia anima pesa, è ingombrante, come se ci fosse tutto ma niente che sappia di necessario, disordinata, immersa in un passato faticando a godere il presente ed angosciata al pensiero del futuro. Un po' come quando in preda alla confusione dei pensieri, lascio loro il tempo necessario per dispiegarsi, di trovare da sé il giusto ordine senza esserne l'autrice. 
Ma la verità è che in questo disordine io ritrovo quella che sono. Non temo di svuotare la borsa, non temo di guardare avanti, temo soltanto che nella schematizzazione e nell'ordine artificiale e non naturale degli eventi io non riesca più a trovare me stessa ed i miei reali voleri. 
La mia paura più grande è quella di guardare così oltre da disperdere i miei ricordi in un'aria rarefatta senza mai più sentirli, senza che non riescano mai più a strapparmi un sorriso nel loro riviverli, pescando tra l'accozzaglia una cartina della metro di Londra, un biglietto aereo, una penna che non scrive che non tolgo perchè me l'hanno regalata e se non me la portassi dietro avrei paura di perderla. 
Ho paura di perdere i ricordi, ma non di accostarli al presente e ad un ignoto futuro, per questo li porto dietro, come se in un'apparente inutilità si nascondesse l'essenzialità, la mia.

lunedì 11 marzo 2013

E mentre mi affannavo, scoprivo ...

E mentre mi affannavo nella ricerca di una strada di cui mi imponevo la precisa definizione nonché la percorrenza, come se volessi scrivere pagine di concetti matematici esatti e dimostrabili pronti per la rilegatura, ho scoperto una scorciatoia, un sentiero impreciso ma immacolato, non una strada larga, ma un viottolo celato tra le siepi, che mi ha indotto a scrivere pagine e pagine di pensieri non dimostrabili, quelle inesattezze che nella profondità di un'anima trovano i loro contorni più esatti. 
E mentre mi affannavo per il mio inconscio desiderio di mettere radici, ho scoperto di non esserne capace con chiunque, ho scoperto che le mie radici si sarebbero rinsecchite lasciandomi così morire, ho scoperto che non voglio chiunque, né chiunque vorrò mai esserlo, perché nel non mettere radici c'è più vita che nell'imporsi ostinatamente di farlo con chiunque. 
E mentre mi affannavo nella ricerca di stimoli e di appagamento di bisogni insoddisfatti, ho scoperto di farlo ogni giorno a piccole dosi, usufruendo soltanto di me stessa.
E mentre mi affannavo nell'immaginare quante possibili vite avrei potuto dipingere sulla mia tela, ho scoperto di poterlo fare bastandomi un pennello e pochi colori da combinare per poterne creare naturalmente altri.
E mentre mi affannavo nel voler leggere gli altri, intanto scrivevo me stessa.
E mentre mi affannavo precipitando inesorabilmente in storie impossibili, ho scoperto che si trattava semplicemente di storie, tutte possibili quanto giuste nella loro impossibilità ed ingiustizia morale, perché mi hanno indotto giustamente a decifrare quante possibilità esistano di essere felicemente amati, quante possibilità di reinventarsi possano essere partorite, quante possibilità io abbia di comprendere chi desideri diventare, inducendomi a catalogare in comparti ciò a cui mi avvicinerei e ciò da cui mi distanzierei, essendo tutti strumenti definitori e selettivi nella loro estraneità.
E mentre mi affannavo nel decidere dove andare, avevo optato intanto per un dove enigmatico, inesplorato ma meraviglioso, un luogo in cui puoi rifugiarti quando vorrai senza pagare alcun biglietto, standoci per sempre pur spostandoti da città in città, quel luogo in cui puoi immaginare colline sinuose, vaste praterie, prati fioriti, campagne dorate senza scrutarne l'orizzonte, quel dove che si chiama semplicemente anima.
E mentre mi affannavo nel ritagliarmi un piccolo spazio, sentendomi spesso una toppa di cotone ricucita maldestramente su di un tessuto di seta, dentro quest'anima cucivo ed imbastivo abiti dalle tinte pastello e dai tessuti più pregiati.
E mentre mi affannavo, perdendomi in grandi progetti, raccoglievo briciole. 
Oggi le briciole le chiamo possibilità, ciò che da' senso alla fatica, le uniche che nella loro irrisoria compattezza nascondono un'immaginaria grandezza. 
Ed è proprio mentre mi affannavo, che alla fine lo scoprivo.

sabato 9 marzo 2013

Le persone speciali.

Esistono persone che hanno scritto "ti voglio bene" sulla fronte, nel luccichio dei loro occhi, sul palmo della mano e sulle labbra anche senza pronunciarlo. E lo scriveresti per loro anche tu ovunque, su ogni parte del tuo corpo, lo grideresti al mondo scandendo il suono delle vocali ed accentuando quelle delle consonanti in modo da perforare i loro timpani. Esistono persone a cui riservi inispiegabilmente il miglior posto nel tuo cuore, e sai che loro fanno lo stesso perché te lo ripetono, perché una volta ti hanno definito "il loro cuore". Esistono persone con cui puoi sederti al tavolino e alla domanda "Come stai?" potrai rifiutarti di raccontare la convenzionale storiella del "tutto bene grazie...", cominciando a raccontare come un fiume in piena la tua vita in quel dato frangente, cosa vada e cosa manca, perché è come se ti sentissi costretta a non mentire, nella convinzione che sia seduto al tavolo chi avrà orecchie per ascoltare e comprendere. Esistono persone che sanno senza chiedere, illuminandoti il viso quando pronunceranno "L'ho sempre saputo". Esistono persone che avrai la sensazione di tenere sempre per mano nonostante non siano presenti fisicamente ogni santo giorno della tua vita, ma la loro anima sarà impressa come un' incisione eterna nel tuo cuore. E ti chiederai da quando quella persona sia entrata a far parte della tua vita e la risposta sarà da sempre, perché non ne ricordi il momento esatto, ma c'era quando eri solo una bambina e ti facevi tante domande sul mondo adulto non ottenendo le risposte spesso che speravi, c'era quando cadevi e nel rialzarti ti tendeva la mano pulendoti il ginocchio dal fango, talvolta aggredendoti a voce alta dietro la quale si celava un'incredibile tenerezza, lo star male anche per te, gridando perché voleva che non sbagliassi più. C'era quando pian piano sbocciavo per diventare una piccola donna, c'era quando donna lo sono diventata. C'eravamo, insieme, quando la vita ci toglieva le nostre certezze, ci attanagliava con incomprensibili dubbi, ci faceva assaporare la ruvidità dell'asfalto di una strada ignota ove l'unica certezza siamo stati sempre noi, insieme anche quando eravamo lontani. Qualcuno la definisce "chimica" ma non credo che rapporti così abbiano a che fare con equazioni matematiche, non c'è alcun senso logico nel nostro stare insieme, non esistono domande né la frenesia di dover rispondere, solo meraviglia quando ci si incontra anche per caso, sorrisi che restano stampati sul tuo viso quando si pensa. Esistono persone che saranno sempre il tuo articolo determinativo, il primo, al di là di tutto, sempre il migliore, perché ti ha sempre consentito di comportarti come avresti voluto con tanti uomini entrati ed usciti dal retro dalla tua vita, spiegando le tue ali senza timore di esser te stessa. Ed il paradosso è che non solo me lo ha permesso in maniera naturale, non me l'ha mai recriminato, ed è sempre restato. Qualcuno vorrà sapere se l'amicizia tra uomo e donna sia possibile, molti ne dubitano, ma io dico di sì, perché l'ho conosciuta e la percepisco sulla mia pelle. E' qualcosa che va oltre il semplice affetto, oltre anche all'amore, è  quella amicizia che si sposa con l'aggettivo speciale, ma che ti sembra così riduttivo definirlo solo tale che sei costretta ad aggiungerci un "Più", accentuando il suono della prima consonante, come se la "u" fosse di una profondità immensa. Ho la sensazione ogni volta che mi prenda per mano e mi dica "andiamo a casa" ovunque e con chiunque altro io stia, ho la sensazione di non voler cercare più nessun'altra strada perchè quella mi basta.
Lui è casa, è Amicizia, è quel di più che pochi comprendono ma ci basta che lo capiamo noi.