lunedì 8 dicembre 2014

Vieni via con me

Ogni tanto mi capita, quelle tre, quattro volte l'anno, di pensare a quello che ero appena un anno fa. Questa volta ho dato la colpa alle luci natalizie, all'aria sempre più fredda, ai colori, il verde ed il rosso, che predominano nelle vetrine dei negozi su cui è quasi impossibile non farci cascare lo sguardo.
Forse perché è Dicembre e pensavo a quello dello scorso anno, quando ad un certo punto mi è arrivato un messaggio che ha cambiato la mia vita: "Il tuo libro è stato pubblicato ed è in vendita."

Non sono diventata una scrittrice, né ricca. Sono semplicemente diventata più consapevole, ho semplicemente posto una linea di demarcazione fra ciò che ero e ciò che volevo invece essere sin da quel momento. Ho semplicemente imparato a non avere paura, delle scelte, delle mie emozioni. 

E pensavo a quel febbraio, quando decisi di scrivere, tutto d'un fiato, tra le pareti della mia stanza. Perché mentre ero intenta a porre fine ad un importante capitolo della mia vita, intanto ne stavo scrivendo un altro, senza nemmeno accorgermene. Perché le cose belle, quelle che hanno come iniziale la A di amore, intrise di una disarmante passione, quelle che la tua mente sarebbe capace di riprodurre per ore disegnandovi persino i contorni, sono esattamente così.

Quel mattino di febbraio non mi sono svegliata con l'intenzione di scrivere un romanzo. Quel mattino volevo semplicemente scrivere. E non mi sono imposta di farmi salire nessuna ispirazione, è lei che mi cercata, mi ha trovata, ed alla fine mi ha presa. Mi ha detto: "Tu vieni con me, lascia tutto ciò che stai facendo, non ti dannare. Vieni con me e lascia che ti porti su strade mai calpestate per farti vivere la storia d'amore più bella mai creata, ignara persino alla tua più fervida delle immaginazioni."
Ci siamo scelte, a vicenda. E l'abbiamo fatto ancor prima di capire come sarebbe andata a finire, ancor prima di scriverne un inizio.
E non ho delineato alcuna trama. Come nella vita di tutti i giorni, è stata lei a prendere forma con il susseguirsi delle circostanze. Ed ogni tanto cambiava, ed io l'assecondavo. Non ho nemmeno scelto i miei personaggi. Sono stati loro ad imporsi, quasi con prepotenza, come se chiedessero che io li ascoltassi. Ed alla fine l'ho fatto, ed era come se vivessi insieme a loro quelle vicende, perché, in realtà, quelle persone erano vere. Le avevo incontrate, in una vita passata, nemmeno troppo lontana.



Sono di botto ricascata in quella mia innata mania: ordinare i pensieri attraverso la scrittura, dare loro il posto che meritavano perché noi siamo soprattutto i nostri pensieri. Non volevo lasciare che nascessero e morissero soli, volevo dar loro una vita degna di essere vissuta. Ed alla fine ce l'ho fatta e non ho avuto paura di lasciare che altri li condivissero. Ed è questa, forse, una delle manifestazioni più forti di me stessa mai sperimentate. Quelle da dare a noi stessi, anche quelle tre, quattro volte l'anno, come possibilità per crescere e scoprire quello che siamo, al di là dei consensi, al di là di ciò che altri possano o meno pensare.

E pensavo quanto, in fondo, questa piccola opera, sia semplicemente una metafora di quello che vorrei fosse la mia vita, quanto questo sia in fondo il messaggio latente di quelle duecento pagine scritte. 

Tu un mattino ti svegli, l'aria è così fredda che nemmeno un cappuccino bollente sarà in grado di riscaldarti. Non hai intenzione di ordinare pensieri, né di intraprendere imprese che rendano il tuo ego più forte. Hai solo voglia di fare qualcosa che renda le tue giornate più dolci, quelle priorità di cui non dovremmo mai dimenticarci: emozionarci. E non ti imponi di farlo, né con chi. Lui o lei ti prende, come pagine di un romanzo di cui non riesci ad interromperne la lettura, perché è a tratti indecifrabile, ma c'è una forza che ti spinge a voltare pagina, ogni volta, per capire cosa succederà dopo. Non lo cerchi, non te lo imponi, a volte pensi che nemmeno in fondo lo vuoi. Ma lui o lei lo fa per te e non ti lascia modalità di scelta. Ti cerca, ti trova e alla fine ti prende. Ti dice: "Vieni con me, adesso". E tu dimentichi tutto il resto, o semplicemente, decidi che è ora di fare ordine nelle tue priorità e poni te in cima alla lista. Vi scegliete, l'un l'altro, senza necessariamente pianificare il tragitto, ancor prima di cominciare a calpestarlo. Non sarai più costretto ad immaginare, ma scriverai quella vita, quella che esattamente vuoi. Non pianificherai il come, né il quando, né il perché inizierà. Come nella vita di tutti i giorni, prenderà forma man mano dentro di te sino ad esplodere fuori. E cambierà, tante volte, e tu l'asseconderai. E vivrai, così, come una rondine che migra verso posti caldi, non perché tema il gelido freddo invernale, ma lo soffre, come la più angusta delle privazioni.

E' così che tutto dovrebbe essere: semplice ed irriverente.

Forse dobbiamo solo aspettare che il coraggio ci prenda e ci dica di seguirlo. 
Forse dobbiamo solo imparare a non avere paura.
A dare ai nostri pensieri una vita degna di essere vissuta, forse.
Ad imparare a dire o anche ad urlare per farci sentire: "vieni via con me, per favore."

E' l'emozione più bella che un essere umano possa provare sulla sua pelle.

Io sto aspettando di riprovarla, ancora.

lunedì 10 novembre 2014

Amore sui binari.

La sveglia è suonata molto presto. Ho preparato velocemente un caffè, chiuso la porta di casa per percorrere il solito tragitto, accompagnata da un pizzico di ansia per ogni scalino che scendevo.


Sono arrivata alla stazione più tardi del previsto, ma sono stata abbastanza fortunata nel trovare un posto a sedere proprio accanto al finestrino. E proprio mentre ero intenta nell'osservare i cambiamenti del paesaggio attraverso i vetri, salgono sul vagone un uomo ed una donna, prendendo posto proprio accanto a me.

Lui la guardava come fosse un'oasi nel bel mezzo di un deserto. Non le staccava gli occhi di dosso, con quel suo sguardo denso di tenerezza e passione, come quello di chi avrebbe voluto tenerla stretta al suo petto. Lei sorrideva, toccandosi ogni tanto i capelli, sorseggiando il caffé che reggeva tra le mani, e lui intanto la seguiva in ogni suo gesto, come chi non avrebbe voluto gettarla tra le lenzuola spogliandola impetuosamente, ma era lei a spogliare lui di ogni sua debolezza.

Credevo si trattasse di una coppia di fidanzati, di quelli che hanno cominciato ad uscire da poco tempo, conoscendosi a mala pena, avendo ancora una voglia matta di scoprirsi in ogni singolo dettaglio. Gli occhi di quell'uomo raccontavano di una di quelle storie meravigliose, in cui c'è lei che gli fa il bucato, e lui che le prepara il caffé appena svegli.

I due sono scesi alla mia stessa fermata, dove ad attenderli c'era un altro uomo. Quest'ultimo ha dato alla donna un bacio sulla guancia e le ha preso la mano, trattenendola a sé per tutto il percorso. Mi è stato chiaro solo ad allora che non si trattava altro che amici, presumibilmente colleghi di lavoro, che hanno condiviso uno spazio in cui senza toccarsi si legavano a vicenda come gomitoli di lana. Ma ad un certo punto, al richiamo della fermata, sono dovuti scendere e quell'idillio che avevo seguito come la più accattivante delle soap opera è svanito.

Ed è allora che ho pensato a quanto spesso ci facciamo del male, volendo celare l'evidenza senza mai affrontarla. Alla nostra disattenzione, alla nostra mancanza nel cogliere i dettagli. Perché ognuno di noi, da qualche parte, avrà qualcuno che seguirà con quello stesso sguardo i nostri gesti, qualcuno che ci guarderà come fossimo la più amabile delle creature.
Ma sarà sempre troppo tardi, o troppo presto.
Sarà sempre per la solita ragione: perché a volte l'amore fa paura o, semplicemente, forse, non ce ne è abbastanza.

Ed allora ci si separa, lasciandoci cullare dal dubbio su come sarebbe andata a finire se non fossimo scesi alla nostra fermata. Perché a volte è più difficile ammettere che se non è stato, è perché in fondo non abbiamo voluto. Almeno, non abbastanza.



giovedì 16 ottobre 2014

Fin quando ci sarà qualcuno che scrive, non ci sentiremo mai soli.

Stasera la pioggia ancora una volta ha bagnato le strade ed io ho pensato che forse potevo usufruire di questo spazio che racconta di me, di parte della mia vita. Credo racconti di segreti che a volte faccio fatica a raccontare persino a me stessa. Credo sia la pioggia a sortire questo strano effetto.

Lavoro tanto, dormo poco, ho sempre meno tempo per me. Ho iniziato esperienze che sino ad un mese fa non credevo possibili. Scrivo in due lingue, ho scadenze, faccio un programma in radio. Rispondo ad e-mail di persone sconosciute che si riconoscono in ciò che scrivo. Incastro appuntamenti, vinco la mia insicurezza, rivolgo domande senza aver paura di eventuali risposte negative. Mi piace. Mi fa sentire viva, quasi un'oasi in mezzo al deserto.

C'è una parte di me che sa sempre ciò che vuole e lo trattiene a denti stretti. Quella che si libera come un soffione trascinato dalla forza del vento, che danzerebbe nell'aria anche quando la musica è terminata. 

Magari accadesse lo stesso per quell'altra parte, quella che teme le scelte, i cambiamenti, i cicli e a volte anche le persone.
Ce ne è una che lascia scegliere non perché confidi nelle scelte altrui, ma perché teme di farlo. E allora si accontenta di ciò che ottiene nonostante desidererebbe l'esatto opposto.
Ce ne è una che lascia andare perché forse è tardi per chiedere di restare, nonostante, forse, non l'abbia nemmeno mai chiesto.
Un'altra che attua cambiamenti progressivi, facendo un passo alla volta, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza. 
C'è una parte che vede persone andare via e nonostante ti piacerebbe seguirle, rimani dove sei.
C'è quella parte che ancora fa fatica ad abituarsi a certi ritmi spietatamente veloci e a rapporti fugaci, che teme di chiudere cicli, perché forse in fondo nemmeno lo vorrebbe così tanto.

Perché la verità é che se non sentiamo ciò che si ha dentro, finiremo per farci lo sgambetto da soli. 

Allora scrivo, per colmare le distanze. Per avere la sensazione di essere in equilibrio quando si sta per cadere.

Perché forse è vero quello che si dice in giro: "fin quando ci sarà qualcuno che scrive, non ci sentiremo mai soli."

Io lo faccio, per me stessa.

mercoledì 17 settembre 2014

Ritrovarsi tra le note di un violino.

L'altro giorno passeggiavo per le strade di Londra in una tiepida giornata di fine estate. Pochi minuti prima avevo avuto una delle conversioni più piacevoli da quando sono sbarcata nella capitale britannica. Una di quelle in cui non temi di pronunciare la parola ispirazione, né di ammettere che i 40 minuti in metropolitana ti hanno regalato minuziosi dettagli per cui sentirsi ispirati, da cui poter trarre cose belle da poter scrivere o semplici riflessioni quotidiane, senza mai sentirmi inadeguata agli occhi del mio interlocutore che mi scrutava quasi come per saperne sempre di più su questa mia bizzarra mania.

Poi, mentre passeggiavo, mi sono imbattuta in un artista di strada che suonava L'Hallelujah con il violino. Mi sono fermata ad osservarlo per pochi minuti. Era in piedi, all'ombra di un albero al centro di una piazzetta circolare. Nessuno, a parte me, era fermo ad ascoltare quella meravigliosa melodia. Le persone gli passavano di fianco con la solita frenesia londinese. Mentre quel giovane uomo era nella sua dimensione, gli altri stavano per iniziare la loro corsa quotidiana verso chi sa quale destinazione. 

Ed è lì che ho riflettuto su quanto talvolta lo stare fermi o il proseguire con i propri mezzi a disposizione ed i propri tempi, anche soli, possa beneficiare più dell'omologarsi a contesti in cui non ci sentiremo mai noi stessi, a corse fatte insieme, ma presumibilmente inappaganti. E' come se mi fossi posta da spettatrice in un angolo di strada, attratta non da quel via vai rumoroso, ma da una persona ferma offuscata da altre, dove il suono del suo violino era fioco perché acuito dal rumore che c'era in strada. Ed ho capito che siamo noi a decidere cosa vedere o ascoltare, nonostante ciò che possa sembrare, i rumori, i silenzi o l'incuranza, se i dettagli o la forma senza alcuna sostanza.

Per un attimo mi sono sentita come quel violinista: ferma a lasciare che quella musica mi entrasse dentro, la sola che avrei voluto ascoltare in quel momento. Ferma mentre tutti gli altri nella loro incuranza mi passavano di fianco correndo alla volta della loro chi sa quale destinazione, perdendo per la loro disattenzione l'occasione di imbattersi in qualcosa di dolce e di soave. Ferma di fronte quell'uomo ho capito che in pochi minuti mi ero ritrovata nella mia dimensione già due volte, che la mia destinazione non ha un indirizzo se non quello che porti il mio nome nella sua più autentica essenza, facendo un passo alla volta, ai miei tempi.

E allora ho capito che non importa dove tu sia e quali siano i tuoi piani: l'importante è circondarsi di cose belle. Quando non riusciremo a trovarle saranno loro a farlo e quando si nasconderanno sta a noi scegliere cosa osservare, su cosa focalizzare la nostra attenzione. 

Prima di andare via ho messo una moneta nel cappello capovolto del violinista. Lui mi ha semplicemente guardato, in segno di ringraziamento. 
C'è chi avrebbe potuto ascoltare i rumori delle automobili e vedere la folla frenetica in strada. 
Per me c'eravamo soltanto noi e la sua musica, fermi, perchè talvolta occorre fermarsi per poter proseguire meglio.

Gli altri non sapranno mai a cosa hanno scelto di rinunciare.

domenica 14 settembre 2014

Dietro l'angolo.

Impiego dieci minuti da casa mia al lavoro. Se cammino a passo svelto anche meno. 
Generalmente mi accendo una sigaretta che spengo sempre nella stessa stradina prima di svoltare l'angolo.
Sembra quasi una prassi consolidata: corro in strada, accendo una sigaretta, la fumo e la spengo esattamente lì. Se le avessi raccolte, una ad una, ciascuna racconterebbe di una giornata diversa. Quelle spente con la voglia di sentire il rumore del mare o il profumo del caffè bollente che ti sveglia di buon mattino, o quelle spente con il sorriso sulla labbra nonostante gli schizzi di pioggia che con un leggero tic toc bagnano le spalle. Quelle spente sperando di arrivare a casa presto ad abbracciare il tuo cuscino, oppure alzando gli occhi al cielo sentendomi una leonessa.

Da qualche giorno però la collezione di cicche di sigaretta in quell'angolo di strada sembra essersi arrestata.
L'altro giorno ho acceso una sigaretta esattamente come faccio sempre e solo quando ho preso le chiavi di casa mi sono resa conto di avercela ancora tra le dita e l'ho gettata via. E' successo quella sera, ed anche quella successiva, ed anche la seguente.

E' che ero stata trascinata così tanto da certi pensieri che avevo dimenticato le mie abitudini.Camminavo per inerzia e all'angolo non mi sono fermata, probabilmente non avrò nemmeno realizzato dove fossi e dove stessi andando.

Se raccogliessi tutte quelle cicche probabilmente non ci sarebbero quelle che raccontano invece di giornate in cui si è risucchiati in un vortice di pensieri senza fondo e di stati d'animo anomali. Quelle in cui fai esattamente il contrario di quello che pensi e dici esattamente il contrario di quello che invece faresti. Quelle in cui ti senti in un bilico creato soltanto da te perché forse l'altro nemmeno ci pensa. Quelle in cui cominci la tua battaglia giornaliera per sentirti diversa in luoghi dove invece basta essere uguale agli altri. Quelle in cui il silenzio ti consuma e dentro di te fa più rumore di un centinaio di stoviglie. Quelle in cui senti di dover cambiare qualcosa e aspetti il momento giusto per farlo ma non sai se sia già arrivato, forse mentre in quell'angolo nemmeno ci pensavi, sai da dove cominciare ma no se possa bastare. Quelle in cui vorresti un po' di pioggia che ti bagni la schiena per lasciare che tutto scivoli via.

Questa collezione la tengo per me, perché sono certa che nessuno la terrebbe con sé, sarebbe forse un inutile spreco di spazio.

E' che a volte dovremmo abbandonare certe abitudini per sentire il rumore dei pensieri che ci conducono esattamente dove vorremmo essere. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 11 settembre 2014

Gli inglesi mi hanno insegnato che ...

Circa una quarantina di occhi sgranati fissavano lo schermo che di lì a poco avrebbe indicato il numero del gate per il ritiro dei bagagli in aeroporto. 
Sembravano gli stessi che cominciano a fissare l'orologio con un'ora d'anticipo la sera dell'ultimo dell'anno, mentre tua madre è ancora intenta a servire le ultime portate. 
O investitori intenti a controllare l'andamento della borsa.
Erano assorti, quasi ipnotizzati. 
Io ero distante dalla folla, seduta per terra. Ho capito che il numero del gate era comparso sullo schermo esattamente un nano secondo dopo che fosse stato visualizzato. Sembrava una folla impazzita che in corsa doveva racimolare il pane in tempi di guerra. 

E' sempre divertente osservare come gli inglesi si approcciano al tempo, correndo. Come, in questo modo, sono in grado di vincere le attese. 

Ed è forse vero che se attendi troppo si rischia che il tempo ti consumi, perché non ti aspetta.
Ma se attendi troppo poco, non avrai mai il tempo dalla tua parte. 

E ho pensato quanto in fondo il controllo del tempo ed il bilanciamento delle attese sia parte dell'orologio biologico di molti.

Aspettiamo la fine dell'inverno per metterci a dieta.
Aspettiamo di finire gli studi per dedicarci alle nostre passioni, perché ci eravamo sempre detti che avrebbero richiesto troppo tempo.
Aspettiamo la persona giusta alla quale dire ti amo, come se esistesse un decalogo cui fare riferimento che ci permetta di individuare se una persona sia giusta o meno. 
Aspettiamo il silenzio per pronunciare parole. 
Ma aspettiamo anche semplici gesti per ridurci nel silenzio. Errando, sempre.

Aspettiamo bufere per metterci a bordo di una zattera aspettando che finisca.
Aspettiamo di cadere in mare rischiando di annegare, prima di capire che siamo in grado di nuotare e risalire a galla da soli.
Aspettiamo quel momento propizio per dare sfogo alla nostra fervida immaginazione, la nostra occasione per far capire quanto valiamo, prima di capire che la vita è fatta di momenti in cui bisognerà sempre agire seguendo l'istinto e che il nostro valore non accresce aspettando occasioni, siamo noi a doverle creare.
Aspettiamo di negare sguardi prima di capire che vorremmo ritraessero il nostro volto in ogni istante, ed aspettiamo di imbatterci negli stessi prima di capire che o andiamo via o ci tuffiamo dentro.

Aspettiamo la pioggia per gustare il tepore dei raggi di sole che riscaldano la nostra pelle, e l'afa del deserto per avvertire la mancanza del fresco venticello autunnale.

E aspettiamo di morire, per poi rinascere ancora.

A volte mi chiedo se sia più giusto aspettare come ci è stato insegnato, oppure correre a prendersi ciò che si vuole anche a costo di restare delusi. 

Non è forse questo il prezzo della vita?

C'è chi sceglie di morire nell'attesa di un tempo che consuma, e chi, invece, sceglie di vivere.

Forse questi inglesi qualcosa mi stanno insegnando.




lunedì 18 agosto 2014

Il faro della vita.

L'altro giorno ero a Canterbury, una tranquilla cittadina medievale, a circa un'ora e mezza dall'esasperata frenesia londinese. Entro in un pub ed ordino una birra. Di fronte al mio tavolo era seduta una famigliola.
Una donna robusta, dall'aspetto trasandato, che impugnava le posate in malo modo. Una coppia di gemelli, avranno avuto meno di cinque anni, biondi, con gli occhi dal colore azzurro cielo ed una carnagione bianca vellutata. Un uomo dall'aspetto distinto, che portava alla bocca le olive poste al centro del tavolo usando sempre uno stuzzicadenti diverso. Di fianco a lui un ragazzone dall'età difficile da definire, affetto dalla sindrome di Down, con evidenti difficoltà nel portare il cibo alla bocca, tanto che il padre se ne prendeva cura, pulendogli di tanto in tanto la bava alla bocca.

Sembrava una famiglia semplice, come tante. Quelle in cui la bellezza di un volto d'angelo si accosta ad un altro costretto su di una sedia a rotelle. Quella in cui ci sono bocche da sfamare, ma si aiuta prima chi ne ha più bisogno, senza voler dire amare di più, ma semplicemente in un modo diverso. Quelle in cui le differenze vengono a galla, ma si neutralizzano in un concetto più profondo, che è quello della famiglia, perfetta sempre, così come è stata creata.

E allora pensavo ad un film che ho visto tempo fa, Una storia vera, diretto da David Lynch, in cui il protagonista all'età di 73 anni decide di intraprendere un viaggio su un trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Ho pensato ad una sua citazione, quando dice: "Quando i miei figli erano piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un rametto ciascuno e dicevo loro di spezzarlo. Non era certo un'impresa difficile. Poi gli davo un mazzetto d'erba e dicevo di provare con quello. Ovviamente non ci riuscivano. Quel mazzetto - gli dicevo - quello è la famiglia."

Questa citazione incarna esattamente quello che credo da sempre. 

Famiglia non è solo un nome collettivo, che prevede quattro, cinque o dieci persone. Ce ne possono stare anche soltanto due. E' ciò che la regge, che è dietro di essa, inanimato ed impalpabile, a renderla tale. 
La famiglia è fatta di occhi in cui troviamo la nostra ragione d'esistere quando abbiamo paura. E' un amore che non ha bisogno di conferme perché esiste nel sangue che ci lega, non necessita di grandi azioni perché sarà più grande nei piccoli gesti, è qualcosa che spesso vive nel silenzio di bocche che restano chiuse, in cui il silenzio vorrà già dire tutto, perché sai già cosa direbbe. La famiglia si poggia su verità che nessun altro sarebbe mai in grado di dirti, su una forza indomabile che ti fa sentire protetto e meno solo ovunque ti possa trovare. E' una strada in cui non esistono sensi vietati, né limiti di velocità, sempre aperta, in cui ti immetti sentendoti sempre accolto, nonostante le differenze, le tue scelte sbagliate o giuste che siano, nonostante tutto. E potrai percorrerne tante altre, non ti sentirai mai lo stesso. 

Perché la famiglia è così: è come un faro la cui unica luce sarà riflessa su di te, guidandoti ovunque tu sia. 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/film/u/una-storia-vera-(1999)/citazione-68740?f=w:2280>
E' qualcosa di straordinario in cui vedi attraverso i loro occhi chi eri, chi sei, chi sarai.

E' qualcosa che non si spezza mai, l'unica in cui vale veramente la pena credere.