giovedì 31 gennaio 2019

Gary, Cigarette


Era una di quelle domeniche pomeriggio da starsene in casa, quando fuori c’è una pioggia torrenziale che sembra non avere alcuna intenzione di smettere.

Avevo promesso ad una persona che saremmo andate a vedere una mostra fotografica, così, non sapendo non tener fede alle promesse, ho deciso di sfidare la pioggia e la pigrizia.
Lei è una di quelle persone che adora l’arte e che avrebbe osservato ogni fotografia per dei minuti, così da non perdere alcun dettaglio. Una di quelle che poi avrebbe selezionato il miglior scatto, basandosi sulla giusta angolazione e sulla luminosità perfetta.
Poco prima di arrivare alla mostra ho pensato a tutto questo e anche che, in effetti, non sono mai stata un’assidua frequentatrice di mostre fotografiche.

Dinanzi ad ogni scatto tutti sembravano assumere lo stesso atteggiamento contemplativo: spalle curve, testa in avanti, ginocchio destro leggermente piegato, braccia conserte ed uno sguardo assorto. Per molti il primo passo era leggere la descrizione, per poi posare immediatamente gli occhi su quello scatto, quasi come a voler testare se la nota combaciasse con quello che gli occhi erano in grado di osservare, quasi come a voler trovare una verità.

Così, una dopo l’altra, le ho osservate tutte. Fin quando ho posato lo sguardo su una in particolare. Ancor prima di leggere chi fosse l’autore dello scatto e chi il soggetto rappresentato, ho avvertito una leggera commozione che prima di allora non avevo mai provato. Non ne capisco di fotografia, per cui non avrei saputo dirne di più, ma è come se in un attimo fossi riuscita ad oltrepassare la cornice e ad entrarci dentro. Libertà, è stata questa la sensazione che ho percepito al primo sguardo, quella che provi quando prendi del tempo per te stesso e cominci a pensare alle cose belle della vita, quelle presenti, passate o che arriveranno. Quel senso di liberazione che sa di via di fuga, quello in cui di tanto in tanto, senti la necessità di rifugiarti, che ti ricongiunge ai bisogni celati, che ti spoglia di tutto per riconsegnarti in cambio la tua identità.

Gary, Cigarette. È così che è stata intitolata la fotografia, scattata da Kono Konowiecki.
L’autore incontra Gary, il soggetto raffigurato, nel deserto della California. Indossa dei pantaloni lunghi, è a dorso nudo e fuma una sigaretta. Konowiecki gli chiede di chiudere gli occhi e di pensare a ciò che più gli manca. Successivamente, Gary dirà di aver pensato al fratello lontano, che non vedeva da anni. Si vede, in effetti, che Gary pensa a qualcuno di importante. Perchè il suo volto è disteso, ma triste. Sembrava quasi che in quel momento stesse tirando un sospiro di sollievo, come se quello riuscisse a ricongiungere l’immagine nitida del suo presente con un’altra sfocata del suo passato, e al contempo immaginare un futuro in cui le due potessero coesistere.

Ho pensato che spesso è opportuno preparare gli occhi a quello che si sta per vedere un attimo dopo, così da non avere grosse sorprese. Ma per tante altre cose, invece, basta sentirle. Sono quelle cose, circostanze, persone, per cui vale la pena andare oltre la superficie, sfondarla se necessario. Perché, alla fine di tutto, si vive anche di questo, soprattutto di questo: di sensazioni. Sono quelle cose a cui pensi di non essere preparato abbastanza ed invece alla fine scopri di esserlo forse più di tutti gli altri, perché riesci a sentirle.

Ed in città come queste, in cui il sentire appare sempre più raro, ho provato a farlo anch’io, lì dinanzi a Gary. È stato naturale, come se qualcuno mi avesse preso per mano e mi avesse chiesto di pensare alla cosa che mi manca di più.

Non saprei da cosa iniziare. Ma sono sicura che anche io avrei lo stesso volto disteso ma triste di Gary. Tirerei un sospiro di sollievo, quello che poi farebbe da ponte tra il mio presente, in piedi in una sala gremita, al mio passato, immaginando di ricongiungere le due immagini, un giorno.

Ho pensato ad una strada di sanpietrini, ad un’enorme finestra che si affaccia sul mare, ad una mano da stringere, e ad una voce che quasi sibilando mi dice che andrà tutto bene.

Non resto colpita dalle cose che appaiono più belle di altre.
Mi piace vederle da dietro le quinte, lì dove prendono forma.
Così, quando si palesano, diventano ingombranti.
Quelle che colpiscono fino a trafiggere, come un pugno allo stomaco.
Quando scopri che dietro un personaggio, c’è anche una persona, non una semplice sagoma.
Quelle che, oltre la superficie, hanno una storia tutta da raccontare, solo per chi la saprà ascoltare.

Chi lo sa, Gary, se un giorno a qualcun altro verrà rivolta la stessa domanda e penserà a noi.

domenica 6 gennaio 2019

Con il piede all'insù


L’altro giorno ero seduta in metropolitana accanto ad un uomo che sfogliava un libro sul linguaggio del corpo, “What your body says”.
Ho immaginato che si addicesse perfettamente ad un luogo come quello, dove il materiale umano da analizzare non è mai abbastanza e lascia spazio alla più fervida delle immaginazioni. Più che i loro corpi, mi piace fantasticare sulle loro storie: chi sono, dove sono diretti, cosa desiderano quando mettono la testa sul cuscino prima di addormentarsi?

Tuttavia, credo che quell’uomo sedutomi accanto non la pensasse come me. La sua attenzione era rivolta ad un’immagine di una donna con le braccia conserte e con la punta del piede rivolta all’insù. Sbirciando con la coda dell’occhio, ho letto nella descrizione che la punta del piede rivolta verso l’alto è un buon segno, significa che alla persona in questione piace ciò che sta ascoltando, si sente a suo agio.

Facile intuire quale fosse lo scopo di un uomo sulla quarantina quando ha acquistato un libro del genere, ma forse questa potrebbe essere un’altra storia: quella in cui la punta del piede rivolta verso l’altro diventa un’inconsueta pratica d’adescamento. O forse, è semplicemente quello ho voluto immaginare io, complice lo scarso sonno ed il rientro dalle vacanze natalizie che mettono sempre di cattivo umore.

Se a stilare la lista dei propositi del nuovo anno fossi tanto brava quanto a costruire castelli in cui farci abitare principi, principesse, fate e streghe cattive, probabilmente a quest’ora ne avrei già una e ne avrei almeno portato a compimento un paio. La verità è che però io e le liste abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale: è come se la vita ad un tratto si accorciasse, come se una porzione si presti a diventare necessariamente funzionale ad un’altra successiva. Non esistono parentesi, né punti, ma solo tante virgole. Come quando si legge un testo lunghissimo privo di punteggiatura e solo alla fine potrai tirare un respiro di sollievo, perché lo hai portato a termine.

Ho sempre preferito immaginare castelli che stilare liste: perché nei luoghi che la tua fantasia è in grado di disegnare sei libero ed il tempo non diventa un nemico da sfidare, perderesti in partenza. Diventa un compagno di viaggio, pronto a coccolarti quando la tua pazienza vacilla, ma anche a tirarti sberle quando ti dici stanco nel proseguire.

In quel castello fai entrare chi vuoi, forse chiunque, ma manterrai sempre la porta socchiusa perché non ti piace trattenere con forza chi non vorrà più farne parte. E alla fine andrai avanti lo stesso, senza mai rimpiazzare nessuno, perché ogni porzione di vita avrà avuto il suo senso, lì ed allora. Imparerai a rigenerare, te e ciò che ti circonda, perché quel castello non diventerà mai una prigione.

Immaginare castelli che non fossero costruiti con la sabbia ma che avessero pareti più spesse così da sembrare robusti come una qualunque lista è quello che ho fatto quest’anno: non sentirsi rinchiusi in un limbo con le gambe a mezz’aria, ma mantenere i piedi ben fermi sul selciato, così da potermi indicare una via da seguire. Non ha mai fatto parte di una lista di propositi, l’ho imparato strada facendo, non tralasciando alcuna via alternativa.

Se oggi qualcuno mi chiedesse di farmi un augurio, probabilmente sarebbe quello di concedermi qualche momento in più in cui rimanere a braccia conserte con la punta del piede rivolta all’insù. E questo non di certo per rimorchiare uomini in metropolitana che acquistano curiosi manuali per camuffare la scarsa abilità nel relazionarsi a qualcuno.

Mi auguro di provare piacere nell’ascoltare, di sentirmi a mio agio, in un castello aperto a chiunque, in cui farci restare solo chi conta.
In cui non esistono ritardi, ma semplici attese.
In cui spendere tempo in egual misura, per correre verso qualcosa, e per aspettare che qualcosa riesca a raggiungere te.
Quel castello in cui si nascondono sentieri che percorrerai silenziosamente e che d’un tratto ti imporranno di svoltare.
Quelli che dietro l’angolo nascondono piazze di piccole dimensioni, dove sentirai lo schiamazzo di bambini che giocano, il profumo del caffè, il rumore delle onde del mare.
E saprai già che dovrai sostare su di una panchina a caso, così da riuscire a farti entrare tutto dentro.
Non aspetterai che qualcuno, in quel castello, venga a salvarti, perché sarai in grado di farlo da sola. L’hai fatto tante volte ed ogni volta sapevi che non sarebbe stata l’ultima.

Per questo odi le liste, i resoconti ed i buoni propositi.
Preferisci tuffarti e cogliere l’inaspettato.
Quello che alla fine ti fa amare il tragitto che hai deciso di intraprendere e che ti sprona a sognare, sempre più in grande.

domenica 7 ottobre 2018

Tramonti che uniscono


Mi piace osservare i tramonti.
Mi fanno pensare alle distanze che si assottigliano.
A chi riesce a guardarsi solo a luci soffuse.
A due corpi che si sfiorano.
A due anime diverse che riescono a trovare la stessa strada per ricongiungersi.
All’azzurro che nasce con una tonalità tenue per poi diventare sempre più intensa.
Ai colori che si intersecano, sino a catturare quello che rapisce lo sguardo più di tutti gli altri.
È il preludio di una fine che ha in grembo un nuovo inizio.

Mi fa pensare agli incontri.
Come il giorno che lascia spazio alla notte.
All’avvicinarsi, timidamente.
A quel momento che precede l’unione.

Mi fa credere che sia possibile cristallizzare il tempo, creando una dimensione in cui non vi sia alcuna fretta di andare.
Quella in cui il silenzio è la risposta a qualsiasi tua domanda.
Una dimensione da cui potresti scappare, ma decidi di restare.

Mi fa pensare al tenersi per mano, prima di lasciarsi andare.
Al guardarsi negli occhi, un attimo prima di innamorarsi, o di dirsi addio.
All’abbracciarsi, forte.
Man mano che le tonalità dei colori del cielo divengono sempre più intense.
Quando il rosa incontra il blu, ed il rosso l’arancione.

Mi fanno pensare ad un anello di congiunzione.
Ad un ponte che collega le sponde opposte di un fiume.
A tutte quelle cose che non sono nate per essere bianche o nere, il giorno o la notte, pioggia o arcobaleno.
A tutte quelle cose che sono lì per darci del tempo.
Quello concesso, strappato, implorato, o anche imposto.
A tutte quelle cose che sono importanti perché ci insegnano ad aspettare.
Si interpongono tra due realtà diverse e preparano l’una a lasciare spazio all’altra.
Lasciano che si scrutino, man mano che la luce diventa sempre più fioca.
Che si sfiorino, sino a trovare la stessa strada per due.
Che si incontrino, prima di diventare una cosa sola.
Lasciano che ci sia un tempo in cui non vi sia fretta di andare, necessità di parlare, in cui si sceglie di restare.
Lasciano che le due si tengano per mano e che si guardino prima di abbandonarsi l’una nelle braccia dell’altra.

Lasciano che le distanze si assottiglino.
Così, come tutte le cose che sembrano meno importanti.
Così, come tutte le cose che invece contano più delle altre, perché uniscono.

domenica 29 luglio 2018

Come nelle migliori famiglie

Una pioggia sottile che non bagna l’asfalto si poggia sui vetri della finestra, come in una tipica giornata autunnale. Il ragù è sul fuoco ed il suo profumo é già nell’aria, in attesa del tipico pranzo domenicale. Quasi non me ricordavo più, eppure quel giorno da segnare in calendario è arrivato, anche quest’anno, puntuale come ogni anno.

Cinque anni fa ad accogliermi in terra d’Albione c’era un tiepido sole che ad intermittenza si nascondeva tra le nuvole.
A ricordarmi che nonostante fossimo nel bel mezzo della stagione estiva, quella non avrebbe assunto la parvenza di una località balneare.
Avevo uno zaino sulle spalle e due valigie che trascinavo a fatica, come se il mio percorso avesse già una destinazione, che invece non avevo nemmeno ancora disegnato.

Non sapevo se quella casa dai mattoncini rossi e dal tetto spiovente potesse diventare presto la mia casa. Ma ho impiegato poco a scoprire che nessuna di quelle in cui ho cercato di adattarmi lo sarebbe diventata, almeno non nel modo in cui ho imparato a concepirla, nutrendomi di dettagli da assemblare per costruire i primi mattoni, che avrei posto con cura uno sopra l’altro, concedendomi il lusso di rischiare, quando li gettavo via per ricominciare tutto da capo.

Così, quando ho scoperto che una casa, quella vera, sarebbe stata un posto da portare con me, per farvi ritorno ogni volta ne avessi sentito il bisogno, senza pareti, una cucina in comune e coinquilini con cui condividere la carta igienica, ho appurato che dovesse essere leggera, morbida, riempita solo dell’essenziale.

In questo, però, sono stata spesso una studentessa disattenta, poco scrupolosa, abbracciando ritmi caotici ed insensati che intanto mi conducevano ad un punto di non ritorno.
Ma tu, cara Londra, ti sei imposta come mia insegnante. 
Severa, esigente, pretestuosa.
Quasi mai benevola, ma alla lunga giusta nel tuo giudizio, prima che girassi l’angolo per trovarmi di fronte nuove sfide.
Mi hai presa per mano, sempre.
Quando ero per terra e di mani tese per tirarmi sù non ce ne erano.
Quando avrei potuto cercarne altre, ma ho scelto la tua.
Quando mi hai insegnato a camminare da sola, poco per volta.
Quando mi hai fatto comprendere che per farlo avrei dovuto inciampare più volte, senza per questo farmene una colpa.
Quando mi hai presa per mano e mi hai lasciato danzare.
Quando la musica era finita, ma tu mi dicevi che dovevo continuare.
Quando le tue mani mi hanno lasciato fluttuare nell’aria, come una piuma che poi si poggia sull’asfalto.
Quando mi hai insegnato che le prime volte mi avrebbe fatto tanto male, ma poi sarei guarita.
Quando mi hai fatto capire che, a poco poco, mi sarei abituata e l’impatto con l’asfalto per poi ricominciare sarebbe stato meno doloroso ogni volta.
Quando, tenendoci per mano, ci siamo odiate, ma amate, allo stesso tempo.
Come chiunque abbia imparato a scegliersi, come la prima volta, nonostante tutto.

Così, dopo il mio primo lustro, come fossimo giunti al termine di un lungo ciclo scolastico, ricordo quel timore reverenziale di chi, come me, era tra i banchi in un’aula gremita: ad ascoltare ed ad attendere il proprio turno.

Ed é in tutto questo tempo che ho imparato a lasciar perdere i giudizi approssimativi.
Ad ignorare chi prendeva parola solo per il gusto di interrompermi.
A guardare alla vita come un elastico, in attesa che tutto tornasse indietro, con pazienza.
Ad assumere il rischio di amare, ma anche la responsabilità nel non farlo.
Non ho ancora imparato ad offrire tutto il mio cuore soltanto ai più meritevoli, perché forse ho capito che non ce ne saranno mai abbastanza: alla fine conterà con quanto amore ti getti in questa vita e sarà allora che il tuo cuore, quanto più sarà pieno, tanto più ti farà sentire leggero.

Ho imparato a cucinare per un’intera famiglia, perché il senso della misura non fa per me.
A nascondere la carta igienica in segno di guerra, e a lasciarla in bagno in segno di resa.
Ad indossare i sandali anche con la pioggia, perché l’estate é uno stato d’animo, anche in Inghilterra.
Ad appurare che spesso le diversità ci accomunano, solo se si è disposti a cavalcarle con grazia, e che invece talvolta quelle che appaiono similitudini possono allontanarci, come una naturale conseguenza quando scegliamo da che parte stare.
E a non mettermi mai in cattedra quando voglio imparare, lasciandolo fare solo a chi ha una storia da raccontare.

Allora, allo scadere del mio quinto anno, non mi sento più quella ragazzina che per paura si camuffa tra la folla rosicchiandosi le unghie. 
Ho estinto ogni mio debito così come ogni mio credito, guardando a quanto perso, recuperato, costruito.

Abbiamo vinto, anche quest’anno, soprattutto quest’anno.
Lo abbiamo fatto insieme, quando tutto sembrava perso, soprattutto quando tutto sembrava perso.
Lo abbiamo fatto senza perderci in formalità, l’una tra le braccia dell’altra.
Ci siamo coccolate, così come respinte, per poi tornare a stringerci le mani.


Lo abbiamo fatto anche quest’anno, io e te, come nelle migliori famiglie.

martedì 5 giugno 2018

Adelante, cómete el mundo

Ho cercato di trovare le parole ogni giorno in questi mesi in cui non ho scritto. 
Poi, come spesso accade, sono state loro a trovare me, proprio quando ho smesso di cercarle. Così mi hanno quasi circondata, impedendomi di scappare, perché stavolta non ci sarebbe stata una via d’uscita, un piano B, un’alternativa che avrebbe solo procrastinato il tutto, mai cancellato.

Sono state loro a chiedermi di uscire, dopo tutti questi mesi, in cui dicevo sempre dell’altro per camuffare. Ed io, che ho imparato col tempo a prendermene cura come un genitore attento, ho capito, forse tardi, che era giusto lasciarle andare. Come quando un figlio chiede il permesso per poter prendere la propria strada, e tu, nonostante la ferita di vederlo andar via, non puoi non concedergli di distaccarsi: è un percorso naturale.

Così, chiudo anche questo pezzo di vita.
E con questo, tante altre parentesi.
Perché so farlo soltanto in questo modo: apro e chiudo ogni cosa, nello stesso preciso momento.

Quello che mi ha visto diventare più grande, più donna, più forte. Ma anche quello che mi fatto capire quanto ancora potessi essere debole, senza per questo vergognarmene. 

Quello che mi ha visto credere in un amore che non c’era. Per poi applaudire, forte, al trionfo di quello degli altri. Quello che mi ha visto prendere e poi lasciar perdere. Quello che mi ha visto lottare per degli ideali, per poi capire che ad ognuno spetta la verità che i propri occhi sono in grado di osservare. Quello che mi ha visto vincere, ma anche perdere, tante volte.

Quello che mi visto sorridere, ridere a crepapelle, piangere da inondare un edificio, star male nel silenzio di una stanza che non emetteva alcun’eco.
Quello in cui la serenità a volte è stata spazzata via dal rammarico di non avercela fatta. Quello in cui certi traguardi che dovevano essere la fine di un percorso ad ostacoli sono stati percepiti come mura ancora più alte, mentre altri come i doni più belli che la vita possa concederti.

Quel pezzo di vita in cui ho dato valore alla solitudine. Ma anche quello in cui quest’ultima ha assunto la parvenza di una spina, quando ho appurato che se nessuno si sarebbe preso cura di me, dovevo farlo da sola, mentre intanto offrivo le mie spalle ai primi che vi si appoggiavano, per poi inarcare le proprie e voltarsi senza mai incrociare più il mio sguardo. Nemmeno per un arrivederci.

Quel pezzo di vita che mi ha arricchito e consumato, allo stesso tempo.

Quello in cui non ho mai avuto veramente paura, così da sembrare una ragazzina arrogante, prepotente, sicura di sé, solo perché volevo dimostrare di non averne, solo perché non potevo più permettermelo, senza dare tante spiegazioni a chi, per indifferenza o disattenzione, non le avrebbe capite comunque. Una che non faceva alcuna fatica ad esprimere un’opinione, a mandare al diavolo, a mettere tutte le cose al proprio posto, lì dov’era giusto che fossero. Ad ascoltare, incoraggiare, ad infondere resilienza, ad essere paziente. Ma ho fatto anche tanta fatica: ad ascoltare quando avrei voluto essere ascoltata. Ad accondiscendere a bugie quando avrei voluto gettare in faccia la verità. Ad ordinare o riparare vasi oramai rotti, quando avrei voluto che qualcuno me li avesse tolti dalle mani. Ad essere resiliente, quando tutto mi avrebbe imposto invece il contrario.

Quel pezzo di vita in cui ho rimproverato a me stessa un eccesso di empatia, di sensibilità, di accondiscendenza. Quello in cui a volte ho concesso ad altri il lusso di rimproverarmelo, quasi fosse un peccato capitale. 

Ho trovato famiglie che ho perso. Ho rischiato di perdere famiglie consolidate di cui poi ho capito di non poterne fare a meno. Ho trovato qualcosa, cui non so ancora dare un nome, ma sa di umanità e ho capito che è bello. Ho trovato qualcosa che avrei voluto trattenere, prima di rivelarsi uno scrigno vuoto e troppo piccolo per poter contenere il mio cuore.

Non so se non ho mai avuto veramente paura o semplicemente volevo mostrare di non averne. Oggi, mentre preparavo il mio terzo caffè della giornata, ho capito che non potevo più mentire e ho ammesso a me stessa di averne tanta, e che il timore di non apparire fragile è umano quasi quanto la voglia di sfidare ogni paura, quasi quanto il bisogno di mostrarsi per quello che si è, per quello che ci si porta dentro, di tanto in tanto. 

Così ho paura.
Di saltare la staccionata.
Di percorrere nuovi sentieri mai calpestati finora.
Di inciampare, di nuovo, sempre negli stessi punti.

C’è solo una cosa di cui non ho avuto mai paura. 
Di apparire allo sguardo dei disattenti una ragazzina arrogante e prepotente. Perché ho capito che sono gli altri, invece, ad averne: quando non riescono a mostrare lo stesso coraggio, quando fa comodo per incapacità di comprendere quella sicurezza che ti sei dovuta cucire addosso quando hai capito che si è sempre soli quando ci si getta nel mondo, con premura o con tutta la veemenza che ti appartiene.

Non ho mai avuto paura.
Di offrire il mio cuore, anche rischiando di farmelo restituire in pezzi.
Di seguirlo, anche quando mi dice di attraversare sentieri ripidi e bui.
Di esserlo, il mio cuore.
In tutte le sue forme.
In ogni lacrima, così come in ogni suo sorriso.
In tutti i suoi punti di forza, ed in ogni sua debolezza.

É questo che le mie parole volevano dirmi ed io non potevo aspettare: che le devo cacciar fuori, sempre, perché io sono loro tanto quanto loro sono me.
Di non aver fretta di divorare il mondo, ma di cominciare ad addentarlo a piccoli morsi, dopo un lungo periodo di astinenza.
E di non fermarmi, mai.
Anche quando avrà un cattivo sapore, quando non riuscirai a deglutire, quando ne avresti preferito di gran lunga un altro.
Che tutto ci forma e ci consuma, al contempo.
Ma niente deve trasformarci in qualcosa che non siamo.

Cómete el mundo, sento sussurrare.
Ed io prometto soltanto una cosa: ci provo, perché non ho paura.

mercoledì 21 marzo 2018

Promettimelo, cara

Promettimelo, cara.
Che il riflesso delle onde del mare non svanirà mai nei tuoi occhi. Che non smetterai mai di ascoltarne l’eco. Che non smetterai mai di immaginarti a piedi nudi nella sabbia bagnata in una giornata di fine estate, mentre una sottile brezza ti scompiglia i capelli.

Promettimelo, cara.
Che osserverai il passaggio delle stagioni con la leggerezza di chi sa di non poter cristallizzare il tempo, consapevole però di quanto ogni singolo istante sia prezioso.
Per imparare ad amarsi di più.
Per imparare a non essere preda degli eventi, ma a sfidarli, come un cavaliere valoroso.
Per imparare a cogliere ciò che si crede di meritare.

Promettimi, cara, che il tuo sguardo sarà sempre orientato verso il sole.
Anche quando piove. 
Promettimi, cara, che non aspetterai l’arcobaleno, ma che andrai a cercarlo tu.

Promettimi, cara, che le tue mani saranno sempre tese come a voler catturare le stelle. Perché forse non ci riuscirai, ma impererai a protendere te stessa verso qualcosa che sa di infinito.

Promettimi, cara, che quando tutto sarà finito, ricomincerai da capo. A creare un nuovo cielo su cui dipingere ogni cosa, da nuove stelle ad un arcobaleno dalle tinte sempre più vivide, da un nuovo sole ad altre nuvole su cui imparare a soffiare più forte per spazzarle via.

Promettimi, cara, che non dimenticherai mai come remare.
Soprattutto col vento a sfavore.
Rema. Continua a farlo. Anche mentre le onde ti colpiranno in viso.
Perché devi andare dove il tuo cuore ha deciso che tu vada, sempre.
Promettimelo, cara.

E promettimi che riuscire a capire in che direzione tira il vento non sarà mai in cima alle tue priorità.
Non lo devi sfidare.
Nè lasciarti cullare.
Nè tanto meno far sì che ti scaraventi sull’asfalto.
Devi rimanere ferma.
Promettimelo, cara. Che tu non sarai mai una bandiera. 
Promettimi, cara, che avrai sempre a mente una scala di valori che ti permetterà di destreggiarti tra le folate di vento, perché saranno loro a decidere per te da che parte stare. E non rinnegarti mai, promettimelo.

Promettimi che esplorerai tutte le strade, cara. 
Quelle ripide.
Pianeggianti.
Collinose.
Inesplorate.
Per poi decidere di percorrere quella a te più familiare. Quella che conduce verso casa.
Tuttavia, cara, promettimi che la tua scelta non ricadrà mai sulla strada più facile. Le cose belle sono complicate, promettimi che lo terrai a mente, cara.

Promettimi che dispenserai sempre gentilezza, cara.
Anche quando risulti inopportuna.
Fallo a caso, almeno una volta al giorno, come una pillola presa dopo i pasti.
Fallo, per sentirti una persona migliore.
Promettimi di porlo in cima alle tue priorità, cara.

Promettimi, cara, di usare con gli altri lo stesso rispetto che nutri verso te stessa.
Promettimi di andare alla ricerca di momenti, persone, circostanze, che sappiano tutte di umanità.
Promettimi che però riuscirai a bastare a te stessa.
Con tutto l’amore che ti porti dentro.
Promettimelo, cara, perché ti aiuterà a sentirti più forte.

E promettimi che non userai mai nessuno come stampella cui aggrapparti.
Promettimi, cara, di non contemplare mai come possibile il bisogno d’accettazione. Perché é l’unico, tra i bisogni, a renderci deboli. Gli altri, solo vulnerabili, e la vulnerabilità è umana, cara. 

Piuttosto, promettimi di selezionare sempre i fiori più belli.
Quelli che ti catturano per il loro profumo intenso.
Quelli colorati al punto da colorare persino i tuoi occhi.

Promettimi anche un'altra cosa: che la verità sarà sempre il tuo unico rifugio.
Promettimi che saprai sempre riconoscerla.
Tra tutte le bugie in cui avrai imparato a credere, solo per attutirne il colpo.

Promettimi, cara, di preservare sempre la tua dignità.
Quella che si pone sul binario opposto dell'orgoglio, ma che s'interseca con l'amor proprio.
Quella che bilancia azioni e desideri.
Quella che misura pensieri e parole.
Quella che definisce chi sei.
Promettimelo, cara. Che tu saprai sempre chi sei.

Promettimi, cara, che non smetterai mai di innamorarti.
Delle tue debolezze che collimano con i punti di forza.
Del tempo da catturare alla svelta mentre fugge, solo per creare qualcosa di bello.
Dei colori dell’alba, quelli che lasciano immaginare un nuovo inizio.
Dei profumi della primavera.
Dei sapori, anche di quelli che il tuo palato non saprà riconoscere sin da subito.
Della vita, tutta quanta.

Promettimi che ad ogni tempo destinerai una promessa diversa.
Promettimi che non smetterai mai di prometterti qualcosa.

Cara, promettimelo.