martedì 6 ottobre 2020

Come un telo da mare

Con l’arrivo dell’autunno ho messo via un po’ di cose. Ho lavato in lavatrice il telo da mare, l’ho piegato e conservato al suo solito posto. Lo riprenderò il prossimo anno, quando correndo a piedi nudi sulla sabbia in pantaloncini e canotta sarò pronta per lasciarmi dondolare dalle onde del mare e riscaldare dai raggi di sole, ancora una volta.

Ogni cosa gode dei suoi tempi.

Sa già dove e quando deve essere conservata.

Come tante altre, sanno già che prima o poi dovranno essere gettate via.

Non sono brava a disfarmi delle cose, mi ripeto spesso che molte potrebbero tornarmi utili, prima o poi. Ma questa volta ho deciso di conservare solo il telo da mare e tutto quello che gli rassomiglia, ovvero tutto ciò che basta semplicemente scuotere dopo l’utilizzo per rimuovere ogni granello di sabbia che potrebbe appiccicarsi alla schiena la volta dopo.

Ho pensato di conservare cose così, quelle che richiedono cura ed energia, ma mai in eccesso, rispettando i miei spazi ed i miei tempi. 

Ho deciso di fare lo stesso con le persone, tenendo per mano solo chi, con uno sguardo attento e mai una parola di troppo, ha la capacità di trasformare la pioggia battente in arcobaleno, una brutta giornata in un’altra più serena, un terreno arido in uno in cui si possa concimare ed aspettare la bella stagione per la raccolta.

Seguendo questo principio, sono tante le cose da gettar via, più di quelle che immaginassi.

Come le pillole per dormire che adesso non mi servono più, perché ho imparato a respirare lentamente, a non correre, a non aspettarmi nulla da un futuro di per sé incerto, ma a fare un passo alla volta e a seminare, con pazienza, ciò che un giorno mi piacerebbe raccogliere, senza ansia da prestazione.

Ho fatto lo stesso con qualche ricordo diventato troppo ingombrante.

Anniversari che al solo pensiero ti fanno star male.

Fogli di carta su cui un tempo scrivevi delle cose che basta rileggere per capire che adesso sei cambiata rispetto a qualche tempo fa.

Con le persone ho deciso di fare più o meno lo stesso.

Ho scelto di allontanare quelle che non sanno respirare lentamente prima di rivolgerti parola.

Quelle che aspettano già al traguardo, ma a correre o passeggiare insieme a me non ci hanno mai minimamente pensato. 

Quelle che non sono in grado di prendersi cura del proprio terreno e quindi nemmeno dell’altro, perché da quella terra non spunterà alcun bocciolo. 

Quelli ingombranti, che ti rendono la vita un luna park senza alcun divertimento ma solo capriole e luci al neon che dopo un po’ ti danno la nausea.

Quelli che non lasciano che tu cresca, mettendo in luce la parte migliore di te, ma solo quella che non vorresti mai essere.

Mi piacciono le cose come le persone che come un telo da mare porti con te al braccio fino alla spiaggia, e che pur sgualcendosi nel corso della giornata, saranno sempre quelle di cui non potrai fare a meno.

Quelle a cui basterà una scossa o una folata di vento per ripulirle.

Quelle che ti ricordano il mare e lasciano che tu sia esattamente come lui, infinito.

Mi preparo ad un autunno diverso rispetto a quello dello scorso anno, fatto di alberi spogli da rivestire e foglie secche tutte da colorare, di volti opachi da allontanare, di esperienze da imballare in scatoloni che non dovranno essere più riaperti, di anime spente cui comunicare che il tuo lavoro è terminato per poterti prendere cura di te stessa e della tua luce che non dovrà spegnersi mai, a qualsiasi condizione.

Così mi godrò l’autunno senza aspettare l’inverno e l’inverno senza aspettare il profumo dei fiori freschi di primavera. E godrò questi ultimi senza fremere per l’arrivo di una nuova estate.

Ho già soltanto una certezza sino ad allora: che con le infradito malconce, in pantaloncini e canottiera, correrò sino a raggiungere il bagnasciuga. Una volta lì, scuoterò il telo e mi metterò a respirare, lentamente, come sto imparando a fare.

sabato 4 aprile 2020

Racconto breve: Scarpe strette

Atterrai a Dublino nel tardo pomeriggio di una domenica di fine estate. Mi affrettai per andare a recuperare il bagaglio e mi misi in coda per l’autobus, che in poco più di tre ore mi avrebbe condotto a Cork, una piccola cittadina al Sud dell’Irlanda. Il cielo era di un grigio cadetto e la pioggia così sottile da non bagnare nemmeno l’asfalto.  Occupai uno dei primi sedili, accanto ad una donna dalla corporatura robusta che si rannicchiò sul suo fianco destro per tutta la durata del viaggio, costringendomi a appoggiare la testa sul vetro del finestrino alla mia sinistra. 

Ho sempre amato la pioggia, il suo profumo e quell’inconsueta quiete che ne sussegue. Sin da bambina mi piaceva guardare come scorrevano velocemente gli schizzi di pioggia sui vetri delle finestre, immaginando fossero degli spermatozoi che passavano da una parte all’altra del fermavetro. Di questa mia fervida fantasia non ne avevo mai parlato a nessuno. Avrebbero pensato tutti che fosse una delle mie tante stranezze, anche se poi quell’etichetta me la cucirono addosso quasi tutti anche senza sapere delle mie bizzarre fantasie, quando una volta conseguito il diploma decisi di dare un taglio a quella che sino ad allora era stata la mia vita.

“Allora non ti iscrivi all’università?” mi chiedeva insistentemente Daniela, la mia storica compagna di banco delle superiori, a cui ho sempre passato tutti i compiti di inglese e matematica, le uniche due materie in cui ero sempre stata molto più ferrata degli altri.
“No, preferisco fare quest’esperienza all’estero. Magari apprendo l’inglese sul serio, mi trovo un lavoro. Preferisco guadagnare qualcosa”.
Era questa la risposta che avevo dato a tutti, pur percependo in ogni sguardo in cui mi imbattevo un velo di incredulità. Preferivo non farci caso, in fondo non avevo altra scelta.

Non sono cresciuta in una famiglia abbiente. Quando avevo dodici anni la gelateria che aveva preso in gestione mio padre fallì, così mia madre si ritrovò con uno stipendio da segretaria di poco più di mille euro al mese a prendersi cura di me, mio fratello e mia sorella, e a curare la depressione di mio padre.
“Però pigli troppi caffè e fumi assai Stefano”, mia madre rivolgendosi a mio padre.
“E c’aggia fa’ Rosà?”
“Vai a dare un poco d’acqua alle piante e porta fuori i cani”.

All’inizio pensavo che mia madre lo sgridasse. Forse, per non essersi preso cura abbastanza della sua famiglia. Poi capii che quello che sembrava fosse un ordine era l’unico modo che conosceva per spronarlo a non lasciarsi andare. Capii che spesso mia madre utilizzava quei modi bruschi per insegnare a me e ai miei fratelli ad essere responsabili. Intanto lei aveva imparato a gestire l’imbarazzo magistralmente. Come quando mia zia veniva a portarci la spesa e buste piene di vestiti che le mie cugine non indossavano più.

“Marì e mò tutta sta roba dove la metto?” mia madre, rivolgendosi a mia zia con tono di rimprovero.

“E te li conservi per quando cresce”.

“Vieni qua Claudia, misura qualcosa”.

Anche se le scarpe mi stavano strette o le maglie troppo larghe, mia madre era sempre in grado di trovare una soluzione.

“Questo vestito ti sta bene Claudia, poi mamma te lo stringe un poco.”

“Guarda qua pure sta felpa, quest’anno ti rimbocchi le maniche, per l’anno prossimo ti andrà giusta”.

Quando anche mia madre venne licenziata qualche anno più tardi, capii che avrei dovuto mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato e che sarei stata io stavolta a trovare una soluzione.

Comunicai ai miei l’intenzione di andar via per un po’. Acquistare un biglietto di sola andata rappresentava un’arma a doppio taglio dietro cui si celava un po’ di sano egoismo che mi avrebbe consentito di riaproppriarmi di quello che mi era sempre mancato e conquistare la mia indipendenza, così come un innato altruismo nei confronti dei miei genitori per ripagarli di tutti i loro sacrifici.

“Ma tu si piccerell, arò vaje?” mi disse mia madre.

“Mà ho diciannove anni. Mi trovo un lavoro, là pagano bene, vi mando qualcosa”.

“No figlia mia. Lascia stare”.

“Rosà, lassà sta tu. Se vuole andare, va buon accussì”, la interruppe mio padre, il quale sembrò non batter ciglio di fronte alla mia decisione.

Così mia madre mi aiutò a preparare le valigie, lasciando spazio in ogni angolo per qualche pacco di pasta e di caffé.

“Portati pure questo piumone.”

“Mà dove lo metto? Non c’è spazio. Poi me lo compro, non ti preoccupare”.

“Claudia là fa freddo. Te lo faccio entrare io, aspetta”.

In un modo o nell’altro, mia madre trovava sempre una soluzione. Così riuscii a portare con me anche il piumone.

“E mò quando torni?” mi chiese prima di salutarmi in aeroporto.

“Mà non lo so”.
Girai le spalle senza voltarmi. Non volevo vederla piangere. L’ho sempre fatto, tutte le volte che tornavo, perché col tempo ho capito che forse una madre non si abitua mai a vedere andar via un proprio figlio.

Venni assunta da Amazon e riuscii a mettere un bel po’ di soldi da parte, oltre ad inviare ogni mese una cospicua somma ai miei, il che mi fece credere per un bel po’ che avessi finalmente costruito una vita, la mia, degna di essere vissuta. Ogni cosa che profuma di libertà ha il suo prezzo da pagare, e credevo che quello fosse il mio: poco più di cinquecento euro al mese.

“Grazie Claudia, poi ti mando un pacco a fine mese”.

“No, mamma, non mi serve niente”.

“Come non ti serve niente? Non ti preoccupare, ho cominciato a pulire la casa della signora Carmela, quella che abita di fronte. Ha detto che ha altre signore da presentarmi”.

“Mi fa piacere”.

“Ascolta che ti serve?”

“Mà te l’ho detto, non mi serve niente”.

“Io ho due frullatori, uno te lo mando, può sempre servire. Poi ascolta, ti mando pure le tende così le metti nella tua stanza”.

“Le tende? Non ti preoccupare, non mi spedire niente”.

“Allora quando vieni te le porti in valigia. A proposito, quando torni?”

Le telefonate tra me e mia madre si concludevano sempre con la stessa domanda cui io davo quasi sempre la stessa risposta: “Presto mamma”, anche se talvolta voleva dire il prossimo mese, altre volte entro sei.

Prima di partire mi documentai su Cork, la città natia di un professore con cui avevo seguito un corso d’inglese ai tempi delle superiori. Decisi di trasferirmi in quella cittadina di poco più di 120.000 abitanti spinta dai suoi racconti sulla bellezza incontaminata dei suoi paesaggi. Poco dopo però mi resi conto che non aveva molto da offrire ai giovani della mia età, a parte lavori strapagati rispetto a quello cui ero abituata.

Durante quei tre anni in Irlanda mi sono fatta degli amici, ma mi sono anche abituata a vederli andar via. All’inizio cadevo in un profondo sconforto, poi col tempo ho imparato a lasciarli andare, mantenendo solo i ricordi. Nessuno voleva rimanere lì per sempre e man mano questa divenne una certezza anche per me.

Oggi sono su un altro autobus, quello che dall’aeroporto El Prat di Barcellona mi fermerà a Plaça Cataluñya, il punto di partenza da cui le mie scarpe, questa volta della mia misura, cominceranno a calpestare un asfalto diverso, come quello di viuzze strette che portano al mare. Come mi mancava, il mare. Non potrò di certo spedire ai miei conchiglie, pensai. Troverò un lavoretto e continuerò ad aiutarli, come potrò, la fortuna aiuta gli audaci, diceva sempre mia madre. Nel mio bagaglio avevo imparato a farci entrare tutto, proprio come faceva lei, compreso il piumone. Questa volta, però, i sensi di colpa li avevo lasciati dietro le spalle di quella ragazzina ingenua che indossava scarpe strette e che rimboccava le maniche alla felpa, perché tanto l’anno successivo le sarebbe calzata a pennello.

Quel tempo mi servii per apprendere una lezione che altrimenti mi sarebbe stata sconosciuta: che la libertà ha spesso il sapore di cose semplici ed il suono di quelle che avevamo rimosso dalla nostra mente, come il rumore delle onde del mare. Che quando pensavamo di possedere le chiavi per inseguire la nostra libertà, stavamo invece aprendo la porta di quella che sarebbe stata la nostra prigione. E che nessuno si salva da solo, ma chiunque ha il diritto di salvare dapprima se stesso.

giovedì 19 marzo 2020

Essere umani ai tempi del COVID-19

In queste settimane di quarantena forzata abbiamo trovato più tempo per noi stessi e al contempo anche per gli altri. In poche parole, credo che in circostanze a dir poco surreali, stiamo allo stesso tempo gettando le basi per la creazione di un mondo ideale, a patto che, quando tutto questo sarà finito, saremo in grado di ricordarcelo e mantenerlo intatto.

Abbiamo ricominciato tutto quello che avevamo lasciato in sospeso, stiamo dedicando del tempo a tutto quello che avremmo sempre voluto fare ma che abbiamo rimandato non solo per mancanza di tempo, forse più di costanza.

Avvertiamo la necessità di metterci in contatto più spesso con i nostri cari, anche solo per sapere se hanno fatto un colpo di tosse nelle ultime 12 ore.

Sentiamo il bisogno di metterci in contatto anche con chi avevamo dimenticato, o con chi speravamo di cancellare dalle nostre vite. 

Colmiamo distanze con tante parole, al solo scopo di sentirci presenti seppure da lontano e di avvertire la vicinanza dell’altro. 

Ci auguriamo di abbracciarci e baciarci presto, più forte di quanto facessimo fino a qualche settimana fa. 

Sentiamo il bisogno di organizzare raduni telematici, perché abbiamo scoperto l’importanza dello stare insieme anche senza toccarci, guardandoci negli occhi sebbene ci sia uno schermo a separarci. 

Credo avessimo bisogno di tutto questo, quasi come fosse una lezione di vita per l’intera umanità che recita più o meno così: non dobbiamo aspettare che ci vengano negate le nostre libertà per dedicare del tempo a noi stessi e a chi amiamo, anche di nascosto, perché  se è vero che talvolta il tempo aiuta a curare ogni ferita e allontana, altre volte riconcilia.

Non possiamo rimandare, perché ci sarà sempre tempo a sufficienza per porre le basi per inventare e costruire, per essere chi, un tempo, avevamo scelto di diventare.

Non dobbiamo aspettare che accadano circostanze fortuite per ricordarci quanto ci amiamo, quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro, quanto ci sta a cuore chi lì dentro, in fondo, ha sempre albergato.

Non dobbiamo aspettare di essere distanti per raccontarci tutto quello che proviamo o che desidereremmo fare, come prenderci per mano e correre sul bagnasciuga sino a cadere con le ginocchia sulla sabbia e ridere di gusto, sino a lacrimare. 

Dobbiamo trovare il coraggio di perdonarci e perdonare, prima che il tempo consumi i nostri sensi di colpa. 

Dobbiamo avere il coraggio di viverla questa vita, non oggi che siamo distanti, ma domani, quando saremo vicini, urlandoci a squarciagola tutto quello che proviamo, stringendoci fino a toglierci il fiato, baciandoci come se non lo avessimo mai fatto prima. 

In fondo sono queste piccole forme d’amore che salvano la vita, la nostra e quella di chi ci è accanto.

Quando tutto questo sarà finito, manteniamolo intatto questo mondo virtuale, fatto di quelle carezze che ora più che mai desidereremmo scambiarci, di tutte quelle parole che non avremmo voluto pronunciare, di tutto quell’amore che non sapevamo forse nemmeno di provare.

Occorre ricordarcelo più spesso. Per sempre. Che ci serva da lezione.

giovedì 21 novembre 2019

Raggi di un tiepido sole autunnale




Oggi ho passeggiato fino alla spiaggia. Sentivo il bisogno di osservare il mare per farmi cullare dalle sue onde, lasciandomi sussurrare qualche frase rassicurante per scrollarmi di dosso il peso di tutte quelle responsabilità e promesse non mantenute, lasciando fare al vento tutto il resto.

Talvolta abbiamo la necessità di vivere momenti questi, come l'immergerci in un qualcosa più grande di noi, di cui non vi si conosce alcun confine, al solo scopo di immedesimarci in un'entità in fondo sconosciuta, rimanendo però alla giusta altezza così da poter essere in grado di risalire e di domare quel naturale timore di perdersi. Forse proprio come si misura la distanza tra la ragione e l'istinto, stando attenti a che l'una non sovrasti l'altra, a che l'altra non si allontani troppo per paura di non poter tornare più indietro.

Poi il mio sguardo è caduto sui raggi di un tiepido sole autunnale, che sembrava sfiorassero le onde del mare in maniera gentile, seppur in modo repentino e disordinato. Il mare brillava, ma lo stesso punto mai per più di qualche secondo.

Così ho lasciato perdere l'abbraccio delle onde così come le parole dolci che avrei voluto sentirmi dire. Ho pensato a quel movimento scomposto, veloce, disordinato, privo di logica e di una struttura ben definita. Ecco, vedi, vanno sempre a finire tutte lì le tue responsabilità, le tue promesse, tutti i tuoi piani, mi sono detta. Eppure, non riuscivo a distoglierne lo sguardo, come se quei raggi accarezzando il mare facessero lo stesso anche con me, lasciando che mi sentissi accolta, al caldo, al sicuro.

Ho sempre creduto che i grandi insegnamenti fossero racchiusi nelle piccole cose. Tuttavia, non ho sempre avuto la pazienza per soffermarmici, sebbene abbia sempre avuto una gran voglia di imparare.
Quindi oggi mi sono concessa del tempo, ho prestato attenzione ai dettagli, e ho scoperto una cosa che pensavo di aver oramai reso parte della mia quotidianità ma che in fondo non lo era ancora del tutto. Ho capito che le mie vite sono sempre iniziate tutte lì: in un groviglio da sciogliere. Tutte quante.

Così in quei raggi di sole ci ho visto tutte le responsabilità che pensavo sarei stata in grado di assumermi e che poi ad un certo punto ho sentito quasi come se non mi appartenessero più. Ho immaginato tutte quelle promesse fatte a me stessa che non ho saputo mantenere quando sono diventata un'altra, pur non cedendo nessuna delle mie parti. Ci ho visto tutti quei piani cuciti con cura, misurandone pregi e difetti così che gli uni non si allontanassero troppo dagli altri, così da averne il perfetto controllo. Poi ho smesso di misurare e ho lasciato fare alla vita, che si sa, non conosce distanze, figuriamoci se mi avesse concesso anche il controllo.

Nonostante tutto, le mie vite più belle sono sempre cominciate così, in un ambiente disordinato dove da mina vagante avrei dovuto mettere ogni cosa al suo posto, sebbene quel posto, talvolta, non sia sempre stato quello che chiunque immaginava fosse.

Forse la vita inizia proprio lì: dove ci si scrolla di dosso il peso di sensi di colpa e responsabilità che in fondo non sono della nostra taglia, dopo aver rotto piani e spezzato promesse.
Mi piace pensarlo per una semplice ragione: il mare brillava, ed in ogni punto mai per più di una manciata di secondi, e quei raggi di sole che accarezzavano le onde in maniera gentile, riuscivano a riscaldare tutto l'ambiente circostante, sebbene si muovessero in modo apparentemente caotico.
É così che immagino la vita: come un focolare che riscaldi ed illumini tutta la stanza, dove gettare rametti in punti sempre diversi al solo scopo di alimentarlo. Ogni ramo sarà un desiderio che se fumo o fiamma avrà compiuto il suo scopo: quello di tenerci in vita.









domenica 21 luglio 2019

Londra-Barcellona, solo andata

Seduta su un muretto a bere una lattina di birra fredda, con gli occhi fissi sull'insegna di un supermercato con la saracinesca abbassata a metà. Profumi poco distinguibili nell'aria, spazzati via di colpo da una leggera brezza estiva. Il cigolio delle sedie di plastica trascinate in strada e posizionate in circolo, come un'abitudine che sa di estate, di voglia di stare insieme, tra lo schiamazzo dei bambini ed il rumore di un pallone lasciato rimbalzare in strada.

Sarà questa la prima immagine che porterò con me quando penserò al viaggio di sola andata dalla terra d'Albione al capoluogo della Catalogna.
Con uno sguardo perso di chi non contempla il vuoto, ma che cerca di mettere insieme tutti i punti di un percorso lunghissimo, per ricordare come sia potuto accadere che sia stata concessa proprio a me l'opportunità di ricominciare una nuova vita altrove, dove le strade più strette, le distanze 'meno distanti' ed il mare visibile non soltanto in cartolina una settimana all'anno, siano in grado di farti sentire meno piccolo e se forse pur sempre un numero, questa volta perlomeno a due cifre.
Quell'altrove che diventava sempre più irraggiungibile, mentre vivere seguendo uno schema macchinoso una di quelle abitudini insane di cui poi ad un certo punto non riesci a farne a meno.

Così, proprio quando mi stavo perfezionando nel triplo salto nel vagone affollato di una metropolitana in partenza al punto da suggerirlo come nuova disciplina olimpica e candidarmici certa di conquistare almeno una medaglia d'argento, proprio quando le corse pesavano meno, così come gli scatoloni del terzo trasloco in pochi mesi, e proprio quando Brexiful veniva addirittura superato dal Pratiful in quanto a dinamiche da soap opera, è suonata la sveglia.
È sempre accaduto tutto così, nella mia vita. O almeno, dicono che le cose belle succedono quando non le stai più cercando, ma solo quando non lo fai più sul serio, non per finta.


La mia vita è sempre stata il trasloco peggiore che io abbia mai fatto in termini organizzativi: non riesco a gettare nemmeno un cesto in vimini.
Così per settimane ho immaginato in che modo sarebbe cambiata la mia vita, e forse anche io, da cosa partire, cosa lasciare alle spalle.
Poi ad un certo punto ho capito che il cambiamento repentino sarebbe stato pieno del nulla, che avrebbe puzzato di finzione, e che pianificarlo mi sarebbe stato impossibile.
Le incertezze sono belle proprio perché ne si può conoscere una parte giorno dopo giorno, scrivendole al contempo non per deviarne il suo corso, ma per renderle più autentiche e conformi alla vita che abbiamo scelto per noi.

Così, sarebbe stato inumano e privo di cuore gettare tutto per ricominciare.
Delle tante vite vissute finora ho deciso di non buttare nulla, se non i sensi di colpa.
Ho deciso di fissare una saracinesca abbassata a metà, come a prendere il mio tempo per riassettare tutto ed immaginare tutto quello che è possibile creare.
Di lasciarmi scompigliare i capelli da una leggera brezza estiva, ma decidere sempre io se lasciarmici trasportare o restare dall'altra parte.
Di non lasciare che siano gli eventi a cambiare me, ma di cambiare marcia quando necessario.
Di ascoltare il cuore quando lo sento battere forte.
E di custodire ed alimentare quel desiderio sempre presente di creare una nuova casa, con i gerani sul balcone, le tende colorate e un paio di fotografie appese al muro.
Una di quelle in cui ti ci senti al sicuro, perché é calda abbastanza e piena di sorrisi reali.
Anche qui partirò dai dettagli, su cui costruire o demolire.

La mia unica promessa è quella di assorbire tutto il bello che possa far diventare il mio cuore sempre più grande, mantenendo insieme ciò che è stato, che è e che sarà, riconoscendo a ciascuna la stessa importanza.
Perché di me e della mia vita non getto nulla. E nemmeno il cesto in vimini: può sempre servire.


domenica 24 febbraio 2019

Arriverà la primavera


Penso spesso alle persone come fossero treni, mentre a quei pezzi di vita che su di loro prendono forma come fossero stazioni.
Come quelle in un piccolo paese di provincia, in cui ti tocca sostare su di una panchina, spesso più del dovuto. 
Come quelle in cui attenderai invano, prima di capire che il transito è stato sospeso, a data da destinarsi.
O come quelle di grandi metropoli, in cui i treni sono sempre puntuali ma sarai tu ad essere spesso in ritardo, così da dover correre sino a sudare la fronte mentre sgomiti i passanti.

Non sempre riesci a salire, perché il treno potrebbe non fermarsi in tempo, o perché, talvolta, avrai scelto tu di non farlo.
A volte avrai un posto a sedere riservato accanto al finestrino.
Altre, sarai in piedi tra la folla che si lamenta della carenza dei servizi.
Altre, invece, potrai accomodarti per caso, senza aver pianificato nulla in anticipo, rimanendo sorpreso da come, quasi sempre, la mancanza di piani è garanzia di un servizio migliore di quello che avevi previsto.

Pagherai sempre un prezzo per salire su uno di quei vagoni, che ti sembrerà tanto più alto quanto ad esserlo saranno le tue aspettative, le tue possibilità, i tuoi sogni.
Pagherai un pezzo del tuo tempo, delle tue energie, una porzione della vita che avevi vissuto sino a quel momento, di te stesso.

E arriverà il freddo invernale, che poi cederà il passo al vento primaverile, poi all’afa estiva, sino alle foglie ingiallite dell’autunno, per poi arrivare di nuovo l’inverno.
Così, proprio come passano le stagioni, passeranno nuovi treni, in diverse stazioni.
Passeranno le persone, proprio come passerai anche tu.

Pensavo di essermici quasi abituata.
Ai treni che passano, una volta soltanto.
Alle attese, vane o più lunghe del previsto.
Alle corse per salire in tempo.
A restare in piedi tra la folla o seduta ad un posto riservato accanto al finestrino.
Alle porte che ti si chiudono in faccia.

A salire su di un treno qualsiasi fermandomi in ogni stazione, prima di decidere quale fosse quella giusta dove sostare, segnandola come meta finale del viaggio che avevo scelto di fare.
A capire che le mete prefissate non saranno sempre quelle definitive, e nemmeno sempre quelle giuste, così da importi di rimettere lo zaino in spalla e salire su un nuovo treno che avrà una diversa destinazione.
Pensavo di essermi abituata, a saltare di stazione in stazione, guardando a ciò che sarà e non a ciò che è stato, anche ai saluti, lunghi, intensi, frenetici e di rito.
Alle persone che passano, e a me, che passo insieme a loro.

Ho capito che a tutto questo non ci si abitua mai abbastanza e che sarà questo il prezzo più alto da pagare, seppure il più bello, perché in fondo ci rispecchia.

Il nostro sarà sempre un biglietto di sola andata per un viaggio in cui sarà quasi irrilevante la comodità e quanto gli altri avranno da offrire, perché conta quello che ti porti dentro.
È un itinerario che stabiliremo noi, stazione dopo stazione, senza fretta di arrivare, ma godendo di ogni tappa come se fossero pezzi di un puzzle che in principio sembreranno non avere alcun punto di incontro, per poi congiungersi perfettamente, soltanto alla fine.

Credo ci si possa abituare solo quando guardi tutto dal finestrino, senza mai fermarti o porti domande, quando guardi ad un treno come un mezzo ed ad una stazione come un fine.
Ed invece, anche quando avevo giurato di smettere, ho capito che non smetterò mai, lo trovo più autentico.

Così mi camufferò sempre da esploratrice inesperta, guardando ogni treno come fosse un posto da scoprire ed il cancello di ogni stazione come fosse la porta di casa, o semplicemente di un luogo sicuro dove temporaneamente sostare.
Sbaglierò ma imparerò e forse, alla fine, sarò anche in grado di insegnare qualcosa.
Sentirò il rumore dei passanti ed il cigolio dei binari.
La brezza di un vento sottile che attraverso un finestrino aperto a metà ti scompiglia i capelli.
Avrò sempre la sensazione di aver gettato un pezzo di vita, ogni volta, prima di comprendere di averne guadagnato il doppio, con un cuore che man mano diventerà sempre più grande perché ci porterai dentro ogni luogo in cui avrai sostato ed ogni schienale su cui ti sarai poggiata.

Il nostro privilegio sarà quello di iniziare un diario, diverso per ogni destinazione.
Perché in fondo la vita è come un quaderno dalle pagine bianche che inizia con l’incontro tra l’inchiostro e la carta. Forse non ci si sente mai pronti abbastanza, ma il lusso che possiamo concederci è quello di cominciare da zero, seguendo le righe che la nostra immaginazione avrà disegnato per noi, strappando quelle che non ci piacciono e ripartendo da capo: da una pagina bianca.

Il bianco sembra uno spazio da riempire, privo del necessario, come una stanza vuota senza mobili. Invece, alla fine, è il punto in cui convergono tutti i colori. È l’essenziale di cui abbiamo bisogno. È il punto di partenza che ci fa sentire nostalgici, ma pieni e vivi.

E alla fine arriverà di nuovo la primavera.
Avrà il colore dei tuoi occhi.
Il profumo della tua pelle.
La bellezza di un tramonto in riva al mare.
La semplicità di un arcobaleno.

giovedì 31 gennaio 2019

Gary, Cigarette


Era una di quelle domeniche pomeriggio da starsene in casa, quando fuori c’è una pioggia torrenziale che sembra non avere alcuna intenzione di smettere.

Avevo promesso ad una persona che saremmo andate a vedere una mostra fotografica, così, non sapendo non tener fede alle promesse, ho deciso di sfidare la pioggia e la pigrizia.
Lei è una di quelle persone che adora l’arte e che avrebbe osservato ogni fotografia per dei minuti, così da non perdere alcun dettaglio. Una di quelle che poi avrebbe selezionato il miglior scatto, basandosi sulla giusta angolazione e sulla luminosità perfetta.
Poco prima di arrivare alla mostra ho pensato a tutto questo e anche che, in effetti, non sono mai stata un’assidua frequentatrice di mostre fotografiche.

Dinanzi ad ogni scatto tutti sembravano assumere lo stesso atteggiamento contemplativo: spalle curve, testa in avanti, ginocchio destro leggermente piegato, braccia conserte ed uno sguardo assorto. Per molti il primo passo era leggere la descrizione, per poi posare immediatamente gli occhi su quello scatto, quasi come a voler testare se la nota combaciasse con quello che gli occhi erano in grado di osservare, quasi come a voler trovare una verità.

Così, una dopo l’altra, le ho osservate tutte. Fin quando ho posato lo sguardo su una in particolare. Ancor prima di leggere chi fosse l’autore dello scatto e chi il soggetto rappresentato, ho avvertito una leggera commozione che prima di allora non avevo mai provato. Non ne capisco di fotografia, per cui non avrei saputo dirne di più, ma è come se in un attimo fossi riuscita ad oltrepassare la cornice e ad entrarci dentro. Libertà, è stata questa la sensazione che ho percepito al primo sguardo, quella che provi quando prendi del tempo per te stesso e cominci a pensare alle cose belle della vita, quelle presenti, passate o che arriveranno. Quel senso di liberazione che sa di via di fuga, quello in cui di tanto in tanto, senti la necessità di rifugiarti, che ti ricongiunge ai bisogni celati, che ti spoglia di tutto per riconsegnarti in cambio la tua identità.

Gary, Cigarette. È così che è stata intitolata la fotografia, scattata da Kono Konowiecki.
L’autore incontra Gary, il soggetto raffigurato, nel deserto della California. Indossa dei pantaloni lunghi, è a dorso nudo e fuma una sigaretta. Konowiecki gli chiede di chiudere gli occhi e di pensare a ciò che più gli manca. Successivamente, Gary dirà di aver pensato al fratello lontano, che non vedeva da anni. Si vede, in effetti, che Gary pensa a qualcuno di importante. Perchè il suo volto è disteso, ma triste. Sembrava quasi che in quel momento stesse tirando un sospiro di sollievo, come se quello riuscisse a ricongiungere l’immagine nitida del suo presente con un’altra sfocata del suo passato, e al contempo immaginare un futuro in cui le due potessero coesistere.

Ho pensato che spesso è opportuno preparare gli occhi a quello che si sta per vedere un attimo dopo, così da non avere grosse sorprese. Ma per tante altre cose, invece, basta sentirle. Sono quelle cose, circostanze, persone, per cui vale la pena andare oltre la superficie, sfondarla se necessario. Perché, alla fine di tutto, si vive anche di questo, soprattutto di questo: di sensazioni. Sono quelle cose a cui pensi di non essere preparato abbastanza ed invece alla fine scopri di esserlo forse più di tutti gli altri, perché riesci a sentirle.

Ed in città come queste, in cui il sentire appare sempre più raro, ho provato a farlo anch’io, lì dinanzi a Gary. È stato naturale, come se qualcuno mi avesse preso per mano e mi avesse chiesto di pensare alla cosa che mi manca di più.

Non saprei da cosa iniziare. Ma sono sicura che anche io avrei lo stesso volto disteso ma triste di Gary. Tirerei un sospiro di sollievo, quello che poi farebbe da ponte tra il mio presente, in piedi in una sala gremita, al mio passato, immaginando di ricongiungere le due immagini, un giorno.

Ho pensato ad una strada di sanpietrini, ad un’enorme finestra che si affaccia sul mare, ad una mano da stringere, e ad una voce che quasi sibilando mi dice che andrà tutto bene.

Non resto colpita dalle cose che appaiono più belle di altre.
Mi piace vederle da dietro le quinte, lì dove prendono forma.
Così, quando si palesano, diventano ingombranti.
Quelle che colpiscono fino a trafiggere, come un pugno allo stomaco.
Quando scopri che dietro un personaggio, c’è anche una persona, non una semplice sagoma.
Quelle che, oltre la superficie, hanno una storia tutta da raccontare, solo per chi la saprà ascoltare.

Chi lo sa, Gary, se un giorno a qualcun altro verrà rivolta la stessa domanda e penserà a noi.