venerdì 21 marzo 2014

L'uomo che spazzava via le briciole.

L'altro giorno percorrevo la strada che faccio di solito, sempre con immancabile fretta, quando mi è capitato di rivolgere lo sguardo ad una coppia di anziani seduti dietro ad un bancone di un fast food.
L'uomo scrollava con delicatezza le briciole cadute sulle gambe della donna, reggendo nell'altra mano dei tovaglioli, pulendole il viso mentre mangiava.
E allora ho pensato alle due categorie di uomini esistenti su questa Terra: quelli che lanciano a te patate bollenti, da tenere nelle mani mentre pian piano la tua pelle si brucia, costringendoti, prima o poi, a farle cadere come l'ennesima palla di cristallo che si frantuma sul pavimento, e quelli che invece con premura e sottile tenerezza, si addossano il compito di spazzare via le briciole, di persone vuote, di carezze mancate, di un passato di solitudine, lasciando che tu stia lì semplicemente a guardare.

L'altro giorno lui è arrivato con un pacco pesante, chiedendomi di aprirlo. Dentro c'era una macchina del caffè. Ho sempre ricevuto scarpe, borse o qualsiasi altro accessorio che, si sa, fanno sempre felice una donna. Ma lui, con l'ingenuità di un bambino mi ha detto che poichè mi lamento della ciofeca che in Inghilterra propinano come caffè, avrei potuto adesso preparare in pochi minuti un espresso, come facevo di solito a casa mia.
Ogni tanto, quando sto male, mi prepara dei piatti genuini, caldi, di quelli che mi avrebbe preparato mia madre.
I primi tempi, chiesi timidamente di fare una doccia, perchè dovevo lavorare e andavo di fretta. Mi ha preso un accappatoio dicendomi di non averlo mai usato, e che potevo lasciarlo in bagno perchè sarebbe stato mio da quel momento. E lì ho pensato ad un'altra sottocategoria di uomini: quelli che aprono gli armadi, facendoti entrare negli abiti della loro vita, e chi, non appena osi lasciare il tuo spazzolino nel bagno, lascia sull'uscio della porta le tue valigie, perchè è l'uomo del ognuno-i-suoi-spazi, dell' andiamo-con-calma, del ho-ancora-lo-scheletro-della-mia-ex-sotto-il-letto, del non-ho-tempo, del non-ho-voglia-di-cose-serie-adesso-ma-solo-pensare-alla-mia-vita.

Litighiamo spesso perchè non siamo perfetti. Ma il punto è che l'amore non chiede di esserlo. Spazza briciole, per costruire edifici in cemento armato, con tante porte e finestre di ogni misura, da cui entrare quando fuori piove, ed uscire solo se si vuole, solo se fuori c'è una bella giornata di sole, insieme, o anche da soli. Non conosce nessuna dimensione spaziale o temporale, non ascolta il tempo, non guarda al passato e la generosità è una sua appendice.

Ho ricevuto così tante patate bollenti tra le mani, che mi ero illusa di poter diventare un'esperta nel mantenerle, nonostante la pelle bruciasse. Ma oggi capisco che non vi è cosa più umiliante di scottarsi per qualcosa di bollente solo per l'involucro, ma all'interno freddo, vuoto. E ho capito che questo è un sentimento solo per donne fiere, e per uomini che sanno osare, per quelli che non giocano con la vita, ma rendono la vita il gioco più emozionante che ci sia.

Quando sono triste mi dice sempre: "Everything is gonna be fine, Antonia". Ed io lo credo.

lunedì 17 marzo 2014

Stagioni inverse.

Tra qualche giorno inizierà la primavera, esattamente il giorno del mio compleanno. Ho sempre pensato a questa stagione come ad un dolce risveglio, allo sbocciare dei primi germogli, alla migrazione delle rondini, ai primi caldi, quelli tiepidi che non bruciano, ma che riscaldano timidamente, quasi come se ti accarezzassero la pelle senza voler fare troppo rumore. Ed io in fondo mi sono sentita sempre così, come una parte di questo ciclo: quella sezione che si chiama "profumi nuovi", "freschezza", "inizi". Anche se al momento, sarà il clima londinese, ma io mi sento ancora in inverno. Con quell' inaccettabile freddo che colpendoti alle spalle, ti conteggia più mancanze di quanti siano i tuoi attuali desideri.
E sarebbe troppo ovvio dire che mi manca casa, famiglia ed amici. In realtà, oltre a tutto questo, mi mancano cose più piccole.
Mi manca la mia tappa quotidiana alla libreria per comprare qualche nuovo best seller di cui ho sentito in radio, in tv, o da qualsiasi altra parte.
Mi mancano quelle giornate che sembravano così lunghe, tanto che le colmavo scrivendo, una, due, anche più volte al giorno.
Mi manca mia madre che di buon mattino, mentre ancora dormivo, entrava con l'aspirapolvere in camera per pochi minuti, quanto bastava per svegliarmi, per poi andarsene via, chiudendo dietro di sé la porta.
Mi manca mio padre che ogni sabato, talvolta anche la domenica, comprava il pesce che tentava di pulire, pur rifilando dopo un po' a mia madre questo compito.
Mi manca mia nonna che prima di pranzo vuole che si faccia la preghiera, per poi benedire tutte le famiglie del mondo, come se davvero creda che la sua voce possa arrivare al Signore.
Mi mancano le serate in cui non uscivo e me ne stavo in casa a guardare un film sul divano con mio padre, mentre mia madre guardava qualche altro programma televisivo in cucina.
Mi manca litigare con le mie sorelle, anche solo per noia, anche solo per lo scambio di scarpe e vestiti.
Talvolta penso che cosa mi stia perdendo di tutti loro, nel corso di questi mesi, e cosa, anche solo per bilanciare, io stia costruendo, quanto stia crescendo. E a volte credo che non valga mai la pena perdere tutta questa ingenua, semplice ma eterna banalità. Non vale la pena, ma se primavera equivale a risveglio, quest'ultimo incamera in sè la parola crescita. E allora lo si deve fare, è parte di un ciclo naturale che corre al contrario: inizia con il gelido freddo invernale, si assesta con la caduta delle foglie in autunno, che danno spazio ai primi fiori e a quei caldi preludio della migrazione delle rondini. Poi il Sole, da che era cornice, diventa parte del dipinto. E' come lo immagino. O almeno è quello che voglio credere.

domenica 9 febbraio 2014

Una soffitta per biciclette.

Ieri, di ritorno da Amsterdam, ho avvertito la sensazione del tornare a casa dopo una vacanza, dove tutto é pateticamente sempre lo stesso, dove hai un affitto da pagare e spese varie che riducono drasticamente il tuo salario, dove esiste quella famigerata routine che ti costringe ad alzarti dal letto con gli occhi ancora gonfi per iniziare la tua corsa quotidiana contro il tempo, quella che ti fa rimbalzare come una pallina da ping pong tra scuola-lavoro-casa.
Ma la cosa che più mi ha fatto riflettere é stato il pensare, ormai, a Londra come casa. É stato pensarla come una di quelle case antiche, con pareti altissime, con un gran camino che riscalda un salone in cui ci si entra solo nelle grandi occasioni, e lí fa caldo, ma il resto della casa rimane sempre molto fredda, alcune stanze sono addirittura inutilizzate e la soffitta é solo per i ricordi, o per la solitudine. É per quella pace interiore che di tanto in tanto hai bisogno di sentire, lontano dai rumori degli elettrodomestici, dal vociare delle persone, pur mantenendoti in alto, in quella stanza dove nessuno vorrebbe entrare perché é presumibilmente sporca, fredda, piena di cianfrusaglie.
Ma a me le soffitte piacciono, perché c'é sempre una finestra nascosta da cui riesci a vedere tutto dall'alto, con maggior distacco, come se fossi, per un attimo, il padrone di un impero, standotene in silenzio in quel disordine che nasconde un ordine sublime: quello della mente.
Ad Amsterdam mi é sembrato di essere perennemente in una soffitta in cui la tua immaginazione prende forma, in cui una sola finestra non bastava per ammirare tutto, quasi come fosse straordinariamente a cielo aperto. É tutto più piccolo, le strade sono piccole, i marciapiedi sono ancora più piccoli, i coffee shops sono piccoli, i canali che l'attraversano sono piccoli ma tanti, ne puoi scorgere uno ad ogni angolo di strada, come quei sentieri nascosti della tua anima in cui l'acqua scorre timidamente, in una quiete quasi fittizia.
In casa non ho una soffitta, ma ogni tanto mi piace sentirmici, adoro costruirla dentro di me. E non perché io sia un'introversa fuori misura, ma compio un'azione importante: metto ordine.
Ho bisogno della calma di una soffitta per non sentire rumore, perché devo ascoltarmi.
Non tutte le mie domande trovano pronte risposte, ma anche quelle, le lascio scorrere lentamente insieme alle acque dei canali che avranno uno sbocco, o semplicemente cesseranno di esistere quando smetteremo di interrogarci, quando saremo stanchi di vivere di immaginazione, e allora torniamo a casa: quella dove c'é un lavoro che ti permette di pagare una scuola ed un affitto, dove hai costruito castelli di sabbia spazzati via dalle acque di canali che reclamavano verità, quella dove speri di mettere un mattone ogni giorno nonostante spesso la tua pazienza vacilli, quella in cui, in fondo, sei sola.

martedì 4 febbraio 2014

Prendiamoci del tempo.

" Il tempo é vostro nemico! "

É una delle frasi che uno dei docenti della London School of Journalism ha pronunciato nella sua prima lezione. In realtà non mi sono spaventata, anzi, avrei dovuto rispondergli che tra me ed il mio nemico costante non é mai scorso buon sangue. Avrei dovuto parlargli di quanto detesti gli orologi da braccio, ancor di più quelli appesi al muro, quelli che di solito piazzi in cucina, di cui non puoi non accorgerti, perché sono proprio sopra la porta, di quelli belli grandi, quadrati o circolari, che ti ricordano di quanto il tempo stia passando e quanto tu sia in ritardo. O avrei dovuto piuttosto ricordare a me stessa l'ansia inculcatami dai calendari, appesi rigorosamente al muro della cucina, quasi come se la cucina non fosse più un luogo di convivio e di un semplice riconciliarsi dopo una dura giornata, ma un posto in cui ansia e tensione danzano a braccetto, mentre stacchi i fogli di mesi oramai trascorsi, contando i giorni di quelli che ancora più frettolosamente passeranno. O di quanto detesti correre in metro insieme ad una folla impetuosa che non può perdere secondi preziosi. O di quanto detesti che un orologio sia uno dei simboli di una città come Londra, che ogni volta che scocca vorrei dirgli: "Sappiamo che sei lí, non c'é bisogno di far tanto rumore!"
O probabilmente a titolo esplicativo avrei potuto dirgli di quanto riesca a gestire male le scadenze, specialmente degli yogurts che compro in blocco dall'entusiasmo, ma che poi marciscono in frigo seppelliti da frutta e verdura, che in parte dopo un po' vedranno soltanto il fondo del secchio della spazzatura.

Ma forse il problema reale non é in sé il concetto del tempo, di quanto tempo ci resti, di quanto ne potremmo avere. Il punto é di come ad esso ci rapportiamo, sono gli obiettivi che ci poniamo, é il con chi scegliamo di condividerlo. Allora un domani può diventare un oggi, un ieri può essere un mai più, possiamo scegliere di trasformare un oggi in un per sempre. Possiamo scegliere di condividere il nostro tempo con qualcuno che sarà in grado di moltiplicarlo, o di dividerlo, sminuzzarlo, sino a farne poltiglia. Gli obiettivi di ieri possono servire per coltivare i sogni di oggi, che forse diventeranno i traguardi di domani. E niente di ieri é stato sbagliato se non ci sarà logica connessione con la strada che oggi si é scelto di intraprendere. Ieri non c'é più, domani forse non ci sarà, ma oggi ci siamo noi.
E forse questo non ha nulla a che fare con orologi, calendari e yogurts scaduti nel frigorifero.
Dobbiamo scegliere chi essere, considerando la vasta gamma dei colori che la vita ci offre, a qualsiasi condizione, contro ogni impedimento, e lo dobbiamo fare oggi, non ci é chiesto di farlo domani, ieri é oramai troppo lontano. C'é soltanto una cosa che dobbiamo evitare: ciò e chi vive di un passato che scombussola un presente che, per ovvie ragioni, ruba il nostro futuro prima ancora che abbia inizio.

Allora forse adesso sono pronta a riconciliarmi con il tempo, a non commettere ritardi, a fare pace con le scadenze.

I miei yogurts sono peró ancora in frigo in attesa di essere gettati.


giovedì 16 gennaio 2014

Ne vale la pena.

Ci sono giorni in cui mi capita di urlare "Next, please" almeno un centinaio di volte al giorno, duecento, trecento, oramai ne ho perso il conto.
Alla cassa arriva un cliente o anche più di uno che con fare, il più delle volte, non aggraziato ed un tono spesso da cavernicolo ordina da mangiare. Spesso é indeciso, talvolta ha già una lista, ed io sono lí ad aspettarlo, ad accontentarlo.
A volte mi chiedo se ne valga la pena, altre quando arriverà il mio turno, quando ci sarà qualcuno ad urlare "next, please" al mio posto, quando potrò dire la mia, urlando la mia lista di desideri.
Ma altre volte mi chiedo perché me lo chiedo. Perché in fondo ne vale sempre la pena. Ne vale la pena avere il coraggio di lasciare per seguire ciò che in fondo al tuo cuore credi che ti appartenga, ciò che in fondo ti é sempre appartenuto ma che non hai mai avuto il coraggio di urlare sino al momento in cui hai avvertito stanchezza nel seguire schemi preordinati ed inutili cliché da quattro soldi che un po' ti fanno sentire in trappola. Ne vale sempre la pena sacrificarsi per qualcosa che reputi più grande di te, ma non per questo così irraggiungibile se sei lí ad un passo dall'afferrarlo. Ne vale la pena perché l'essenza di vivere é avere coraggio di osare, di cambiare, é sentirsi ogni giorno vincitore di qualcosa. Non é necessariamente l'ottenere o meno qualcosa a far di noi il più grande dei vincitori o dei vinti. É il modo in cui tentiamo di afferrare il nostro bottino. Ed é l'adeguarsi ad un contesto a noi estraneo pur di rimanerci inghiottito sino al collo o dimenticarsi chi si é per compiacere qualcun altro la più grave ed irrimediabile sconfitta che un uomo possa riportare. Una sconfitta già scritta, oserei dire, quasi pianificata.
C'é chi pur non conoscendomi mi scrive, o per vie traverse chiede cosa sto facendo. E penso a quanto sia vuota la loro vita se si interessano alla vita di qualcuno che magari per strada a stento saluterebbero, mentre io sto vivendo la mia e basta.

Oggi c'é il sole, fuori ed anche dentro, perché nonostante la fatica sento che ne vale la pena, sento che il mio turno, qualunque ne sia la forma, sta arrivando. Perché arriva solo quando vivi la tua di vita, quella che senti mentre il vento ti scompiglia i capelli, dentro le ossa, sulla tua pelle, come una delicata brezza mattutina.
Oggi mi sento così: vincitrice di coraggio, ambizione, di granelli di speranza, di mattoni di vita.

martedì 7 gennaio 2014

L'altra parte di me.

Oggi é uno di quei giorni in cui fa freddo, fuori e anche dentro. Sono stata svegliata da schizzi di pioggia che battevano sui vetri come il rumore di tamburi. Mi piace alzarmi dal letto quando piove, immaginare che quegli schizzi di pioggia siano come pennelli che si intingono in colori ad olio per realizzare un dipinto. Ma stamattina non ho visto nulla di tutto questo: solo rumore e confusione, anche nel modo in cui gli schizzi di pioggia scorrevano sui vetri. Fa sempre molto freddo nel silenzio di una stanza che sembra vuota nonostante si stia in due, in cui quando si sceglie di rompere il silenzio lo si fa in modo sgraziato, o almeno non nella maniera più appropriata.
Ma ad un certo punto é uscito il sole, tiepido, timido, tra cupi nubi che lo accerchiavano, tentando di nasconderlo. Allora ho pensato che oggi é così, domani andrà meglio. Ma forse andrà meglio quando riuscirò a domare quella che chiamo "l'altra parte di me". Quella che si sente sotto pressione per futilità, quella che non gode il presente perché pensa al futuro, che per la sua incertezza le fa spesso paura. Quella che preferisce sbattere i piedi per terra, proferire parola per dire la propria, anziché fare un passo indietro e dare qualche carezza in più. Quella che aspetta l'inaspettato, quella che crede nell'incredibile, quella che ancora, alla sua età, piange quando non si sente capita.
Sono come due poli, il bianco e il nero: il bianco che con la sua luce prova a ritagliarsi uno spazio, come il sole tra nuvole di pioggia, e il nero che incombe e che come di consueto lo neutralizza, come quando ad un certo punto comincia a piovere nonostante guardando il cielo non l'avessi previsto.
Una parte che esercita pressione, l'altra che chiede di non pensare. Una parte che vorrebbe una palla di cristallo per sapere come andrà a finire, l'altra che chiede di guardare solo a questo momento, quest'ora, questa vita, qui ed adesso. Una parte che urla, l'atra che chiede solo attenzione, carezze, amore.

Allora forse non vale la pena aspettare a domani, quando domani può essere adesso.

giovedì 2 gennaio 2014

A me, a voi, buon 2014!

Ho cominciato questo nuovo anno mangiando grappoli d'uva, dicono che qui sia di buon auspicio. Ho alzato gli occhi verso un cielo cupo ma illuminato da fuochi d'artificio che rendevano il London Eye qualcosa di incantevole. Per la prima volta ho lavorato, tanto. Ho servito del pollo a clienti che sembravano così lontani dalle nostre consuete tradizioni, quasi come se fosse un giorno qualunque. Ho sempre festeggiato queste feste in famiglia e a dire il vero non mi è mai sembrato una gran cosa. Minimizzavo il riunirsi attorno ad una tavola con bicchieri, posate e tovaglioli rossi da cui ci si alzava con almeno tre chili in più. Detestavo il pomeriggio del giorno di Natale: mi trasmetteva un'insolita malinconia, simile a quella di un'ordinaria domenica pomeriggio. Detestavo la scontata domanda nei giorni che precedevano il 31 "Cosa fai a Capodanno?" ed io che con aria annoiata rispondevo "Non lo so", per poi organizzarmi all'ultimo minuto perché l'importante era stare insieme. Come insieme alla mia famiglia sono stata per 23 anni a scartare i regali sotto l'albero, aspettando ciascuno il proprio turno. Quest'anno la mia famiglia non c'é stata, né un albero di Natale sotto il quale scartare i regali, nemmeno la consueta tavola imbandita, né la fastidiosissima domanda pre-Capodanno. 
Ed è in queste circostanze che capisci che forse stai crescendo, e crescere significa anche questo: dare valore a ciò che prima sembrava scontato quando scontato forse non lo è mai stato. 
Ma crescere significa anche abituarsi a nuove cose, allargare i propri orizzonti, aprirsi a nuove culture, modi di pensare, tracciare nuovi sentieri che possano farti gioire comunque, nonostante tu conosca sempre dentro di te il reale significato di "casa", pur tentando di costruirne un'altra, o più di una.
Nel mese di dicembre nel posto dove lavoro sono state arrestate tre persone senza regolare permesso di soggiorno, due del Pakistan ed un ragazzo dello Sri Lanka. Quest'ultimo si trova ancora in prigione, con una vita spezzata, i cui pezzi sono appesi ad un filo sottilissimo, in attesa di conoscere il suo futuro, se restare, o più presumibilmente tornare nel suo Paese, dove non esistono leggi né forse morale, dove se sei macchiato lo sarai per la vita, come un portatore di peste, relegato agli ultimi posti di una società già retrograda di per sé.  Ma nonostante tutto, la sua fidanzata va a trovarlo ogni lunedì, con la disperazione negli occhi, ma con un'invidiabile costanza, che fa crescere la sua speranza ogni giorno nonostante l'esito di questa triste storia sia quasi certo, in uno Stato, come questo, in cui leggi di ferro sotterrano ogni traccia di sentimentalismo. Ma lui, in uno dei loro incontri, le ha chiesto: "Se devo andare via, tu vieni con me?" E lei, senza alcuna esitazione, con la voce rotta dal pianto, ma con un amore che avrebbe sciolto anche la legge più ferrea, gli ha detto: "Ovvio, vengo con te!"


Non ho propositi per questo nuovo anno, per voi, né per me stessa, ho sempre odiato le solite liste della spesa che divengono dopo poco carta straccia. 

Ma se dovessi dare nomi a questo nuovo anno vorrei si chiamasse: crescita, costanza, amore.
Vorrei si chiamasse "trasformare-disperazione-in-speranza", "amare-senza-timore-perché-si-é-piú-forti-del-ferro", "pazientare-in-attesa-di-successi-piú-propizi", "porre-un-mattone-su-di-una-superficie-fangosa-per-costruire-una-casa-dalle-pareti-indistruttibili".
Vorrei che quest'anno si coniugasse con il verbo "restare".

Perché é vero che gli anni passano, ma noi possiamo scegliere di restare, sempre, ovunque e con chiunque ci capiti di trovarci.

A voi, a me, buon 2014!