
Ma quella mattina in quel caffè parigino entrò un uomo. E così per molte mattine di seguito. Era un uomo elegante, con un paio d'occhialini e pizzetto da vero artista, un borsello contenente il romanzo Les Miserables ed una cartina di Parigi. Quell'uomo era seduto nell'angolo in fondo alla sala del caffè, il posto riservato ad i solitari, agli intellettuali, a coloro che non amano confondersi con la gente comune. Non parlava il francese e Sofie ne fu incuriosita, come avrebbe fatto quell'uomo a leggere il romanzo di Victor Hugo senza conoscere il francese? Avrebbe voluto tanto chiederglielo ma quell'uomo sembrava restio a farsi capire anche a gesti. Allora ordinava sempre il solito cappuccino indicandolo dal menù. Perchè a quell'uomo in doppio petto che girava per Parigi senza conoscere il francese, con un ridicolo copricapo ed un look d'altri tempi, non sarebbe importato cosa mai la gente avesse pensato di lui. La sua diversità, il suo non volersi omologare, il suo modo di restare in silenzio senza che questo potesse costituire un problema, poteva essere motivo di scherno per gli altri omologati della società parigina, ma era in realtà la sua forza e ben presto si tramutò anche in quella di Sofie. Oramai per tutti era lo straniero. Per Sofie forse stava diventando qualcosa di più, era forse una speranza mai del tutto spenta. Sofie lo guardava e nei suoi occhi avvertiva una luce particolare, una luce che solo chi è forte può emanare, nonostante fosse solo lì in quell'angolo a sorseggiare per ore il suo cappuccino. Una forza di valori, di amore, di integrità, di stringente necessità di solitudine e bisogno di nient'altro che di lui e del suo libro, che pervadevano l'intero corpo, un corpo che sebbene non emanasse alcun suono era invece come se parlasse. Il suo volto sembrava per tutti inespressivo ma per Sofie non lo era, soprattutto quando dopo qualche settimana cominciava ad accennarle un lieve sorriso e a risponderle "mercì". Ma dopo qualche tempo, una mattina quel tavolino nell'angolo in fondo alla sala rimase vuoto. Lo straniero era forse partito. Ma Sofie riuscì a comprendere che quell'uomo, forse reale o probabilmente immaginario, era venuto per trasmetterle un messaggio ben preciso, era giunto per donarle una speranza. Una speranza spenta ma rifiorita negli occhi lucenti di quell'uomo che non era mai riuscito a dirle niente se non un mercì dall'improponibile accento. Eppure Sofie avvertì di essersi quasi innamorata di quell'uomo, senza mai parlarci, senza mai toccarlo, senza che mai l'idea di portarlo a letto l'avesse sfiorata, proprio come solo i bambini sanno fare. Aveva ripreso quell'innata dolcezza e puerile tenerezza. Sembrava quasi che però nonostante tutto non le fosse rimasto niente, in fondo quell'uomo sarebbe stato soltanto nei suoi ricordi. Eppure aveva recuperato tutto, aveva di nuovo lei, fresca e profumata, quella puzza di quelle lenzuola fredde oramai non riusciva più a sentirla. Era come se le sue orecchie nonostante il tintinnio delle posate da asciugare ed i rumori della cucina non riuscissero ad ascoltare altro che le note della vie en rose, melodiose e quasi a tempo con gli schizzi di pioggia che battevano sull'umido asfalto. Talvolta le persone che senza far rumore entrano nella nostra vita all'improvviso e allo stesso modo vanno via servono a questo, servono a guarirci. Tutti in fondo devono guarire da qualcosa ed anche Sofie era guarita. Era guarita dall'imposizione che a se stessa faceva di omologarsi, che a tratti la rendeva estrema. Era guarita dal pensiero di non poter più amare nè sfiorare un uomo teneramente, senza doversi strappare necessariamente i vestiti. Era guarita dalla disillusione del mondo degli adulti. Era tornata ad esser bambina.
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