venerdì 25 gennaio 2013

I primi della classe.

A scuola sono sempre stata la prima. 
Ero in prima elementare e la mia insegnante nell'ora di italiano ci teneva a farmi leggere sempre per prima così che i miei compagni mi vedessero come esempio. 
Una volta quando ero in prima elementare ricordo di essere stata prelevata da un'insegnante di seconda, mi portò nella sua classe per farmi risolvere delle operazioni di matematica che i suoi alunni non riuscivano a risolvere. Per me invece fu più semplice del previsto, e ricordo che mentre ero alla lavagna, sentivo il vociare dei bambini di seconda elementare dietro le mie spalle che silenziosamente sussurravano: " Com'è brava, ma come ha fatto?" e l'insegnante che con voce perentoria esclamava: "Prendete esempio da questa bambina!"
Uscii poi da quell'aula con volto chino e le spalle incurvate e credo che sul mio volto si leggesse che in fondo non avevo fatto niente di speciale, niente per cui valesse in fondo la pena di riconoscermi un valore degno di nota che potesse pormi su di un piedistallo per potermi distinguere. 
Ed è proprio questa immagine che porto con me, da sempre, perchè è in effetti proprio la stessa che riscontro attualmente quando la mattina mi sveglio e guardo la mia immagine riflessa allo specchio.
Perchè sono stata sempre la prima della classe alle scuole elementari e alle medie, al liceo ero considerata non la prima ma una delle più brave, quei punti di riferimento a cui tutti potessero appigliarsi, e così anche all'università. Ma in fondo un certo valore non me lo sono mai riconosciuto. Ho sempre pensato che fosse semplice assumere il ruolo della prima della classe, perchè in fondo basta impegno e buona volontà per farti aprire un libro ed inglobare nozioni che ti renda agli occhi degli altri un esempio da emulare. Ma talvolta l'essere primi in questo modo non sempre appaga come vorresti. Perchè diventi un esempio e allora non puoi sgarrare, ti senti quasi in dovere di rispettare il ruolo che in fondo tu non hai mai preteso, nè forse riconosciuto, ma sono stati gli altri a farlo per te e spesso senza nemmeno chiederti il permesso. E' come se gli altri riponessero in te delle aspettative che sebbene tu consideri troppo grandi per te o non pienamente affini, è come se le volessi far tue comunque sforzandoti il doppio per non deludere nessuno. E mentre il tuo cervello a fatica preserva l'idea di non voler deludere nessuno, intanto stai deludendo quella voce che dentro di te ti imporrebbe di spogliarti per lasciare che non siano ruoli precostituiti ma la tua reale natura a prevalere.
A scuola ho sempre avuto buoni insegnanti e forse è per questo che mi è risultato semplice diventare la prima. Ma nonostante possa sembrare assurdo, talvolta avrei tanto desiderato, e tuttora, non esserlo, così da poter essere libera di esplicarmi, senza che alcuna etichetta ti imponesse di sostenere un ruolo che contrariamente a quanto si possa pensare, è oltremodo difficoltoso in certi momenti. 
La prima a scuola e nella vita? Nella vita che posizione rivesto? Non esistono libri ma soltanto esperienze e saranno le persone a ricoprire il ruolo di insegnanti, quel ruolo che spesso ti verrà girato per camminare da sola, per mettere a frutto ciò che avrai imparato e che in alcuni casi ti verrà chiesto di trasmettere. Posso dire che le esperienze non mi sono mancate. Quelle esperienze che mi hanno portato a toccare il cielo con un dito, per poi lasciare che il mio sedere sprofondasse nel fango. Quelle esperienze che mi hanno fatto battere il cuore così forte sino a farlo scoppiare, fino talvolta a farlo fermare. Quelle esperienze che ho condiviso con altri, ma tante altre da sola. Quelle esperienze che mi hanno resa più forte, altre tremendamente timorosa. 
Ho incontrato persone che sono stati per me degli insegnanti modello, di quelli a cui pensi come esempi da emulare. Ma ho incontrato anche persone assolutamente banali, poco interessanti, quegli insegnanti tremendi che non avranno mai la tua stima ma che in fondo non riesci a non temere. Persone che mi hanno idolatrato facendomi leggere davanti a tutti chiedendo agli altri di seguire le mie orme, persone che mi hanno chiamato alla lavagna per risolvere un'equazione che non sono riuscita a risolvere, che hanno ridotto la mia autostima, facendomi sprofondare in una vergogna che non aveva ragion d'essere eppure c'era, me la sentivo addosso, come una puzza che non riesci a togliere. Ho incontrato persone che non mi hanno insegnato nulla, persone che mi hanno insegnato qualcosa o tutto quello che c'era da sapere. Persone che mi hanno insegnato che la vita è bella, altre che la vita può talvolta tramutarsi in un inganno, quell'inganno di cui loro stessi si facevano portavoce. Persone che sono diventate dei profumi che non facevo a tempo a spruzzarmi addosso che evaporavano nell'aria. Per qualcuno ho sentito l'esigenza di annusare vecchi indumenti che ne conservassero la fragranza, per altri ho sentito invece il bisogno di gettare quei vestiti per non sentirne più l'odore, per non ricordare di quanta puzza possa esserci in un profumo che con l'andar del tempo non apparirà dolce come appena spruzzato. Ho incontrato persone come insegnanti che giungono in aula dicendo alla platea di restare in silenzio perchè hanno delle faccende da sbrigare, leggere un giornale, o semplicemente un lieve mal di testa che impedisse di fare lezione, quelle persone che non danno tempo a te ed inevitabilmente anche a loro stessi, o come quegli insegnanti per cui basta un intervento da posto per capire se tu sia preparato o meno, per mancanza di tempo, o semplicemente di desiderio di comprendere, senza mai andare oltre.
Allora nella vita posso dire di essere stata insegnante ma spesso ho sentito l'esigenza di sedermi tra i banchi e lasciare che la vita mi insegnasse ciò che c'era da sapere per sentirmi più preparata. Sono stata l'alunna modello ma spesso anche la più impreparata. Ho maturato il bisogno di far battere forte il cuore come quando si tocca il cielo con un dito, un bisogno che ricerco costantemente come fosse il motore della mia esistenza, nonostante il timore di sbucciarmi le ginocchia, con quella costante ansia sul come gestire una vita, sul dove andare ed in cosa o chi credere, nonostante per amor proprio abbia dovuto talvolta fermare questo cuore che altrimenti mi avrebbe fatto troppo male nel continuare a battere. Ho maturato il bisogno di ascoltare e di essere ascoltata, nonostante abbia spesso incrociato chi tempo per farlo non voleva darmene, perchè è come se la gente non abbia mai tempo o mai desiderio, il che equivale a dire lo stesso.
Nella vita in fondo non ci sono libri né certezze, le tue guide non riuscirai sempre a riconoscerle e spesso dovrai ergere a guida te stesso per timore di inciampare. Ci sono solo strade, viottoli, salite e discese. Ci sono paesini e grandi città. Ci sono persone.
Ed in questo turbinio di lezioni come esperienze e di persone in veste di insegnanti, mi sono a volte sentita la prima ma molto più spesso l'ultima, altre volte invece la mia posizione non sono riuscita a definirla. 
La vita è una lezione che non si smette mai di imparare, che quando meno te lo aspetti ti interrogherà e non è detto che tu sia sufficientemente preparato, una lezione che dovrai ascoltare da altri o spesso tenere tu, come un insegnante mai preparato abbastanza. Ma chi può dirsi in fondo il primo della vita? Credo nessuno. Allora forse servono braccia forti, petto in fuori ed un volto fiero per tuffarsi nel mare della vita, ma per nuotare e cavalcare le onde talvolta occorre farsi un bagno di umiltà, incurvare le spalle, chinare il capo, lasciare che siano gli altri a riconoscerti un valore che tu potrai vedere come fosse niente di speciale ma soltanto un dovere. E' forse soltanto così che si impara, un modo che non ci farà essere primi perchè di primati la vita non ne conosce, ma nemmeno gli ultimi, semplicemente così, semplicemente persone e non pagliacci.

mercoledì 23 gennaio 2013

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo: una metafora di vita.

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo. La fotografia scattata dal padre fa il giro del mondo, catturando inevitabilmente la mia attenzione. Questa fotografia trasuda vita, trascinando via con sé il suo più intrinseco senso, non solo per essere stata scattata nel topico momento del parto, ma per questa mano, nuda, fragile, così piccola, che non appena intravede uno spiraglio di luce si aggrappa ad un dito più grande per cominciare la sua vita.
Manifesto, questo gesto che si intinge di profonda commozione, di una recondita verità: il bisogno innato di aggrapparci a qualcuno o qualcosa che ci infonda la fiducia necessaria per abbandonare il buio e venire alla luce. Un bisogno che si palesa sin dalla nascita per poi accompagnarci per tutto il resto della nostra vita. Un bisogno dei piccoli, ma talvolta soprattutto del mondo adulto, perchè il ciclo della vita non è semplicemente quella fase compresa tra la nascita e la morte biologica di un essere umano, ma può iniziare in ogni momento, ad ogni età, quando esperienze passate ci abbiano visto morire maturando dentro di noi l'esigenza di rinascere ancora. Un bisogno che non deve confondersi tra i germogli di una letale dipendenza, perchè quest'ultima punge, ci fa aggrappare a qualcuno o qualcosa in cui la nostra personalità viene inevitabilmente divorata, annullata, destinata comunque al buio, non è un qualcosa di profondamente innato e naturale, ma cresce successivamente quando il sentirci soli ci svuota, bistrattando la natura umana. E' invece un bisogno ingenuo, delicato, spontaneo, che nasce dai semi piantati nel cuore per poi espandersi silenziosamente nell'anima umana più piena. Un bisogno che i cinici hanno imparato a negare, celandolo dietro l'affermazione "Non ho bisogno di nessuno, sto bene così, sto bene da solo", senza che l'altro carpisca dietro quella negazione del bisogno il reale significato di quella frase, forse un bisogno ancor maggiore di chi avrà il coraggio di esprimersi. Perchè anche quella minuscola mano si sarà staccata dal dito per cominciare a muovere da solo i suoi primi passi, ma come ogni creatura che impara a camminare avrà avuto la necessità di reggersi a qualcosa per timore di cascare. Probabilmente sarà anche caduto provocandosi degli enormi bernoccoli sulla fronte, ma alla fine sarà riuscito ad andare per la sua strada per le continue cadute il cui numero si sarebbe forse triplicato in mancanza di appoggi.
Non è forse questa la più incredibile metafora della vita? 
La differenza è che un bambino riesce a cogliere il bisogno nella sua naturale essenza, perchè non conosce vergogna, al contrario si dimenerà se qualcuno non correrà presto in suo aiuto, avendo tutto il necessario a sua disposizione per aggrapparsi e soddisfare quel bisogno. Gli adulti, che dal mondo delle loro esperienze hanno assimilato stereotipi, inganni, orgoglio e vergogna, quanto di meno umano possa esistere, forse si dimeneranno, ma lo faranno nel silenzio della loro anima senza mai riuscire ad esprimersi, bistrattando l'unico elemento umano che accomuna tutti, consci, nel caso, di avere a disposizione solo qualcosa o qualcuno cui aggrapparsi perchè la loro mente nel buio di una gelida stanza non sarà in grado di nutrire l'immaginazione, perchè in fondo un adulto farebbe meno tenerezza di un bambino, un adulto nell'immaginario collettivo può riuscire a stare da solo. Ma se forse capissimo che il ciclo della vita non è unico ma in un'intera vita potremmo disporne anche di dieci, cento, mille, se riuscissimo a carpire la ciclica essenza della vita, potremmo forse capire che il bisogno, che non è dipendenza, di aggrapparci a qualcuno o qualcosa per trovare la spinta per venire alla luce, è profondamente umano, innato, di tutti, soprattutto di chi continua a negarlo. E l'umanità ha ben poco a che fare con una disumana vergogna. 
In un mondo ideale dovremmo assimilare la saggezza dei nostri nonni e la tenerezza che sa di verità ed umanità dei bambini, dimenticandoci di essere posizionati esattamente al centro di questo ciclo che non si arresta mai, che può finire ma che inizia di continuo.

martedì 22 gennaio 2013

Cotone su seta.

Tempo per telefoni muti, porte sbattute ed un buio che divora non ce ne è stato nemmeno.
Perchè non mi hai dato tempo di telefonare, nè di sbattere una porta, ma è giunto subito il tempo di un ingiustificabile silenzio in una stanza dalle pareti bianche, ove trapelavano spifferi attraverso le fessure delle finestre, osservando con distacco dietro i vetri le foglie ingiallite spazzate via dal vento, quelle finestre che ho preferito lasciar chiuse per timore di conoscere la forza del vento che potesse farti mancare la terra sotto i piedi, per timore di essere spazzata via come quelle foglie anche se in fondo tu l'avevi già fatto, nonostante avessi mantenuto le finestre chiuse.
E forse ti detesto nella stessa misura in cui io adesso stia detestando me stessa.
Ti detesto per le frasi non sussurrate ma anche per quelle pronunciate con fermezza che come delle tempere ad olio sono restate sulla tela senza che la combinazione di tutti quei colori lasciasse spazio all' immaginazione.
Ti detesto per avermi dato la conferma di convinzioni di cui avrei voluto assaporarne per una sola volta il torto. E mi detesto perchè in fondo non è un cuore ferito a parlare, bensì un orgoglio di donna bistrattato, il desiderio di voler essere la prima, soltanto questa volta, almeno questa volta, come forse mai è successo.
 E mi detesto perchè della tua presunta felicità non riesco ad esser felice anch'io e per questo mi sento di valer poco in veste di persona rancorosa, come un cestino che non fa a tempo a riempirsi per poi essere svuotato. E forse mi detesto perchè dovrei tacere, forse ti detesto perchè hai assimilato tutte le mie frasi sull'amore e di quanto sia indispensabile crederci per rinascere ancora, le hai apprese come un alunno dalla sua insegnante, per poi seminare e coltivare i semi del tuo amore con chi fortuitamente è giunta subito dopo. Mi detesto perchè di questo tuo modo di utilizzarmi come strumento per apprendere come si riesca ad essere pronti al cospetto dell'amore non riesco a farne motivo di vanto.
Mi detesto perchè in fondo sapevo sin dall'inizio di non c'entrare nulla con te, ma ho voluto provarci lo stesso, ritagliarmi uno spazio che assomigliasse più che altro ad una toppa di cotone ricucita su di un tessuto di seta. Ma la verità è che se non c'entravo niente con te, è valso lo stesso anche per il precedente, e per quello ancora prima, e ancora prima, e ancora. Temo di esser sempre stata una toppa ricucita maldestramente su di un vestito dal tessuto diverso dal mio. 
Allora, alla fine, io con chi c'entro?

Cos'è la "cazzimma" per un napoletano.

Non so quanti di voi napoletani si siano trovati a parlare con qualcuno proveniente da un'altra città d'Italia e nel pronunciare la frase "Uaaaa, che cazzimma!" si siano sentiti puntare gli occhi addosso, come se provenissimo da Marte, e con lo sguardo attonito ed il tono perplesso si siano sentiti rivolgere la domanda "Che cos'è la cazzimma?", e noi rispondere "Come te lo spiego?E' impossibile!"
In effetti è notevolmente complicato. Il napoletano è noto per il suo spiegarsi con estrema concisione, esprimendo concetti lunghi grazie la fusione o la creazione di termini dialettali che ne riassumono il fulcro.
Dal termine cazzimma si ricava l'aggettivo "cazzimmoso" o "cazzimmosa" a seconda del sesso dell'interlocutore. In effetti potremmo definire la cazzimma una fusione di scarsa generosità, lealtà, onestà, un atteggiamento di menefreghismo che si sposa ad una carenza di correttezza, un atteggiamento di furbizia opportunistica, un pensare esclusivamente ai propri interessi danneggiando spesso gli altri, ma come direbbe un napoletano "non è solo questo, c'è qualcosa in più, la cazzimma è un'altra cosa!"

Ma allora, cos'è la cazzimma?

La cazzimma è quando da piccoli, mentre si giocava, un bambino particolarmente capriccioso non metteva a disposizione i suoi giocattoli, o quel bambino che, mentre si stava giocando al pallone, decideva di punto in bianco di prenderlo e portarlo via.

La cazzimma è quando qualcuno, nel cuore di un discorso che desta la nostra attenzione, omette volutamente dei dettagli che se svelati potrebbero cambiare il nostro punto vista, un segreto che non vorrà rivelarci, cedendo il passo alla classica affermazione "Che CAZZIMMA che TIENI!"

La cazzimma è quando un arbitro chiama un fallo che avrebbe potuto anche non segnalare.
La cazzimma l'ha mostrata Drogba durante la partita di Champions League, Chelsea Napoli, quando negli ultimi minuti di gioco per temporeggiare, accasciatosi al suolo, ha finto di non riuscirsi a rialzare, e all'inquadratura del suo volto coperto dalle mani e delle sue dita che si aprivano per gettare l'occhio sulla decisione arbitrale, molti dei tifosi avranno di certo esclamato "Che cazzimma", qualcuno l'ha definita "Esperienza dei grandi giocatori", ma per noi era in primis cazzimma, non si discute.

Quando a scuola il nostro compagno di banco non ci passava il compito, o se, come spesso sarà capitato, il primo della classe non si offriva per essere interrogato e salvare il resto della classe impreparata, in quel caso non è soltanto cazzimma, bensì una CAZZIMMA ESAGERATA. Perchè il napoletano per rafforzarne il concetto, aggiunge spesso l'aggettivo "esagerato", ed in questo caso è assolutamente doveroso per intendere che quel compagno di classe ha una cazzimma che parte "dai capelli fino all'ultima unghia del piede".

La cazzimma è del professore universitario che in seduta d'esame ci rivolge la classica domanda complicata di cui ignoriamo la risposta, o del nostro datore di lavoro, che pur conoscendo le nostre esigenze, volutamente decide di non venirci incontro.

In fondo c'è un po' di "cazzimma" in ognuno di noi, praticata quotidianamente senza nemmeno accorgercene.
La "cazzimma" è un termine coniato nel napoletano, ma che in fondo appartiene a tutto il mondo, Lega Nord compresa, perchè come direbbe un napoletano "Nella vita, c vò nu poc e cazzimm!"

domenica 20 gennaio 2013

Un posto dove trovare stimoli.

C'è un posto che è la fonte di tutti gli stimoli di cui necessitiamo, molto spesso ignorato, ricercandoli altrove.
Andiamo allora in una libreria pensando che un libro riposto su di uno scaffale possa catturare la nostra attenzione per il suo titolo curioso, o perchè ne conosciamo l'autore o semplicemente perchè qualcheduno ce ne avrà parlato.
Andiamo al supermercato e troveremo in una confezione di yogurt magro la soluzione alla nostra dieta, o in confezioni di dolciumi la soluzione al nostro cattivo umore.
Andiamo in un negozio di scarpe pensando che l'acquisto di quella calzatura in vetrina possa fungere da terapia alla nostra noia, alla nostra stanchezza mentale.
Andiamo in discoteca, in un pub per una birra e qualche ora di svago, cerchiamo in luoghi ed in persone quegli stimoli che dopo qualche tempo si tramuteranno in palliativi, quelli che attenuano il dolore ma che non guariscono. Ricerchiamo all'esterno ciò che invece dovrebbe nascere e maturare dentro di noi, trascurando che siamo proprio noi la miglior medicina. E' il nostro cervello il luogo più giusto in cui trovare stimoli. Lo stimolo è lì che deve essere seminato, innaffiato per crescere, ed una volta maturo abbastanza raccolto con estrema attenzione. E' il nostro cervello che decide se il nostro umore dovrà conformarsi ad un tempo uggioso o ad un cielo sereno, se essere arrabbiati, stanchi, annoiati o allegri e leggeri. E' lì che tutto nasce ed è lì che tutto spesso si consuma. Ma il cervello lo si può gestire contrariamente a quanto si possa credere. 
Possiamo alzarci di buon mattino e rassegnarci ad essere arrabbiati nonostante il cielo sereno, o imporci di essere allegri nonostante il cielo grigio. E' essenzialmente questione di volontà, quella stessa che dovrebbe ogni giorno suggerirci la domanda: "Oggi come vogliamo essere?" e ascoltare i bisogni del cuore che suggeriranno la risposta. 
Ma condividere stimoli è un bisogno umano, è il passo più difficile, perchè saremo costretti ad interrogarci sul dove andare. Dovremo andare esattamente dove il cuore avrà scelto di condurci, in una finta passività che ci vedrà paradossalmente esseri attivi per il semplice fatto di avere avuto il coraggio di ascoltarlo. Ma il nostro cuore dovrà aprirsi, soltanto così riusciremo a condividere i nostri stimoli e a trovare persone altrettanto stimolanti. Dovremmo forse partire dal presupposto che siamo tutti profondamente diversi e che se vogliamo che le persone comincino a capire arrestando le classiche lamentele, dovremmo aprirci, esprimerci nella nostra totale pienezza, senza più nascondere lacrime dietro falsi sorrisi, senza più bistrattare le nostre esigenze celandole dietro frasi da copione che inorgogliscono senza mai soddisfare nè definirci, liberandoci come un soffione trascinato dal vento. Soltanto così forse ti riconoscerai tra la folla e potrai esser scelto da chi avrà desiderio di entrare nel tuo mondo dove non tutti avranno il piacere di entrare, ma qualcuno il coraggio ed il desiderio di restare. 
Farsi delle domande è da persone intelligenti quanto vere, è da persone nella loro costante ricerca di stimoli, persone che a furia di seminare e raccogliere ne hanno fatto una parte fondamentale del proprio essere. Ma le persone stimolanti esistono, basta cercarle, basta aprirsi, perchè sono silenziose, purtroppo è la stupidità ad essere tremendamente rumorosa. 
La felicità non è un diritto, ma una possibilità che va seminata, curata per poi all'occorrenza esser colta, ascoltando il cuore ed aprendo il cervello.


venerdì 18 gennaio 2013

La vita va avanti, comunque.

Ci sono giornate che cominciano con un cielo grigio per poi lasciar spazio a tiepidi raggi di sole, ma nonostante il loro timido filtrare non riescono a riscaldare, nè a rendere meno grigio il cuore la cui tinta sarà sempre più intensa, tra cui poter scorgere venature di nero, quello che non lascia spazio ad alcuna immaginazione. E allora ti rendi conto che la tua giornata è cominciata in questo modo ed è esattamente così che dovrà terminare, semplicemente così, come il 18 gennaio di ogni anno.
Ci sono giornate in cui pensavi di rimanere imbottigliata nel traffico, invece sei stata semplicemente risucchiata da pensieri e ricordi che nella tua mente generano un traffico peggiore delle tante automobili in una strada stretta, perchè è un traffico silenzioso, nessun rumore, nessun clacson assordante, ci sei solo tu, in una strada larghissima di cui non riuscirai a scorgere la fine fin quando non ti scontrerai ad un muro che ti farà capire di esserti immessa in un vicolo cieco.
Ci sono giornate in cui ti soffermi sulla frenesia dei passanti ma tu vorresti restar ferma. Quelle giornate in cui assapori la triste verità di quanto la vita vada avanti comunque, ma ci sono dei giorni, uno, due, tre o anche sette all'anno, in cui avverti l'esigenza di spegnerti, di far correre la vita senza correre con lei, perchè non hai bisogno di accelerare il passo, non adesso, non oggi, ma con il fiatone desideri fermarti, con il groviglio dei pensieri e dei ricordi, forse a farti male, ancora una volta, a tentare di lavare un senso di colpa che credevi rimosso ma che è sempre lì in agguato a farti inciampare, a farti male due volte.
Ci sono giornate in cui sai di avere quel solito appuntamento importante, di quelli che ti fanno salire l'ansia con una settimana di anticipo, quelli che non si rimandano, nè da cui puoi scappare, in qualunque città tu abbia scelto di rifugiarti.
Il 18 gennaio è per tutti una data sul calendario, per me è peggio di un appuntamento dal dentista. 
Un appuntamento con la vita e con la morte al tempo stesso. Un appuntamento che mi rende schiava e debitrice, salva e sconfitta. Un appuntamento con i miei classici sensi di colpa che il tempo non fa altro che cementificare rendendoli sempre più grandi. Un appuntamento che ti vede con un fiore da riporre su una tomba come se oramai soltanto questo fosse rimasto per sentirti meno sporca nonostante a volte ti ci senta il doppio. Un appuntamento che ti costringe a meditare sul perchè di gesti estremi, di gesti che inglobano nella loro pesantezza al contempo una leggerezza inaudita, un'altra faccia della medaglia di questa vita che a qualcuno scoraggia al punto da desiderare di abbandonarla, al punto da essere un gesto coraggioso ma al tempo stesso da vigliacchi. Un appuntamento che ti irrigidisce i muscoli, ti offusca la mente, ti fa mettere nuovamente in discussione la scala dei tuoi valori al punto da pensare che niente attorno a te valga ma per i restanti giorni, per sopravvivere perchè la vita va avanti comunque anche senza di te allora tanto vale correre insieme a lei, dovrai dargli un valore comunque. Un appuntamento in cui ti fai tante domande a cui non riesci a rispondere se non con condizionali del tipo "Avrei potuto ascoltare", quelle frasi che rendono tutti innocenti ma in fondo non meno colpevoli. 
Quelle giornate che non vedi l'ora che finiscano sperando in un domani in cui ricomincerai il tuo conto alla rovescia, in attesa del prossimo 18 gennaio.

mercoledì 16 gennaio 2013

Basterebbe restare.

Che assurda ossessione quella di tornare, quando invece basterebbe semplicemente restare.
E' come se non fossimo più abituati alla semplicità, ai piccoli dettagli che per la loro scarsa cospicuità trascuriamo calpestandoli costantemente, guardando sempre troppo lontano, dimenticando ciò per cui basterebbe abbassare lo sguardo per trovare esattamente ai nostri piedi. E' come se cercassimo costantemente conferme, come se stessimo alla costante ricerca della domanda giusta che richieda la risposta esatta, ma se l'esattezza della domanda non si sposa con quella del momento, se non riusciremo ad indovinare la risposta corretta, è come se avvertissimo dentro di noi una rottura, un crack lancinante che pervade lo stomaco, che ci costringe a lasciar perdere, ad allontanarci prima di spingerci troppo oltre, avendo la presunzione di capire quando sia il momento di andare, quando quello di frenare, dando la definizione di "oltre" a tutto ciò che ci renderebbe fragili, nudi, timorosi, autentici, molto spesso frenando quando sarebbe il tempo di andare o viceversa, frenando ancor più spesso quando oramai siamo giunti a quell'oltre la siepe, oltre l'ignoto, oltre ciò per cui varrebbe in fondo la pena di restare.
Ma spesso la masochistica tendenza di cercare incessantemente senza mai soffermarci sui dettagli e raccoglierli come fiori appena sbocciati che necessitano di essere innaffiati, quella becera tendenza a dover per forza schematizzare, definire e catalogare mettendo punti fermi, esclamativi, interrogativi e virgole, quell'esigenza di dover uscire necessariamente da qualcosa per poter osservare e anche capire ciò che stiamo lasciando andare alle nostre spalle, ci impedisce di assaporare la pienezza, la felicità, la vita stessa. Quando sprechiamo il nostro tempo nella formulazione di domande a cui non troveremo in fondo mai risposte che ci rendano appagati, ci poniamo già fuori da un pezzo di vita ed inevitabilmente anche fuori quelle persone che ne fanno parte in cui basterebbe restar dentro per soddisfare i nostri interrogativi, quell'atto razionale che rischia di farcele perdere, quel rischio che si tramuterà in certezza al nostro temporeggiare.
Allora dovremo perdere quel qualcosa per vincere le nostre paure, per scoprirne il senso, per comprendere di quanto invece sapesse del tutto ciò di cui avevamo bisogno, al punto da rimpiangere di averlo lasciato alle nostre spalle, al punto da far tutto ciò che è in nostro possesso per recuperarlo. Recuperare con estremo sforzo fallendo o talvolta riuscendo nella nostra impresa, recuperare quello che in fondo avevamo già, mancando però della giusta dose di maturità che ce lo facesse capire, di quel pizzico di amor proprio e di rispetto per ciò che la vita non manca mai di offrirci anche quando pensiamo non ci stia offrendo nulla, che forse non ci renderebbe pienamente soddisfatti, ma di certo più gentili, più riconoscenti. 
Passiamo invece una vita ad ossessionarci di dover recuperare quello che abbiamo lasciato sui marciapiedi delle strade della nostra vita, quando invece sarebbe bastato chiudere gli occhi per un sol momento e ascoltare le risposte del cuore, perchè il cuore non tradisce, è sempre esatto anche nelle sue leggerezze, non offre mai spazio ai rimpianti, ci impedirebbe di lasciare, ci costringerebbe a restare perchè ci vuole pieni, felici, stracolmi di quella vita che spesso il cervello vuole che calpestiamo per ciò che si è soliti chiamare dovere, orgoglio, tiepida rassegnazione alle vicissitudini.
Chi ha avuto quel qualcosa che non ha avuto la maturità di definire come tutto, lasciandolo per questo andare, non godendone abbastanza, maturando solo in seguito l'ansia di volerlo recuperare a tutti i costi, si riconosce tra mille. Perchè chi ha avuto tutto non riesce ad accontentarsi di molto e rimarrà inerme, dall'alto del suo piedistallo, ad attendere, a temere che forse nessun altro sia in grado di riscaldare il cuore, che nessun altro abbia voglia di quel fresco venticello all'atto dello sventolamento del cuore. Avrà timore di non sentire più niente.
Perchè i suoi occhi saranno lucidi e spenti, passando da persona in persona, custodendo quel noi perso come modello da ricercare, da emulare senza mai riuscirci. Il suo volto sarà pallido e rassegnato alla visione di quel volto che potrà a tratti essere simile ma mai lo stesso. Le sue labbra saranno sempre pronte ad esser baciate, il suo corpo sarà probabilmente denudato, ma avvertirà un sapore più amaro o forse più acre quando quelle labbra simili ma diverse si avvicineranno alle sue, non annegherà più in nessuna anima incrociata, non lascerà in fondo che nessuno riesca a perforare la propria. Vedrà in un "ti amo" la più bugiarda delle verità o la più veritiera menzogna. Non crederà più in nessuna delle parole pronunciate da qualcuno che vorrebbe vederla accanto come un fiore appena sbocciato perchè si sentirà sempre un ramo secco, uno stelo strappato. Quegli abbracci crudi e violenti non emaneranno alcun calore, ma solo un gelido freddo invernale, di quelli che sono il preludio di incessanti nevicate.
Si vorrebbe in fondo tornare a lì ed allora, a quelle labbra dal dolce sapore, a quell'anima che abbaglia prima di conoscere le smorfie del volto, la sinuosità del corpo, la tenerezza delle movenze. Tornare a delle gote di un roseo vivace, ad annegare silenziosamente senza difese in quell'anima lasciando che l'altro faccia lo stesso, perchè è solo quel ti amo che si aspetta, saranno soltanto quelle braccia in grado di accalorarci, solo quel respiro si vorrà ascoltare.
Ma perchè abbiamo bisogno di perdere tutto questo per capire in fondo di desiderarlo come quel qualcosa che in fondo ci completa? Perchè siamo poco abituati alla grandezza dei dettagli, a prenderci cura dei nostri gioielli reclamandone la proprietà solo quando ne saremo stati derubati, convinti di non aver bisogno di alcunché erroneamente perchè il bisogno di amore è profondamente umano, appartiene a chiunque, nessuno escluso. Non è il bisogno dei fragili, ma l'indole di chi si palesa nella sua umana natura, facendone il più autentico punto di forza. Perchè siamo anime predisposte all'eterna insoddisfazione, sempre alla ricerca di qualcosa ma se ci chiedessero cosa stiamo cercando sapremo dare solo risposte vaghe, come se cercassimo senza mai volutamente trovare.
Perchè è più facile lasciare andare, ma più rischioso, coraggioso, umano, l'atto del restare.
Rischiamo sempre troppo poco, non siamo mai coraggiosi quanto basta, ci allontaniamo dalle mille sfumature di un essere umano, dalla possibilità di cogliere la felicità, di calpestare fili soffici di erba e non più quel ruvido asfalto che ci massacra i piedi, chiamando paura ciò che andrebbe invece definito come bisogno. 
Vorremmo recuperare quell'umanità che ci appartiene soltanto dopo, solo dopo averla persa.
Ma non basterebbe forse restare?