sabato 13 aprile 2013

Che cos'è una botta di vita?

In un fiacco pomeriggio d'aprile, con l'intento di scrivere un post diverso dai soliti sermoni, ho rivolto a qualcuno una domanda: "Cos'è per te una botta di vita?"

Una botta di vita è uno stile di vita che si chiama "hakuna matata".

Una botta di vita è uno stato d'animo che si chiama: spensieratezza. 

Una botta di vita è agire avendo come unico metro di valutazione il piacere.

Una botta di vita è qualcosa che giunge all'improvviso cambiando il corso degli eventi, stampandoti in volto un sorriso, rendendoti l'animo leggero al punto che pensi "Che bella la vita!"

Una botta di vita è soddisfare una pazzia del momento.

Una botta di vita è la musica. Quando sono nervoso mi basta ascoltarla, poi siamo io e lei, il resto non conta.

Una botta di vita è la compagnia di una bella donna.

Una botta di vita è nuotare nelle acque gelate alle 5 del mattino, fare tutto ciò che sappia di trasgressione.

Una botta di vita è vivere un'esperienza indimenticabile che ti arricchisce, perché vivere la routine quotidiana ti riduce in stand by, lasciando a digiuno lo spirito, vuota la valigia della tua vita.

Una botta di vita è rischiare con qualcuno o in qualcosa, senza timore delle conseguenze.

Una botta di vita è qualsiasi cosa che non ti faccia pensare a quanto ti manchino un letto ed un cuscino.

Una botta di vita è quando l'adrenalina è l'unica tua energia.

Quello che provi quando qualcuno dimostra di tenerci particolarmente a te, questa è una botta di vita.

Una botta di vita è l'immagine di te che fai il primo bagno a mare, in acque ancora tiepide, dopo il trascorrere dell'inverno e scopri parti del tuo corpo di cui ti eri dimenticata.

Direi che nella vita quotidiana ci sono giorni in cui a volte ci dimentichiamo perché siamo qui. Seguiamo le indicazioni segnalate e ci dimentichiamo di godere la vita. Ma quando qualcosa come questa "botta di vita" succede è come se si è dormito per tutto il tempo e all'improvviso ti svegli!
Mia sorella ha recentemente dato alla luce il mio primo nipote. Quando l'ho visto per la prima volta mi sono reso conto subito di quanto possa valere la pena vivere. Sono stato stupito di vedere come qualcosa di così piccolo come un bambino possa regalare felicità a così tante persone. E' stata sicuramente una botta di vita e non ricordo di averne avute altre così grandi come queste.

Una botta di vita è un'amica che ti contatta strafatta di antistaminici a causa dell'allergia e ti domanda "Cos'è per te una botta di vita?"

Allora, condividendo tutte queste risposte cogliendone parte di ciò che per me rappresenta una botta di vita, vale la pena che anch'io risponda a questa domanda.
Per me una botta di vita è tuffarmi nelle vite degli altri e sentire splash, come fossi l'esploratore di paesaggi incontaminati, un sub che tenti di scoprire le bellezze nascoste di un fondale marino. Per me una botta di vita è scrivere un post in un fiacco pomeriggio d'aprile invece di scrivere la tesi. L'affetto e la costanza che impiegate tutti voi nel seguire il mio blog, anche questo è una botta di vita. Per me una botta di vita sarebbe apprendere la notizia della pubblicazione di un libro che hai scritto. Una botta di vita è piangere di felicità o ammalarsi di malinconia. Scoprire nelle persone una smisurata bellezza che si chiama rispetto, lealtà, autenticità: questa sì che è una botta di vita. Una botta di vita sono gli amici, quelli presenti, quelli che ti dicono ti voglio bene in una giornata in cui la noia fa da padrona, quelli che riscaldano con i loro abbracci. Per me una botta di vita è quando decido di partire con un biglietto di sola andata, con una valigia quasi vuota per lasciar spazio a tutto ciò di cui si riempirà, giornate di sole o di pioggia battente, esperienze, sorrisi, baci, carezze, le avventure più disparate, le emozioni, in una sola parola : persone. Una botta di vita è quando capisco di dover lasciare e vado avanti, quando lascio certa di essere seguita soltanto da ciò che conta. Una botta di vita sento di essere io quando non ho paura.
Ognuno, in fondo, può essere la propria botta di vita, quella che senti come il vento che si insinua nell'epidermide silenziosamente o generando un frastuono simile ad un "TRACK".


mercoledì 10 aprile 2013

Ad un "come stai" rispondo "bene, grazie".

Non ho mai cercato consensi perché piacere a tutti ad ogni costo lo trovo un atteggiamento puerile e poco intelligente, mai parlato con chi non mi andava di parlare perché credo così profondamente nelle parole come un qualcosa che in fondo ci distingue dall'essere animale, un tesoro di cui talvolta si ignora la preziosità, che non mi va di disperderle, mai domandato un formale "come stai" se della risposta me ne sarei comunque infischiata, mai detto due cose differenti a due persone diverse perché ho sempre creduto che nella mia asfissiante insicurezza si celasse la pretesa di soggiogarla esprimendo un pensiero che al di là della condivisione sarebbe stato il mio, un pensiero che nonostante tutto mi avrebbe definito, sebbene detesti quelle definizioni che divengono presto etichette perché non si ha tempo di scoprirsi. Non ho mai posto limiti, nemmeno al tempo. Non ho mai conteggiato il tempo trascorso con una persona potenzialmente interessante, mai osato bloccare il timer quando credevo che fosse abbastanza, mai incasellato le emozioni, mai schematizzato gli appuntamenti né pianificato i come ed i quando. E questo in un rapporto, dalle voci popolari, spesso viene definito un correre troppo, esser pesanti quando non occorre, bruciare le tappe. Io invece lo chiamo semplicemente passeggiare mentre un tiepido sole ti riscalda le gote perdendoti nell'armonia dell'altro a tal punto da allontanarti dal punto di partenza senza aver necessità di tornare indietro ma il desiderio di procedere oltre senza che questo abbia qualcosa a che vedere con un bruciarsi per poi spegnersi. Lo chiamo passeggiare sino a che il sole nascosto tra le colline lascia spazio all'imbrunire ma adori così tanto quella sensazione che non vuoi tornare, e decidi di restare, nonostante tua madre ti aspetti per cena. Lo chiamo viversi come se il piacere fosse un apostrofo tra due persone che dimenticano che esista un tempo. Lo chiamo, contrariamente alle voci popolari, lasciarsi andare alla leggiadria delle emozioni, pratica insolita per un animo pesante di banalità e congetture. Ci ho messo un po' a capire tutto questo, a comprendere che vivere di emozioni non è come insegnare l'inglese, allora è inutile che mi ostini a far capire cosa ci sia dietro un atteggiamento che fa poco scena, e non perché voglia rimanere sempre dietro le quinte, ma palesarmi solo ad un pubblico che capisca il mio linguaggio così da avere applausi sentiti, di vero cuore, non soltanto un meccanico gesto alla chiusura del sipario. Ci ho messo un po' a capire che mentre passeggiavo e godevo della bellezza del paesaggio, qualcuno trovava più bello tornare a casa per cena ed il sol pensiero di passeggiare ancora un po' gli suscitava un insolito affanno, giustificandolo con una corsa che in effetti non era mai avvenuta. Ci ho messo un po' a capire che viviamo di opposti, non intersecabili. E non voglio dire che il mio modo sia migliore degli altri, in effetti ho anche cercato di analizzarlo senza che nessuno mai cominciasse a studiare il mio, perché volevo capirlo. E se qualcuno, leggendo, si alzasse e mi dicesse cosa c'è di simile ad una vita, quella vera, dove è bello piangere di felicità ma anche ammalarsi di malinconia, dove è bello divorare gli attimi che dopo poco potrebbero loro sbranare te, in un'esistenza schematizzata, in cui si ha la presunzione di controllare le emozioni, di decidere al posto del tempo, di manipolare i come ed i quando, in cui si chiede come stai per educazione senza impiegare la stessa nell'ascolto della risposta, in cui non si apprezza il peso delle parole e la virtù del rispetto, io lo ascolterei comunque, ma sono certa che nessuno sia in grado di spiegare perché un campo fiorito su cui lo sguardo si perde senza scrutarne il confine sia più emozionante di un mazzo di rose preconfezionato e recapitato direttamente al destinatario. E allora alla vostra domanda del "come stai" non mi tocca che rispondere con il vostro semplicistico "tutto bene, grazie", anche se non è così, ma è l'unico linguaggio che riuscirete a capire, perché gli immensi campi fioriti vorrei calpestarli con chi è in grado di annusare il profumo dell'erba fresca senza paura di varcare il confine in una leggerezza che ha al colore delle viole appena sbocciate ed il profumo di libertà, pronunciando soltanto la parola "ancora". 

lunedì 8 aprile 2013

Le parole che non ho mai detto.

Ad un certo punto ho smesso di scrivere e ho cominciato a parlare. Ma ad un tratto ho temuto che le mie parole andassero in un'unica direzione, in quel vicolo cieco noto a tutti al di fuori di me, da cui tutti pian piano uscivano per prendere altre strade, restando sola in una strada che come fine aveva una caterva di mattoni posizionati in malo modo gli uni sugli altri, assorbendo montagne di parole, le mie, che faticavano a trovare un esatto allineamento, per poi evaporare attraverso le fessure di quei mattoni, raggiungendo le nuvole, che nel loro scomporsi e ricomporsi, lasciando che l'immaginazione disegnasse volti, sagome, figure strambe, non davano a me mai una risposta. E allora ho ricominciato a scrivere. Ho scritto tutto, forse troppo, ho scritto di tutti o forse di nessuno. Ho scritto pure di te sperando di raggiungerti nonostante la consapevolezza che tu forse non abbia mai letto una sola riga o che forse, mentre lo facevi, tu non l'abbia capito. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in luoghi troppo rumorosi, in cui le mie parole si sarebbero altrimenti disperse tra le altre senza lasciare alcuna traccia, come un foglio di carta gettato nel fuoco insieme agli altri per alimentare quella fiamma che sarebbe presto divenuta una montagna di cenere. Ho scritto perché pretendevo di arrivare attraverso la scrittura in quelle persone che all'ascolto delle mie parole dimostravano di non capirmi, forse di fingere addirittura di ascoltarmi. Ho scritto e non me ne pento, sebbene le mie parole non abbiano raggiunto quei luoghi che avevo prefissato come ultime destinazioni, perché alla fine hanno raggiunto me, una destinazione inesplorata quanto inaspettata ma di certo la più importante. Ed è per questo che ho smesso di scrivere con l'intento di raggiungere luoghi o persone in cui ho capito, solo con il tempo, che mi sarebbe stato vietato l'accesso, qualunque forma di comunicazione avessi scelto. Ed è per questo che ho smesso di osservare chi proponeva un linguaggio differente dal mio cercando di emularli, di quelli che si capiscono senza doverli decifrare, di quelli che però spesso io fatico a comprendere lo stesso. Ho smesso di specchiarmi in quegli occhi in cui non riuscivo ad immaginare nemmeno la mia immagine riflessa, di insinuarmi in luoghi in cui non avrei avuto il mio spazio nemmeno se l'avessi ritagliato in un angolo strettissimo, di cogliere risposte in dei silenzi che in effetti non dicevano nulla. Ho smesso di credere anche a te, perché tu sei rumore, sei il rosso di un tramonto che poco dopo lascia spazio alle scure tinte dell'imbrunire, sei il giallo delle foglie d'autunno, sei uno spazio ampio contornato da mura di cinta, io sono invece silenzio, il rosa di un'alba che cede il passo ad un nuovo mattino, un gelido inverno che si alterna con fresche primavere, uno spazio piccolo ma mai recintato ove è possibile che lo sguardo si perda senza scorgere la fine, ma nemmeno l'inizio. E quindi ho capito che talvolta dove non arrivano le parole che germogliano dal cuore, per sprofondare nello stomaco e risalire con estrema veemenza attraverso la bocca, non possono nemmeno quelle scritte aventi la stessa radice. Perché al di là di quale modalità si scelga, le parole arrivano se un cuore sia aperto abbastanza per coglierle. Spesso così aperto da sfamarsi persino di frasi leggermente sussurrate, talvolta addirittura di silenzi. 
Ma un cuore chiuso non riuscirà a recepire nemmeno le urla.

mercoledì 3 aprile 2013

Persone giuste. Momenti sbagliati.

Nel raccontarci la storia della "persona giusta al momento sbagliato" spesso ritroveremo il nostro alibi di ferro, catene ricreate dal nostro cervello che impediscono di essere profondamente liberi nonostante non ce ne si renda conto. Ma quando il nostro momento sbagliato sarà divenuto oramai un amaro ricordo sbiadito, cedendo il passo ad un momento che riterremo propizio, inciamperemo rigorosamente in persone sbagliate, non ricordandoci quasi mai che, in un passato prossimo o remoto, avevamo conosciuto una persona che avevamo definito giusta, non voltandoci mai per recuperarla, spesso non coltivandone nemmeno il desiderio. Ne collezioneremo così tante sbagliate da convincerci che la nostra vita sia nient'altro che un gomitolo inestricabile di errori. Non siamo mai lucidi abbastanza da poter fare un passo indietro, ricapultandoci in un passato che potremmo rendere presente ridisegnandovi i contorni, su cui passeggiare e lasciarvi le orme su quell'asfalto fresco. Mai abbastanza lucidi nell'ammettere di non saper amare la perfezione. Mai abbastanza coraggiosi nell'ammettere che l'unico errore è stato definire sbagliato il momento, mai lucidi abbastanza nell'ammettere che se c'era qualcosa di sbagliato era il non saper amare ciò che per noi sarebbe stato giusto, rincorrendo inesorabilmente chi aveva già sulla fronte il marchio di errore. Non siamo mai abbastanza obiettivi nell'ammettere che le persone giuste le abbiamo incontrate ma non le abbiamo volute e allora abbiamo scelto la strada del "momento sbagliato", mai lucidi nell'ammettere che possiamo anche noi, una tantum, essere l'errore di qualcuno, senza dover necessariamente riconoscere ad altri tale marchio con la presunzione di discolparci.
Non siamo mai maturi abbastanza nell'ammettere che non esiste un momento giusto o sbagliato, ma esistono soltanto persone che capitano in momenti che saranno sempre giusti se vorremmo inebriarci totalmente del loro profumo, tuffandoci nelle loro acque che potrebbero apparire calme nonostante le onde.

La verità è che ci vuole predisposizione per tutto, anche per darsi all'amore, anche per credere che chi abbiamo incontrato sia forse la persona giusta per ricominciare. E' strano come prima di parlare di emozioni, di quella più forte come l'amore, si debba riconoscere che anche il cervello faccia la sua parte. E' strano come l'amore possa rapire il cuore, solo se talvolta in fondo il cervello lo consenta, ed è incredibile come il più delle volte le false congetture del cervello risultino più penetranti delle melodie del cuore.
C'è chi la chiama mancata predisposizione, io forse la chiamerei talentuosa attitudine fallimentare dei rapporti, incapacità di emozionarsi perché si è profondi quanto un tappo di bottiglia, o semplicemente immaturità, quella che ti rende solo, muto, sordo e cieco al cospetto di tutto ciò che sappia di umanità.

sabato 30 marzo 2013

Rispetto

Nell'universo della finzione, dove bugiarda può essere un'amicizia, una presunta lealtà, ove bugiardo può essere uno sguardo, una promessa, un gesto, ove finto può essere un amore tanto osannato, c'è una cosa che costituisce la base di ogni sentimento, da cui deriva la naturalezza nel viverli, c'è una cosa che sfugge dall'universo della finzione: il rispetto. 
Non credo che non ci si riesca più ad emozionare perché ad un certo punto l'epoca delle emozioni ci deve abbandonare per lasciar spazio al pragmatismo sterile e senza alcuna forma.
Non credo che non si riesca più a vivere un'amicizia in modo empatico perché temiamo di offrire troppo all'altro al punto da rimanerne scottati e pronti a fare un passo indietro.
Non credo che oggi non ci si innamori più perché siamo giovani disillusi con un cuore troppo sporco e malandato per essere pulito e rinfrescato. 
Non credo che non si possa provare a vivere un amore come lo si faceva in passato, perché nessuno ci dedica più poesie, nessuno è pronto ad aspettare, nessuno vuol più parlare.
Credo semplicemente che esistano due categorie di persone: quelle che spalmano il senso di rispetto come fosse del buon burro sulla propria fetta biscottata appena svegli ogni mattina, e quelle il cui seme non è stato piantato né ci abbiano mai provato. 
Credo che se oggi non ci si innamori più, non ci si emozioni, non si riesca a vivere un'amicizia profonda in cui ogni gesto si sposa con una parola che ritroverai esattamente in uno sguardo che sarà come acque limpide di un mare cristallino, è perché della parola rispetto non si conosce alcunché.
Non pretendo amori, né amicizie, né promesse, sguardi limpidi, gesti estremi, naturalezza e lealtà. Pretendo soltanto l'unica cosa su cui nessuno è in grado di mentire, la madre dei sentimenti, ciò che rende il percorso lineare senza alcuna ombra: il rispetto.
Provo tenerezza per chi non lo offre, perché significa che non ne conosce alcuna forma, significa che non ce l'ha nemmeno per se stesso, significa che è solo.
Ma lo ringrazio perché ogni volta ricordo ciò che non vorrò mai diventare.

giovedì 28 marzo 2013

Una corsa contro il tempo

Ho sempre avuto paura che il tempo mi consumasse, che gli attimi corressero così velocemente in un tempo che intanto disintegrava pezzi di vita, come granelli di sabbia in una clessidra. Ho avvertito sempre come se ci fossero scadenze da rispettare, e allora riempivo quell'arco temporale di tutto ciò che trovavo per strada, anche di ciò che avrei potuto omettere, nella speranza che il tempo non mi tradisse opacizzandomi, che mi desse la possibilità di vincere quelle scadenze, di restare sotto qualsiasi forma anche una volta superate. E invece ogni volta mi tradiva, dalla scadenza non potevo fuggire, e quel tempo racchiuso tra una scadenza e l'altra diveniva un ricordo sempre più tiepido, sempre più amaro, una miscela di un "noi" sempre più opaco e di sottilissimi granelli retti in un pugno, da versare nella clessidra per ricominciare il gioco del "vediamo chi vince: noi o il tempo", senza mai render pubblica la mia corsa ove il respiro affannato mi induceva ad allontanarmi dal traguardo senza che nessuno si rendesse conto della fatica.
Ma ieri ero in metropolitana ed accanto a me era seduta una donna che maneggiava con un' inconsueta calma dei referti, forse sulla quarantina, visibilmente scarnita, di un pallore malato in volto ed un foulard colorato sulla testa che nascondeva la totale calvizia causata presumibilmente da cicli ripetuti di chemioterapia. Come d'incanto i miei pensieri si erano assottigliati sino a ridursi in poltiglia, quasi come se mi vergognassi nel pensare ciò che la mia mente aveva riprodotto, sentendomi una stupida alla visione di quella donna. Non conosco la sua storia, ma il suo volto parlava nonostante stesse in silenzio, mostrando la sua malattia senza alcun imbarazzo né volontà di generare compassione. Il suo sguardo fiero che non osava mai abbassare era sintomo di coraggio e desiderio di colorare la sua vita di tinte ben più vivaci di quel foulard che le copriva il capo, come se rappresentasse una battaglia tra la vita e la morte, una corsa contro il tempo in cui le scadenze non avrebbero mai preso il sopravvento, non prima di averci almeno provato.
Credo che ognuno a suo modo consegua una personale corsa contro il tempo che il più delle volte sfugge rendendoci impotenti. Anche quella donna ne aveva una, ma per la prima volta avevo visto una vittoria nonostante il traguardo non fosse stato ancora superato, nonostante la corsa non fosse ancora terminata, addirittura prima del tempo, come se le scadenze fossero illusorie. Allora aveva dato in quel preciso istante una lezione a me e a tutti quelli che come me giocano col tempo sapendo a priori di uscirne forse sconfitti: non aveva avuto paura di palesare la sua corsa contro un tempo che le remava contro come un vento sfavorevole. Forse questo è l'unico modo di sentirci padroni del tempo, di sentirci vincitori nonostante tutto.
E mentre me lo stava insegnando, per la vergogna, ho detto grazie zittendo i pensieri.

lunedì 25 marzo 2013

Amore e altre forme.

Siamo frutto dell'amore, di quella compenetrazione di corpi che ne è l' appendice, o fugace quanto una stretta di mano, che dell'amore potrebbe non avere nulla all'apparenza, ma in sostanza ne ha prodotto una forma. E allora è naturale avvertirne il bisogno, come naturale è stata la nostra nascita e la causa di essa. Ma allora perché abbiamo paura di dirlo o quando lo sussurriamo sottovoce per timore che qualcuno ci senta continueremo a vergognarci per il resto dei nostri giorni? Come un frutto maturo che una volta caduto dall'albero neghi la sua provenienza, non riconosca più il ramo che l'abbia visto sbocciare e poi maturare, come se preferisca essere scaraventato da una folata di vento sul terreno arido ai piedi dell'arbusto e lì voglia restarci nonostante presto potrebbe marcire.
Ma la verità è che dell'amore ne abbiamo bisogno in ogni sua forma, dalla più estrema, dalla più aspra, alla più minuziosa e delicata, anche se dell'amore non conosciamo nulla anche quando avremo la presunzione di conoscerne i dettagli o la pretesa di appurarne almeno gli aspetti principali. Anche quando dell'amore vorremmo conoscerne almeno una forma, pensando di non essere stati mai in grado di conoscerne una, ignorando di essere noi una delle tante, la prima, la più importante, l'inizio del nostro percorso cognitivo. 
Spesso capita di rincorrerlo, di pensare che si nasconda dietro una siepe, urliamo perché sia in grado di ascoltarci, illudendoci che l'amore abbia voce per risponderci. Ma l'amore non corre, passeggia, non si nasconde ma spesso si pone davanti a noi in una combinazione di forme o come manifesto di una di queste. L'amore non ha voce, ma soltanto occhi per vedere, orecchie per ascoltare. Non urla, ma è silenzio, quel silenzio pungente o intervallato da parole, poche, inaspettate, che riempiono più di qualsiasi dichiarazione.
Perché oggi la dichiarazione d'amore più bella è sentirsi una forma d'amore, imprecisa ma dai contorni definiti, è essere per l'altro l'unica forma visibile dunque esistente. Una forma che trova colori vivaci anche nelle tinte opache, precisione anche dove avremo potuto calcare meglio. 
E' questa la dichiarazione d'amore più bella, spontanea, controcorrente nel suo apparire obsoleta: essere la forma d'amore più piena, che ce lo dica qualcuno, che lo pensiamo noi.