martedì 15 gennaio 2013

Dall' Oriente con amore.


E' opportuno procedere con una premessa.

1. Ogni riferimento a persone, cose e circostanze non è puramente casuale.
2. Chi si sentirà menzionato dovrebbe, per coscienza, controllare se è in possesso del permesso di soggiorno.
3. Esistono più clandestini di quanto possiate immaginare.
4. Redimersi non è mai troppo tardi, bruciare il Corano in Italia non costituisce reato.
5. In caso contrario si incorre nel rischio di espulsione e ritorno ai Paesi natii dei continenti dell'Asia e dell'Africa.
6. Non ditemi che non vi avevo avvisato.
7. Ciò che sto per scrivere non è sottotitolato alla pagina 777 del televideo, per l'assurdità dei contenuti che sembreranno fantascientifici ma mai così reali.
8. Tratto da storie vere.

La religione musulmana dilaga prepotentemente nel nostro Paese, inculcandosi soprattutto in quelle mentalità che sanno del provincialismo più reietto. Il Corano non sarà il testo più letto, ma di certo quello più osservato specialmente da alcune coppie che chiamarle tali rappresenta una mortificazione perchè una coppia è un uomo e una donna, in alcuni casi saremo invece dinanzi ad un giullare del circo e la sua scimmia ammaestrata, quelle coppie che ci inducono costantemente ad un solo interrogativo: "Sono stato catapultato attraverso una macchina del tempo nel 1700 senza saperlo o sono stato sedato e portato privo di coscienza in un villaggio africano?" Mi spiace, ma siete nel 2013. Siete proprio in Italia. Siete in Occidente, eppure esistono ancora quelle che definisco "coppie musulmane" operando un'estremizzazione in quanto lo saranno pur senza rispettare il periodo del Ramadan, donne che pur non indossando il burka vengono trattate come tali dai propri uomini, uomini che si impongono e donne che glielo lasciano fare annegando la loro personalità in una tazza di latte in cui il proprio uomo inzupperà le pagine del Corano.
Ho sempre ascoltato racconti o assistito con una sottile ironia pirandelliana a scene tragicomiche di questo tipo senza mai essere la diretta interessata, per fortuna. Perchè in fondo la scimmia ammaestrata non la so fare né ho mai voluto farla, i giullari li detesto, credo nell'integrazione ma molto più nella rivendicazione del ruolo della donna, nella parità che non significa sopraffazione, nella libertà che non significa aver scarso rispetto per l'altro ma averne così tanto al punto di fidarsi, al punto di non irrompere prepotentemente in una vita come un avviso di garanzia, amare senza la pretesa di possedere, vivere con dignità e lasciare che anche l'altro lo faccia, per sé, per l'altro, per la coppia.
Coppie di questo genere utilizzano di rado espressioni affermative, quasi sempre invece negazioni. I loro verbi preferiti sono il "potere" ed il "dovere", vivono in una simbiosi imbarazzante con un'incredibile forza annientatrice, che si annida nel cervello al punto da farlo scomparire, al punto che ci troveremo di fronte a non più due cervelli ma uno soltanto, se siamo fortunati, perchè spesso, andando avanti, anche quello sarà disintegrato e rimarranno solo le poche briciole rosicchiate dai criceti.
Ma in una "coppia musulmana" che si rispetti, cosa gli uomini POSSONO pretendere, e cosa le donne invece NON POSSONO fare?

1. Non si possono avere amiche single. Tutte le amiche single non saranno solo single, ma delle incredibili bagasce perchè se sono single significa che nessun uomo le avrà volute al loro fianco.

Magari la ragazza vorrà prendere un caffè in compagnia delle sue amiche. Non potrà farlo. Il Corano non lo annovera fra le possibilità. Se deciderà di contravvenire alle regole, sarà spiata a vista, dovrà sorbirsi un interrogatorio che durerà più del periodo del Ramadan, 350 telefonate e 413 messaggi per un caffè che ingerisci in meno di un minuto. Una pressione psicologica tale da indurre la ragazza a pensare: "No grazie, il caffè non lo voglio più. Mi rende nervosa!"
Ho sentito addirittura di persone che al mare non possono andare se non in compagnia del proprio ragazzo. Povero ragazzo, che figura ci fa se si sapesse in giro che la propria donna va al mare svestita, in costume, ma stiamo scherzando?
D'altronde in Oriente ...

2. Le donne devono indossare il burka. Niente minigonna occidentale, niente trucco eccessivo, il corpo di una donna potrà vederlo solo il proprio uomo.

Che state dicendo, che volete andare a ballare senza il vostro fidanzato che magari non avrà voglia o è fuori per lavoro? Secondo me rischiereste la ghigliottina, come la regina Maria Antonietta. Le cortigiane di basso borgo vanno a ballare, quelle si possono divertire in luoghi come le discoteche dove si va per rimorchiare, ma voi, dico, voi che ci andate a fare? Siete fidanzate con l'uomo di Neanderthal, lo dice stesso la parola << non-vi-potete-divertire-fate-andare-le-vostre-amiche-single-e-quindi-bagasce-sempre-che-ce-le-abbiate-ancora-ma-dubito>>. Imparate l'italiano, cavolo!

In palestra?Insieme. In vacanza?Insieme. Che state dicendo, che una vostra amica si è trasferita all'estero e vorreste andarla a trovare ma il vostro uomo in quel periodo non può? Non si va. Non chiedetelo nemmeno. Quando poi l'uomo-di-neanderthal si sarà liberato, organizzerà un viaggio, con la compagnia dei suoi amici papponi che vi sarete convinti di amare soltanto perchè l'omicidio in Italia costituisce reato, magari ad Amsterdam, e ve lo farà sapere con una settimana di anticipo. Ma voi, che siete donne devote esclamerete: "Amore vai, sei stato così leale nell'avermi avvisato con così tanto anticipo. Non ti preoccupare, io resto qui ad aspettarti, a casa, non metterò nemmeno il naso fuori al balcone, sono una ragazza seria, mica come le mie amiche SINGOL!"

Il cellulare? Va controllato almeno una volta al mese.
Non è previsto che tu abbia potuto avere, in una vita precedente, un ex o una ex. Se il caso vi farà incrociare dovrete far finta di niente, dovrete abbassare il capo senza salutare civilmente perchè se lo farete sarete destinati alla sedia elettrica, almeno così sarete destinati comunque soltanto ad un periodo successivo di forti tensioni e ripensamenti sul se e chi ha guardato prima chi, della durata pari al periodo del Ramadan, sempre.
Facebook? I più moderni ce l'hanno, ma "amore siamo una cosa sola, anche su facebook". Da qui è nato lo scempio di accounts comuni del tipo "Lello&Luisa", "Nico&Stefania", "Eufemia&Geronimo", alcuni ci mettono anche un cuoricino, non sia mai che gli altri capissero che non sono fidanzati ma semplicemente fratello e sorella?

Che stai dicendo, che la tua amica che vive altrove torna a casa per il weekend e vorrebbe trascorrere una serata in tua compagnia? Rischieresti la fucilazione. Il weekend è OFF-LIMITS, e purtroppo a quanto pare non soltanto quello.

Adesso vi chiederete, cosa succederebbe se si lasciassero? Ecco, il bello viene proprio adesso.
Perchè si passa dalla clausura al libertinaggio più sfrenato, che poco a che vedere con la libertà da me all'inizio citata, ma sa più di finzione, di carta pesta, di burka bruciati nel fuoco come se la vita precedente non fosse stata mai vissuta. E forse sì, perchè queste donne, ma anche questi uomini che dopo una rottura di ammalano costantemente della sindrome da collezionismo volendo emulare John Travolta in Grease pur assomigliando nelle goffe movenze molto più a Mr Bean, non vivono mai ma dipendono sempre da qualcuno o qualcosa, ragion per cui i semi della libertà genuina e profonda, quella silenziosa e non per forza sfrenata, non riusciranno mai a piantarli. Sono un po' come gli "orientali" che giungono in Occidente pensando di trovare donne nude per strada, coppie che scopano come conigli sui marciapiedi, uomini tatuati dalla testa ai piedi, perchè in fondo si tratta della patria della droga, del sesso e del rock and roll. Passano in fondo da un estremo all'altro senza mai smettere di essere ridicoli, goffi, tristi.

Onestamente questa religione non fa per me. Preferisco l'agnosticismo o a limite lo zen.

Ma una cosa ve lo vorrei chiedere, per curiosità: " Il permesso di soggiorno, quello almeno, ce l'avete? "

Ecco. Lo sapevo. Contrariamente alle mie ideologie devo dare ragione ai leghisti: in Italia sono tutti clandestini. Cominciamo allora a bucare anche i gommoni!

domenica 13 gennaio 2013

Le regole della casa del sidro.

Cosa fate quando siete particolarmente pensierosi?
Io spesso preferisco sedermi in poltrona, preparami una tazza di thea e guardare un film.
Molto spesso finisco tra una valanga di fazzoletti, e quando sono particolarmente bagnati, all'occorrenza, utilizzo anche i cuscini per asciugarmi le lacrime. Ma se sono fortunata riesco a trarre le risposte ai miei pensieri in una geniale ripetizione di suoni, in quella incessante concatenazione di immagini che raccontano storie, che trasmettono esempi, che divulgano messaggi, che hanno poco a che fare con l'inverosimile, molto più attinenti invece alla vita vera.
L'ultima volta mi sono seduta in poltrona e sono stata per due ore con gli occhi che ogni tanto divenivano umidi a vedere "Le regole della casa del sidro", un film del 1999. Racconta della storia di un giovane infermiere, Homer, cresciuto in un orfanotrofio sotto la tutela di un medico convinto abortista, il dottor Larch. Quel luogo per tutti coloro che ci vivono rappresenta un'isola incantata, una campana di vetro che tiene tutti lontano dal dolore, dalle amarezze, dai pericoli, tiene tutti distanti dal cinismo della vita, ove l'unico motto è rendersi utile, fare qualcosa per l'altro. Homer, nonostante sia un adulto, nutre la stessa freschezza, genuinità d'animo, lo stesso disincanto di un bambino. Ma un giorno arriva in orfanotrofio una coppia benestante, un uomo ed una donna che chiedono un aborto. Dopo l'operazione, una volta che la donna si è rimessa, Homer decide di unirsi a loro, di lasciare quell'ambiente ovattato che sino ad allora lo aveva visto crescere, per darsi finalmente alla vita, per vedere l'oceano che non aveva mai visto, per vedere un'aragosta di cui non conosceva nemmeno le sembianze. Si dedicherà alla raccolta delle mele, mansione ottenuta dal marito della donna che poco dopo parte per la guerra, credendo di lasciare sua moglie in ottime mani. Ma a quella vita Homer non era pronto, le regole dell'orfanotrofio erano troppo sane, troppo pure, troppo poco reali per combaciare con quella vita spesso cruda e violenta. Allora Homer le dovrà imparare, da solo, ogni giorno, per sentirsi uno di loro, per sentirsi uno che come il resto del mondo trascura la volontà di essere utile per qualcosa, l'esigenza di far qualcosa per l'altro. Scoprirà l'amore per quella donna che alla notizia del ritorno del marito, tornato paralizzato, abbandonerà Homer, affermando di averlo amato nonostante sappiano bene entrambi che non è stato così. Lui l'ha amata, lei aveva soltanto bisogno di qualcuno che le stesse accanto, per timore di restar sola. Ciò che accade in questa vita, violenta, cruda ed oltremodo vera, ma non sotto quella campana di vetro, non dove si respira gioia e freschezza nonostante il triste destino di quei bambini che forse non troveranno mai una casa, in quell'orfanotrofio dove non c'è bisogno, nè desiderio, nè esigenza, ma lo scambio di calore, di amore, il voler fare sempre qualcosa per l'altro è naturale, loro in fondo sono nati esattamente così, ed in questo stato ci sono restati, per un tragico scherzo del destino, o per fortuna, perchè sono riusciti a mantenere quella che è l'essenza di ogni essere umano, quella che si perde per colpa della meschinità delle vicissitudini, ma che dovremmo esser più attenti a preservare. C'è un bambino che teme di non essere mai adottato, ma Homer gli ripete sempre che è il migliore, ed i migliori devono attendere persone eccezionali, non si danno via così. In quel luogo tutti sono migliori. Tutti lo sono perchè sanno ridere, sanno gioire dei dettagli, di un libro che gli viene letto la sera prima di addormentarsi, della frase rituale prima di spegnere le luci "Buonanotte principi del Main, buonanotte re della nuova Inghilterra". Tutti lo sono anche perchè sono capaci di piangere, di esclamare a gran voce "Non andare via", ma anche di lasciare che un dignitoso silenzio si renda lo scenario di quell'ingestibile dolore provocato dal dover lasciare andare. Tutti lo sono anche perchè si dilaniano a causa di un allontanamento che provoca una mancanza simile ad una profonda voragine sino a morire, come il dottor Larch, morto per una mancanza troppo profonda da poter contenere a lungo. Morto per quel troppo amore che lo aveva spinto a far credere ad Homer di avere una malformazione al cuore, per tenerlo lontano dalla guerra, per tenerlo in fondo accanto a lui. Un amore così in quella vita reale cui Homer si era voluto affacciare per conoscere il mondo non c'era. Perchè l'amore dilania ed il timore di perdere qualcuno considerato come un nostro "prodotto", un "figlio", come Homer per il dottor Larch, ogni giorno ci ferisce e a poco a poco ci uccide. In quella vita reale c'è invece una cinica assuefazione alla violenza, alla crudezza, alla menzogna, c'è il sostenere di doversi abituare a mancanze perchè è così che la vita ci vuole: freddi, spenti, senza emozioni nè lacrime. In quella vita c'è un lasciare andare senza mai pensare di chiedere se si preferisce invece restare, c'è un gettare prepotentemente in  faccia scomode verità in virtù di quell'amore tanto osannato. Ma forse per il troppo amore si è anche in grado di mentire, semplicemente perchè quella potrebbe essere l'unica strada di non perdere qualcuno che poi perderemo forse lo stesso, ma quanto meno avremo avuto la possibilità di tenerlo in vita, al sicuro, al caldo. Quando si ama forse basta questo, e forse questa è tra le bugie la più bella delle verità, è forse la menzogna più sincera, il manifesto del più naturale dei sentimenti. In quella vita vera, in quella "casa del sidro" qualcuno alla fine l'ha capito. Un operaio che molestava la figlia credendo così paradossalmente di proteggerla, quella figlia che poi, dopo aver abortito grazie l'ausilio di Homer, dopo la redenzione paterna, decide di scappare nel cuore della notte. Il padre quella volta non voleva fermarla, aveva capito, solo dopo i suoi innumerevoli sbagli, proprio come accade nella "vita vera", che era giunto il tempo di lasciarla andare, ma prima avrebbe voluto soltanto toccarla, per l'ultima volta. Perchè in fondo quando qualcuno decide di andare il nostro timore è di non poter più palpare quell'epidermide, è quello che manca, altrimenti il dolore per una mancanza non avrebbe alcun senso se riuscissimo ad incamerare tutto lì, in quella soffice scatola dei ricordi. Ma lei non l'aveva capito e allora lo colpisce con un pugnale. Ma prima di spegnersi quell'uomo dirà ad Homer di dire alla polizia che si è ucciso perchè triste al pensiero di non poter rivedere più sua figlia, in modo da non crearle alcun problema. Homer avrà forse assorbito tanti insegnamenti affacciandosi a quel mondo, ma lì, ai piedi del letto, stava forse realizzando un miracolo: il ritorno all'essenza, alla protezione dell'altro, al desiderio di morire perchè senza l'amore più grande della vita non si riuscirebbe comunque a vivere. Ma la vita reale è meschina, e te lo fa capire soltanto dopo esser scivolati nel fango, perchè, come dirà quell'uomo in fin di vita "talvolta occorre violare le regole per rimediare". A quali regole si riferiva? A quelle che crediamo ci assicurino una degna sopravvivenza, ma che in effetti dalla vita ci allontanano: un possesso che confondiamo con l'amore, uno scrollarci di dosso scomode verità per sentirci meno colpevoli fatto spesso passare per sincerità, la più meschina e la più vigliacca che poco sa di verità; un abituarsi in fretta a mancanze provvedendo a celeri sostituzioni invece di lasciare che lacrime solchino il viso, che il silenzio nella sua dignità prenda il sopravvento, di arrenderci al pensiero che qualcuno sia andato via solo quando siamo certi di aver fatto tutto ciò che era in nostro potere per trattenerlo, e non per possesso, ma per amore, per quel bisogno naturale di avere accanto chi andandosene via potrebbe procurare un dolore insostenibile, perchè sì una mancanza dilania, ferisce, uccide se è troppo profonda. Ma possiamo rimediare violando queste regole congetturali ed ipocrite, sprigionando un'incredibile energia che sa di libero amore che vuol fermarti ma che al contempo ti lascia andare, sperando presto in un ritorno.
Ed infatti Homer alla fine ritorna. Ritorna in quell'orfanotrofio a fare il dottore pur essendo un infermiere, perchè nonostante non avesse i titoli richiesti di quella professione conosceva ogni cosa. Perchè un titolo non fa di te necessariamente chi desideravi diventare. Chi vuoi essere spesso lo decide il tuo cuore, ponendoti di fronte scelte che non potrai ignorare, quella scelta che illuminerà il tuo tragitto come un faro, rendendoti libero, vicino al cuore, dentro la vita. Ritorna dai sorrisi raggianti di quei bambini, in quell'ambiente così magico, puro e disincantato. Alcuni penseranno che alla fine torna perchè oramai dalla vita aveva appreso tutto ed era pronto ad insegnare ciò che aveva imparato anche a loro. Ma forse non è proprio così. Forse Homer ha avvertito semplicemente il bisogno di ritornare alle origini, di tornare alle sue radici che lo avevano reso forse non abbastanza cinico per superare all'inizio le vicissitudini di quella vita cruda e violenta, ma paradossalmente forte, una forza derivata da una profonda umanità, dall'essere così diverso eppure così simile a ciò che ogni uomo dovrebbe essere, dal suo essere migliore, come chi era cresciuto in quell'orfanotrofio, dove non c'erano regole perchè talvolta occorre violare le regole per rimediare, ma chi vive in questo modo non ha bisogno di rimediare a niente se non di trasmettere all'esterno questa straordinaria essenza capace di compiere miracoli. L'unica regola è sempre stata quella di fare qualcosa per l'altro, è questo che rende migliori, è questa l'unica regola di cui necessitiamo, e le regole servono a questo, non ad allontanarci dalla vita, dall'umanità, dalle nostre radici. Solo se ci sforziamo ad essere migliori saremo capaci di incontrare persone migliori, di rendere migliore l'ambiente in cui viviamo, o a compiere miracoli avvicinando altri al miglioramento, avvicinandoli in fondo alla vita. Spesso è proprio dalle radici che trarremo le nostre risposte, è proprio alle radici che occorre tornare per capire dove siamo, dove siamo diretti, chi vogliamo essere, sono spesso le stesse radici a renderci migliori.

Un film che consiglio di vedere, quanto prima, a tutti. Sono certa che anche a voi piacerebbe conoscere un posto come quell'orfanotrofio, che trasmette un ineguagliabile scambio di naturale amore, un posto ove il dovere di aiutare l'altro si mischia alle calce delle pareti perchè in assenza di quell'imprescindibile dovere la stessa vita non avrebbe senso. Un film che insegna, che cela una tremenda bellezza in un'ineguagliabile semplicità, che finisce esattamente come aspettavi e speravi, proprio come la piega che la stessa vita dovrebbe prendere, ma che nonostante tutto non può non commuoverti.

Un libro, un film, una canzone, tutto ciò che sa di comunicazione, serve anche a questo: a trarre le risposte che cerchiamo, se siamo fortunati, o forse semplicemente particolarmente attenti.

venerdì 11 gennaio 2013

Si chiude una porta, si apre un portone.

Di fronte a grandi o piccole sventure quotidiane recito spesso tra me e me il detto "Si chiude una porta, si aprirà un portone", quasi come se volessi darmi la carica, per non smettere di sperare di alzare gli occhi al cielo e di intravedere un giorno un arcobaleno che prepotentemente si ritaglia uno spazio tra le nuvole grigie come la cenere che hanno mandato giù schizzi di pioggia che hanno bagnato l'asfalto sino ad impedire la visibilità dei marciapiedi, delle strade, delle albe e dei tramonti.
Ho aperto e chiuso così tante porte al punto da diventarne un'esperta, al punto da credere che in fondo sapessi fare soltanto questo, aprire e chiudere senza mai varcare però l' uscio della porta, restando poco o per niente. Tante altre volte pensavo di averla aperta rendendomi conto soltanto in seguito che in realtà quella porta non era mai stata spalancata del tutto bensì socchiusa, ancora altre la spalancavo ma dietro di me c'era sempre qualcuno che non mi permetteva di varcare l'uscio e che con indicibile arroganza me la chiudeva in faccia, costringendomi a vagare alla ricerca di altre porte da aprire. Ogni volta che dietro di me una porta si chiudeva ho sempre creduto che fosse arrivato il momento di aprire il portone, tramutatosi regolarmente in una porta ancora più piccola di quella chiusa precedentemente, in un cancello che non poteva essere scavalcato, talvolta ho avuto addirittura l'impressione di essermi imbattuta in una cuccia per cani. Credo di aver aperto e chiuso innumerevoli cancelli, porte di media grandezza, porte piccole e strette, talvolta nell'attesa mi sono fatta andar bene anche delle strettissime cucce per cani, ma non credo che i portoni mi siano mancati, solo che sono durati sempre quanto basta per un breve assaggio, i bocconi più prelibati che abbia mai ingerito, per poi essere costretta a chiuderli alle mie spalle per dovere, per esigenza o per amor proprio, o essere costretta a vederli chiusi da qualcun'altro al mio posto che forse credeva che quel portone era troppo grande o addirittura ancora troppo piccolo per me, nonostante in fondo nessuno glielo avesse ordinato. Il problema è che in realtà è proprio con le persone che non riesco ad indovinare mai la chiave giusta per aprire la porta. Talvolta ho voluto aprire porte a chi sembrava entusiasta di entrare, a chi si è accomodato per consumare il pasto, ha chiesto il conto e poi come un turista passato lì per caso è andato via chiudendo la porta alle sue spalle, talvolta senza lasciare una mancia, senza salutare, senza lasciare alcun messaggio. In effetti mi sono convinta di non pretendere mai niente di tutto questo, ma mentirei se dicessi di non aver mai sperato che qualcuno diventasse un cliente abituale, che in fondo qualcuno non si limitasse a complimentarsi del buon cibo gustato ma che decidesse di restare. 
Le persone invece mi hanno deluso parecchie volte, hanno spesso mentito palesandosi nella loro cruda e meschina essenza che non credevo potessero avere, assumendo atteggiamenti di indifferenza e di distacco indicibile che non sono riuscita a comprendere. Ma credo di aver deluso e mentito anche io, non così tante volte, ma qualche volta forse l'ho fatto anch'io. Perchè la verità è che quasi sempre cerchiamo negli altri l'alibi per discolparci, cominciamo la frase con "le persone", ma non siamo forse persone anche noi, io che scrivo e voi che ritrovando un po' di voi stessi in ciò che sto scrivendo state avvalorando la mia posizione?
Riesco in fondo a spiegare solo in questo modo i comportamenti deludenti, il chiudere porte poco dopo averle aperte, il non trovare mai la chiave giusta, riesco a dare una spiegazione a tutto questo solo convincendomi del fatto che la vita sia un ciclo e così tutto ciò che ne fa parte. Allora mentre diremo che qualcuno ci delude saremo forse noi l'oggetto della delusione di qualcun'altro senza nemmeno accorgercene, mentre qualcuno sarà l'oggetto dei nostri desideri proibiti lo saremo al contempo anche noi per qualcun'altro, mentre ci vedremo sbattere porte in faccia senza aver avuto nemmeno il tempo necessario per varcarne l'uscio staremo intanto forse chiudendo in faccia la porta a qualcuno, nonostante l'assurda convinzione di essere sempre e soltanto noi le vittime e mai i carnefici. Non lo so, forse questa risoluzione risolleva il morale, o forse questo tentativo di comprendere sempre tutto è sbagliato, perchè in fondo se la vita ed in particolare le persone potessero essere in qualche modo "spiegate", ognuno ci darebbe la possibilità di farlo, di aprire la porta con la chiave giusta, o a limite ci offrirebbe un libretto illustrativo per evitare gli effetti collaterali, che ho il talento di non aver mai evitato.
Un portone ove ripararmi dalle intemperie, di quelli che ti consentono di restare, di quelli imponenti e decorati, così belli da restare incantati, non sono riuscita ancora a scovarlo, non so nemmeno se esiste in realtà, non so se il destino me lo abbia riservato.Ma in effetti non ho mai temuto l'azione dell'aprire e chiudere porte, che talvolta ho chiuso piano per non far rumore, altre volte le ho sbattute per provocare volutamente un gran clamore. Non temo di non trovare il portone tanto desiderato al punto da essere in grado di superarlo e di restarci, ma temo molto di più che il mio incessante vagare alla ricerca di qualcosa di cui non conosco nemmeno la certa esistenza si tramuti in noia, in stanchezza, in disillusione, al punto di esser così stufa di vagare, di aprire porte che sai di dover presto chiudere, da non volerlo più fare, al punto di pensare che forse questo vagare non troverà mai un'unica grande meta. E' questo che temo più del continuare ad aprirmi e a richiudermi, forse il prezzo del non accontentarsi di guardare il mondo restando seduta sull'altalena legata al lampadario della tua stanza. Talvolta è avvilente anche l'ostinato tentativo di dover comprendere a tutti i costi, come se si stessero cercando colpevoli che nemmeno esistono.

mercoledì 9 gennaio 2013

Sei un degno utente di facebook se ...

3...2...1... Ready!
Sei su facebook! Gli americani ci sono riusciti anche stavolta ad inserire nel tuo linguaggio l'ennesimo termine americano la cui traduzione in italiano significherebbe "faccialibro", ossia "Una cagata pazzesca" per dirla alla Fantozzi, un po' come l' hot dog che evitiamo di tradurre per non pensare di mangiare un "cane bollente", "chattare", "spam", "post-it", "hotel", per non parlare del "bed and breakfast" che suona meglio dell'ospedaliero "letto e colazione", o del termine "single" che fa più figo del termine tradotto in italiano "solo", dietro il quale potrebbe nascondersi un "sono stata mollata per un'altra", "il mio ex ha scoperto di essere gay", "sono sfigata perchè incontro sempre uomini sbagliati", perchè oggi in fondo tutti temono la solitudine, nessuno vuol essere solo, ma tutti vogliono stranamente essere "single". Che paradossale contraddizione, eppure si tratta di termini, di definizioni, una questione per così dire, di "traduzioni". Quasi come se la lingua italiana dovesse fare un passo indietro, lasciar spazio a nuove terminologie, essere all'avanguardia rispetto la conclamata "globalizzazione", venendo mal visti quando sbagliamo la pronuncia dei termini di nuova importazione, mentre invece George Clooney è stato strapagato per ripetere "Immagina, puoi!" nonostante appaia come un balbuziente. Data questa breve premessa, vorrei però soffermarmi su questo fantastico social network che è facebook (altrimenti denominato faccialibro a dispetto di tutti gli anglosassoni), una delle più incredibili innovazioni della nostra era. Ma in Italia (parlo della mia Nazione perchè purtroppo o per fortuna non sono in grado di consultare anche le piattaforme internazionali) quando puoi dire di essere un degno utente di facebook, degno perchè riceverai un minimo di 30 mi piace agli status o tra i 40 e 60 mi piace alle tue fotografie?
Sei un degno utente di facebook se citerai Bukowski, Fabio Volo, Alda Merini, Marilyn Monroe, Oriana Fallaci, pur non avendo mai letto un loro libro, ma scoprendone l'esistenza attraverso citazioni pubblicate da altri amici di facebook che desidererai emulare con un rapidio "copia ed incolla" perchè vorrai essere degno anche tu di entrare a far parte di questa congrega di finti intellettuali, perchè se riuscirai ad ottenere almeno 30 mi piace ti convincerai di piacere e di essere in gamba. Sarai un degno utente se tu donna scriverai frasi sul vero amore e su quanto sia complicata la ricerca del principe azzurro dopo aver fatto conoscere il tuo corpo all'intero reame, cavalli compresi. Sarai un degno utente se tu uomo scriverai quanto sia difficile trovare una ragazza seria e con degli stimabili contenuti se continuerai a mettere al tuo fianco delle notorie bagasce. Sarai un degno utente se avrai famiglie allargate, contando due madri, tre padri, quattrordici sorelle, dieci fratelli, otto cugini, a limite anche una zia ed un nonno.
Ti convincerai di essere intelligente però solo quando scriverai frasi che verteranno sulla politica italiana nonostante tu non abbia mai ascoltato un telegiornale, abbozzando frasi del tipo "Il Governo fa schifo, mandiamo tutti a casa, tagliate gli stipendi ai parlamentari invece di aumentare le tasse", tutti salvatori della patria, in effetti non capisco perchè Monti non li abbia chiamati al suo fianco per risolvere la crisi economica.
Vogliamo poi parlare di questa invadenza nel voler conoscere la tua "situazione sentimentale" a tutti i costi? Vogliamo parlare di quello scostante "impegnato" optato dagli uomini e del "fidanzata ufficialmente" cui tendono invece le donne? Così facendo gli uomini subiranno la sindrome da "incatastamento", le donne si sentiranno messe da parte. Questo provocherà litigi e fraintendimenti nell'attesa che uno dei due possa cedere, o nei casi più estremi delle vere proprie rotture che saranno ufficializzate da una modifica al tuo stato sentimentale: Anastasia è passata da fidanzata ufficialmente a single. Trenta mi piace, ventiquattro commenti, tra cui l'estraneo di turno che inopportunamente scriverà quel banale "Ma che dici?Come mai?Vedrai che tutto si aggiusta". 
In effetti Mark avrebbe potuto risolvere il problema con la via intermedia del "fidanzato ufficiosamente", così da gettare un po' di fumo negli occhi alle donne, e garantire sogni tranquilli ad uomini timorosi.
Per non parlare delle coppie che decidono di iscriversi su facebook con un unico account, creando inverosimili profili con nomi e cognomi tutti attaccati tipo LinaDiGirolamo&EspositoStefano, con annesse foto profilo e foto di copertina con loro che si baciano fingendo passionalità mentre al momento dello scatto magari l'uno diceva all'altro "Amò, mi fa male il braccio, facciamo presto, dai va bene questa!" "Ma no amò che dici? Sto male, scattiamone un'altra", tutte rigorosamente ad occhi chiusi, di profilo, mentre le loro labbra si toccheranno. Si scambieranno in bacheca frasi che potrebbero scambiarsi anche in privato ma di cui, per essere dei degni utenti, renderanno partecipi anche noi, provocando per i più sensibili una sensazione di rigurgito.
Sei un degno utente di facebook se ti scatterai prima di uscire di casa una fotografia per far conoscere a tutti il tuo abbigliamento, se inserirai la tua posizione anche quando sei al cesso o andrai a dormire nel tuo letto (pensavo dormissi nella cuccia del cane), se ti scatterai foto con l'improponibile boccuccia a culo di bottiglia, che modificherai sino ad apparire una strafiga pazzesca, al punto che certe per strada non riesco a riconoscerle, pensando tra me e me "Ah ma tu sei quella figacciona? Eh beh, scusami tanto se sono una tecnologicamente ritardata e non so usare Photoshop!"
Alla fine Facebook è geniale, fa bene, è bello, ma ciò che è virtuale non significa che sia per forza reale. Credo che nemmeno Mark fosse pronto ad una piattaforma tramutatasi in un addescamento tra uomini e donne incapaci di comunicare in altri modi,ad una piattaforma da molti interpretata come fosse il muro del pianto, a volti, amori, amicizie, intelligenze e capacità propagandate per reali, ma pur sempre e solo virtuali.
Mark l'avrebbe forse evitato, in fondo gli americani temono la concorrenza.

martedì 8 gennaio 2013

Gli aeroporti.

Amo l'immagine di quelle persone che attendono in aeroporto chi sta per arrivare, avendo tra le mani un cartello con su scritto "Miss Murple", "Mr Giorgio Pinto", "Miss Alice Castellani". 
Amo osservare quelle persone che sapendo della presenza di qualcuno che li attende volgeranno lo sguardo tra i tanti cartelli per scovare il proprio, amo il sorriso di chi legge il proprio nome sul cartello e quegli sguardi luminosi che si intersecano tra chi con quel sorriso non dirà altro che "Ti ho trovato" e chi con la medesima smorfia sul volto vorrà dire senza pronunciarsi esplicitamente "Sono qui per te". 
Amo gli incontri in aeroporto, quasi come fosse quella la vera meta del viaggio, di quel vagare da città in città, per poi ritrovarsi in un abbraccio ristoratore che vuol dire nel suo silenzio "Sono tornata". 
Amo osservare l'andare e venire di persone di diverse nazionalità nelle sale d'attesa degli aeroporti. Talvolta mi sono soffermata anche ad osservare le lacrime e gli abbracci di chi lasciava sul pavimento non troppo distante da se il suo bagaglio prima della partenza. Immagino che quanto più sia intenso l'abbraccio, quanto più sia lungo il silenzio alternato da quel dignitoso rumore dei singhiozzi che lasciano spazio a lacrime che solcano il viso, più sia dura la partenza, più sia lungo il soggiorno di chi parte, più sia dolorosa quell'assenza per chi resta. Ma gli aeroporti mi piacciono, non solo perchè fanno pensare a viaggiare, una delle cose che adoro maggiormente fare, ma perchè in questo luogo credo che attraverso l'immagine delle persone che impugnano quei cartelli si nasconda una trepidante attesa, credo che avvenga uno scambio di un profondo quanto umano affetto che pur lasciandoti il cuore a pezzi, fermo, a tratti freddo è come se al contempo invece si dilatasse, corresse, ti desse conferme al decollo dell'aereo, perchè quella persona sta andando via e la sua mancanza ti irrigidisce i muscoli ma se sei lì significa che quel cuore che porti in petto quella persona che sta andando via l'ha riscaldato come nessuno ha mai saputo fare prima. C'è un enorme scambio di amore anche quando fremi al pensiero del suo ritorno, anche quando giungi in aeroporto in anticipo nonostante tu non sia una persona puntuale, quando l'entusiasmo ti gonfia, ti fa sembrare forse addirittura più alto, alla notizia che l'aereo è atterrato. 
Adoro quei posti come gli aeroporti che riassumono tutto quello che in fondo la vita comprende: arrivi, partenze e ritorni, atterraggi e decolli, ritardi, attese estenuanti, abbracci di riconciliazione, lacrime di nostalgia, scambi di amore, di affetto, di gratitudine che avvengono nel silenzio di due anime come se attorno non ci fosse altro, tra il rumore della folla che passa che loro non riusciranno minimamente a percepire perchè conta troppo quel saluto che sperano sia un arrivederci pur conoscendo il rischio che possa tramutarsi in un addio, sorrisi e sguardi che aspettano di ritrovarsi nei sorrisi e negli sguardi di chi li attende impugnando cartelli con su scritto un nome che in realtà significa semplicemente l'esserci per l'altro perchè certi rapporti sono destinati a vagare in uno spazio che sa di ignoto per poi rivedere la ricongiunzione dei fili che in fondo non si sono mai persi del tutto, che in fondo sono legati da sempre, per sempre. Amo quei posti in cui puoi percepire la fragilità dell'uomo dinanzi un allontanamento che provoca dentro ogni corpo un vuoto profondo quanto una voragine, il ricominciare di chi decolla, il mettere radici di chi atterra, lo sguardo perplesso ed ansioso di chi teme di non arrivare in tempo, il coraggio di chi aspetta e la gioia di chi sa che esiste qualcuno che ancora vuole esserci, quell'incredibile scambio di amore che avviene senza troppe parole ma nel silenzio lucente di sguardi e sorrisi che si scrutano per poi riconciliarsi, la dignità di chi resta inerme di fronte a saluti che intanto fanno il cuore a pezzi. Amo quei luoghi che raccontano tutto questo, quei posti dove le persone si incontrano trasmettendosi un pezzo di se l'un l'altro, quei posti che sanno di umanità, di vita, quella vera, quella che ti fa piangere e ridere, quella che ti strazia e ti entusiasma, quella che vuole che attendi perchè il tuo momento ancora non è arrivato, quella vita che ti costringe spesso a decollare per poi atterrare. Mi piacciono i posti così, dove se sei particolarmente attento riesci a palpare la vita, a percepirne il senso anche solo osservando in silenzio senza far troppo rumore, quei posti dove c'è talmente tanta vita da poterla tagliare a fette e conservarne un pezzo da portare nelle tasche, perchè ovunque ci siano persone c'è sempre un ineguagliabile scambio di vite.

lunedì 7 gennaio 2013

A Londra per una tazza di thea.

Ritornare in una città come Londra per soli tre giorni, una città che per parte della tua vita ti ha visto protagonista e allo stesso tempo spettatrice, sognatrice e disillusa, star e cameriera, cuore e cervello, è stato meno semplice del previsto. Con lo sguardo alto verso il Big Ben, tra le strade di Oxford Circus e Regent Street che conducono a Piccadilly circus, tra la folla dei venditori e turisti di Portobello, tra la stravaganza di Camden Town o gli artisti di strada di Covent Garden mi sono spesso sentita in un equilibrio precario, con la mente a lì ed allora, a quei mesi splendidi di vita che raffioravano come boccioli, come se ogni angolo di strada avesse un ricordo da cogliere, ma con il corpo qui ed oggi, in un momento diverso eppure così simile, con la gioia di chi ripercorre strade che è come se avessero lasciato le tue orme su di un asfalto ancora fresco, la lucidità degli occhi di chi comprende che nonostante l'aria che si respiri in fondo sia sempre la stessa, mentre tu ti sei fermata Londra correva, ed insieme a lei anche le persone. Pensavo di essere ritornata ma forse non è così, perchè a tratti ho avuto come l'impressione di non essere mai tornata del tutto, di essere rimasta lì come se i mesi successivi al mio ritorno li avessi vissuti ad occhi chiusi, sono rimasta lì, all'indirizzo Parmiter Street 23. Dovevo tornare a riprendermi. Non so se questa volta ci sono riuscita, perchè generalmente lascio un pezzo di cuore ovunque vada, in tutti quei posti che ti donano tanto e allora un pezzo di anima la lascio anch'io, quei posti che ti spingono a tornare per respirare aria diversa, in quei posti che per un po' hai chiamato casa, per ricordare, per vivere, per sognare, per toccare le corde più intime del tuo essere, una città in cui non mi sono mai fermata se non in metropolitana o su degli scalini quando volevo scrivere qualcosa su quell'agenda che porto sempre con me. Allora forse da città come queste io non torno mai, vado solo e ci resto. Ma forse stavolta una piccola parte di me è tornata, per dovere o forse proprio per il desiderio di pensare a me stessa senza lasciare che i ricordi prendessero il sopravvento, sono tornata da legami che pensavo fossero inossidabili ed invece oltre ad ossidarsi si sono addirittura sporcati del marcio di quelle persone che hanno l'attitudine di rimuovere, sostituire e gettarti come un fazzoletto che non serve più, lasciandoti senza parole, nonostante in genere ne abbia sempre tante da pronunciare in ogni occasione. Chi ha letto il post precedente sarà forse curioso di conoscere come sia andata, se abbia fatto o meno la fine dello Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre. Con profondo rammarico dico di sì. Ma mi sono accorta di aver fatto soltanto io la fine dello Sputnik perchè in fondo un noi già non c'era più da tempo, ancor prima della mia partenza. Io nei miei pensieri in quel caffè londinese sono entrata, al tavolino mi ci sono seduta e ho anche ordinato una tazza di thea fumante che ho lasciato raffreddare per gustarlo meglio. Ho aspettato per ore o forse giorni il suo arrivo, ma quella porta è rimasta sempre chiusa. Ho provato per l'ennesima volta a comprendere e a cercare giustificazioni fin quando mi sono detta "Basta, devo tornare". Non c'è più tempo per vagare senza mai incontrarsi come lo Sputnik, non c'è più un noi, non c'è più tempo per i ma i se ed i forse, allora ai rimpianti ho preferito delle amare e laceranti delusioni, scontrarmi contro un muro le cui pareti ho scoperto essere di cartapesta, perchè in fondo esistono anche queste persone: quelle che alla tua partenza ti salutano con gli occhi gonfi, ricordandoti di quanto tu sia una bella persona per loro, quelle senza le quali non avresti mai pensato ad una permanenza migliore di quella vissuta ma che quando torni anche un saluto riescono a negarti, anche i ricordi riescono a sporcare, seminando dentro di te la convinzione che forse è vero che chi si accontenta gode ed io forse mi sarei dovuta accontentare del lì ed allora senza aspettarmi altro, perchè così forse quei ricordi sarebbero restati intatti senza mai sporcarsi, il mio cuore non avrebbe smesso di credere nell'esistenza di persone speciali, l'amore che covo verso qualsiasi persona, cose o città non mi avrebbe bruciato. Ma forse questo era necessario per tornare da quei legami che altrimenti sarebbero restati sempre appesi ad un filo, in balia dei condizionali, per cavalcare quello che è in fondo il mio motto, la politica del "Lasciare che sia", per non mortificarmi più del dovuto, per lasciare che tutto passivamente scorra sul mio corpo, per sperare, nonostante con un cuore colmo di delusione sia difficile, di incrociare un giorno persone che riescano a cavalcare la mia stessa onda, con meno parole, più silenzi, maggiore rispetto e profondità d'animo. Altri invece mi hanno allietato, infatti una delle domande più belle che abbia ricevuto in questi giorni da un'amica lasciata a Londra in settembre e incontrata in questi giorni è stata: "Ma quando scrivi un libro?Io sarei la tua prima lettrice!Ti seguo sempre ..." e so bene che alla lettura del tanto atteso "post del ritorno" starà proprio in questo momento sorridendo. Tutto questo mi è servito per comprendere una cosa molto importante. Quando sono ritornata in Italia a settembre ero completamente vuota, schiacciata dai ricordi e dai rimpianti, ancorata a legami che avrei voluto continuare ad alimentare credendo che la distanza non fosse un ostacolo così insormontabile per rapporti improntati sull'autenticità e sulle parole mai pronunciate per caso, con un'anima colma di mancanze. Adesso il mio ritorno mi vede invece tutta intera, con dei ricordi che avrei voluto lasciar puliti ma che le persone o forse il fato per suo dovere ed esigenza di proteggermi ha voluto sporcare, senza parole ma solo certezze, legami che ancora ci sono ma altri spazzati via da quel tempo che ha moltiplicato le distanze gettandomi in un pozzo. Ho avvertito una sola vera mancanza che sembrerà per molti assurda ma non meno di quanto lo siano certe persone che ho il "talento" di incrociare lungo il mio tragitto, non meno di certi atteggiamenti che non lasciano spazio a commenti: scrivere. Devo dire che questa volta rispetto ad allora ho sentito di tornare da qualcosa che avevo l'esigenza di riprendere per non sentirmi a metà: la tastiera del mio pc, le dita che veloci scorrono sui tasti, la mia ispirazione che prende forma in un conglomerato di parole che sono solo il frutto delle mie sensazioni che in modo diverso da questo non sono in grado di sciogliere. 
Avevo in fondo bisogno di tornare ad essere tutta intera, qui, adesso. Oggi lo posso dire, nonostante in fondo al mio cuore penso a Londra come a quell'uomo di cui conosci ogni dettaglio, ogni smorfia del viso, che ami follemente nonostante talvolta abbia il vizio di tradirti, ma che tu ogni volta perdoni, perchè credi che il perdono sia la virtù dei pochi che sappiano cosa significhi amare, perchè sai che a suo modo anche lui ti ama, sai che in fondo è l'uomo della tua vita o di parte di essa ed allora sarai anche in grado di aspettare, di andar via, ma di tornare di tanto in tanto, per poco o per restargli accanto, ma sempre tutta intera, senza mai lasciare che gli eventi ti mortifichino e ti annullino, come fa chi ama e chi proprio per questo perdona.

giovedì 3 gennaio 2013

Un trolley, un libro, un'agenda.

Ho un trolley di un arancione inconfondibile nell'angolo della mia stanza accanto alla porta contenente pochi vestiti, quanto basta per un weekend. Ho anche un'agenda, quella che da un po' porto con me nella borsa perchè talvolta mi piace appuntare quello che vedo, magari troverò ispirazione stando stesa sul prato con lo sguardo alto verso il Big Ben. Ho un libro che sto leggendo nella borsa, dal titolo "La simmetria dei desideri", di un autore israeliano, un altro sulla scrivania che comincerò quando finirò il primo, dal titolo "La ragazza dello Sputnik" dello scrittore giapponese Murakami Haruki, uno dei miei scrittori preferiti. L'ho acquistato giorni fa ed ero indecisa, ma mi è bastato leggere i primi righi della recensione per sceglierlo: "Sumire è una ragazza impulsiva, disordinata, generosa, con il mito di Kerouac e della scrittura. Myu è una donna matura, sposata, molto ricca e molto bella. Sumire ama Myu come non ha mai amato nessun ragazzo e Myu parrebbe provare lo stesso sentimento, ma uno schermo invisibile sembra separarla dal sesso e forse dal mondo. Riusciranno ad incontrarsi o si perderanno senza lasciare traccia come lo Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre?" Lo prendo. E chi mi conosce ha subito capito perchè. Perchè parla di una particolare quanto attuale e reale forma d'amore che non appartiene alla mia persona ma la verità è che a me basta che si parli di amore e trovo tutto molto affascinante. Mi sono rivista forse in Sumire quando la si definisce "impulsiva, disordinata, generosa, con il mito della scrittura". Ho anche io il timore di non lasciare alcuna traccia. Ho immaginato uno stralcio di vita alla lettura della domanda finale, paragonando un po' di me stessa allo Sputnik. Non pensavo al momento dell'acquisto che questo interrogativo fosse in parte anche la trama dei prossimi tre giorni a Londra, non pensavo di venire a conoscenza delle solite verità scomode che anzitutto feriscono il mio orgoglio di donna così presto, così vicino ad una partenza che fino a ieri mi rendeva entusiasta, oggi quell'entusiasmo si sposa con un po' di paura e un sottile velo di rammarico. Forse deciderò di prendere una tazza thea in un qualche caffè del centro, vi entrerò trafelata mentre tento di chiudere l'ombrello o forse ci sarà un inaspettato splendido sole. Forse mi aspetterà al tavolino o forse dovrò io aspettare lui. Forse saremo imbarazzati perchè è passato tanto tempo per lui, per me è come se ci fossimo salutati solo l'altro ieri. Forse cominceremo a parlare a vanvera senza toccare l'argomento, cominceremo a sorseggiare il nostro thea solo quando si sarà raffreddato ed una volta finito ci saluteremo e andremo via, di nuovo, ognuno per la sua strada. O probabilmente ci sputeremo in faccia le nostre verità sin da subito, non potendo sbattere porte cominceremo ad inveire l'uno contro l'altro, ma alla fine il risultato sarà sempre lo stesso. Ci saluteremo, e andremo via, per le nostre strade diverse nonostante il mio tentativo di cogliere una qualche minuziosa similitudine in un quadro che nulla più in fondo racconta, io seguirò la mia dai contorni indefiniti, lui andrà da lei. Non so quanto senso abbia tutto questo. Non c'è amore, passione, orgoglio, sembra non esserci niente se non l'amarezza dei ricordi, se non il desiderio ancora una volta di andare a fondo e risalire, come in fondo sempre mi accade, se non il desiderio di affrontare paure, esprimere opinioni, vedermi gettare in volto verità che forse nemmeno mi interessano ma le esigo, alzandomi poi come una donna fiera, svoltando l'angolo con una triste lucidità degli occhi che ancora una volta non troverà colpevoli, ancora una volta non sarà per nessuno ma semplicemente per ciò che avrei potuto avere in quella vita a me troppo distante, oramai lontana, passata, irraggiungibile, che in fondo non mi è mai appartenuta pienamente.
O forse faremo esattamente come lo Sputnik: vagheremo senza mai incontrarci.
Il vagare è un po' il motore della mia vita, ma anche l'amore lo è. E' questo il più grande paradosso, perchè vorrei tanto piantare radici vagando, ma è come pensare di far fiorire boccioli senza mai innaffiarli: una contraddizione in termini. Ma io questa vita in fondo l'ho scelta perchè mi rende viva, e c'è sempre un prezzo, a volte parecchio costoso, perchè la vita non fa sconti nè regala alcunché. Ma oggi c'è un trolley di un colore vivace nell'angolo, un'agenda con pagine da riempire nella mia borsa, un libro da leggere che attende di essere ultimato nella borsa ed un'altro da iniziare sulla scrivania, il primo un inguaribile manifesto sul tema dell'amicizia, il secondo su di una particolare forma di amore, quasi come se quest'ultimo non volessi portarlo con me, non per mia scelta, ma credo sia giusto che attenda sulla scrivania il suo tempo che talvolta ho come il timore che possa non arrivare mai, ma lo lascio qui perchè il mio cuore non venga dato in pasto al migliore offerente, perchè sia sempre io quella che dovrà scegliere a chi donarlo, passeggiando sulla mia strada. Allora oggi scelgo di essere un trolley non troppo pieno ma di un inconfondibile e vivace colore arancione, pagine di un libro che dovrò terminare, pagine di un'agenda quasi nuova che desidero riempire, lasciando che sia, come le note di una delle mie canzoni preferite. Perchè sono quella che in fondo porto sempre con me ed è importante che me ne ricordi, di tanto in tanto.
Non ho ancora letto il libro che è sulla mia scrivania, ma in fondo da inguaribile romantica spero che Samire e Myu riescano a ricongiungersi ed amarsi, nonostante il loro incessante vagare, lo spero nonostante in fondo credo che anime come loro siano destinate ad un'unica fine, una fine che per molti potrebbe apparire triste ed insoddisfacente, ma in fondo è solo il prezzo da pagare per chi sceglie di non fermarsi al corridoio della propria casa, ma sperimentare sempre nuove e diverse strade, nonostante spesso i loro passi ritorneranno a calpestare lo stesso ruvido asfalto della propria unica e sola strada: quella dello Sputnik. 
Vi aggiornerò sull'epilogo quando terminerò la mia lettura.