martedì 8 gennaio 2013

Gli aeroporti.

Amo l'immagine di quelle persone che attendono in aeroporto chi sta per arrivare, avendo tra le mani un cartello con su scritto "Miss Murple", "Mr Giorgio Pinto", "Miss Alice Castellani". 
Amo osservare quelle persone che sapendo della presenza di qualcuno che li attende volgeranno lo sguardo tra i tanti cartelli per scovare il proprio, amo il sorriso di chi legge il proprio nome sul cartello e quegli sguardi luminosi che si intersecano tra chi con quel sorriso non dirà altro che "Ti ho trovato" e chi con la medesima smorfia sul volto vorrà dire senza pronunciarsi esplicitamente "Sono qui per te". 
Amo gli incontri in aeroporto, quasi come fosse quella la vera meta del viaggio, di quel vagare da città in città, per poi ritrovarsi in un abbraccio ristoratore che vuol dire nel suo silenzio "Sono tornata". 
Amo osservare l'andare e venire di persone di diverse nazionalità nelle sale d'attesa degli aeroporti. Talvolta mi sono soffermata anche ad osservare le lacrime e gli abbracci di chi lasciava sul pavimento non troppo distante da se il suo bagaglio prima della partenza. Immagino che quanto più sia intenso l'abbraccio, quanto più sia lungo il silenzio alternato da quel dignitoso rumore dei singhiozzi che lasciano spazio a lacrime che solcano il viso, più sia dura la partenza, più sia lungo il soggiorno di chi parte, più sia dolorosa quell'assenza per chi resta. Ma gli aeroporti mi piacciono, non solo perchè fanno pensare a viaggiare, una delle cose che adoro maggiormente fare, ma perchè in questo luogo credo che attraverso l'immagine delle persone che impugnano quei cartelli si nasconda una trepidante attesa, credo che avvenga uno scambio di un profondo quanto umano affetto che pur lasciandoti il cuore a pezzi, fermo, a tratti freddo è come se al contempo invece si dilatasse, corresse, ti desse conferme al decollo dell'aereo, perchè quella persona sta andando via e la sua mancanza ti irrigidisce i muscoli ma se sei lì significa che quel cuore che porti in petto quella persona che sta andando via l'ha riscaldato come nessuno ha mai saputo fare prima. C'è un enorme scambio di amore anche quando fremi al pensiero del suo ritorno, anche quando giungi in aeroporto in anticipo nonostante tu non sia una persona puntuale, quando l'entusiasmo ti gonfia, ti fa sembrare forse addirittura più alto, alla notizia che l'aereo è atterrato. 
Adoro quei posti come gli aeroporti che riassumono tutto quello che in fondo la vita comprende: arrivi, partenze e ritorni, atterraggi e decolli, ritardi, attese estenuanti, abbracci di riconciliazione, lacrime di nostalgia, scambi di amore, di affetto, di gratitudine che avvengono nel silenzio di due anime come se attorno non ci fosse altro, tra il rumore della folla che passa che loro non riusciranno minimamente a percepire perchè conta troppo quel saluto che sperano sia un arrivederci pur conoscendo il rischio che possa tramutarsi in un addio, sorrisi e sguardi che aspettano di ritrovarsi nei sorrisi e negli sguardi di chi li attende impugnando cartelli con su scritto un nome che in realtà significa semplicemente l'esserci per l'altro perchè certi rapporti sono destinati a vagare in uno spazio che sa di ignoto per poi rivedere la ricongiunzione dei fili che in fondo non si sono mai persi del tutto, che in fondo sono legati da sempre, per sempre. Amo quei posti in cui puoi percepire la fragilità dell'uomo dinanzi un allontanamento che provoca dentro ogni corpo un vuoto profondo quanto una voragine, il ricominciare di chi decolla, il mettere radici di chi atterra, lo sguardo perplesso ed ansioso di chi teme di non arrivare in tempo, il coraggio di chi aspetta e la gioia di chi sa che esiste qualcuno che ancora vuole esserci, quell'incredibile scambio di amore che avviene senza troppe parole ma nel silenzio lucente di sguardi e sorrisi che si scrutano per poi riconciliarsi, la dignità di chi resta inerme di fronte a saluti che intanto fanno il cuore a pezzi. Amo quei luoghi che raccontano tutto questo, quei posti dove le persone si incontrano trasmettendosi un pezzo di se l'un l'altro, quei posti che sanno di umanità, di vita, quella vera, quella che ti fa piangere e ridere, quella che ti strazia e ti entusiasma, quella che vuole che attendi perchè il tuo momento ancora non è arrivato, quella vita che ti costringe spesso a decollare per poi atterrare. Mi piacciono i posti così, dove se sei particolarmente attento riesci a palpare la vita, a percepirne il senso anche solo osservando in silenzio senza far troppo rumore, quei posti dove c'è talmente tanta vita da poterla tagliare a fette e conservarne un pezzo da portare nelle tasche, perchè ovunque ci siano persone c'è sempre un ineguagliabile scambio di vite.

lunedì 7 gennaio 2013

A Londra per una tazza di thea.

Ritornare in una città come Londra per soli tre giorni, una città che per parte della tua vita ti ha visto protagonista e allo stesso tempo spettatrice, sognatrice e disillusa, star e cameriera, cuore e cervello, è stato meno semplice del previsto. Con lo sguardo alto verso il Big Ben, tra le strade di Oxford Circus e Regent Street che conducono a Piccadilly circus, tra la folla dei venditori e turisti di Portobello, tra la stravaganza di Camden Town o gli artisti di strada di Covent Garden mi sono spesso sentita in un equilibrio precario, con la mente a lì ed allora, a quei mesi splendidi di vita che raffioravano come boccioli, come se ogni angolo di strada avesse un ricordo da cogliere, ma con il corpo qui ed oggi, in un momento diverso eppure così simile, con la gioia di chi ripercorre strade che è come se avessero lasciato le tue orme su di un asfalto ancora fresco, la lucidità degli occhi di chi comprende che nonostante l'aria che si respiri in fondo sia sempre la stessa, mentre tu ti sei fermata Londra correva, ed insieme a lei anche le persone. Pensavo di essere ritornata ma forse non è così, perchè a tratti ho avuto come l'impressione di non essere mai tornata del tutto, di essere rimasta lì come se i mesi successivi al mio ritorno li avessi vissuti ad occhi chiusi, sono rimasta lì, all'indirizzo Parmiter Street 23. Dovevo tornare a riprendermi. Non so se questa volta ci sono riuscita, perchè generalmente lascio un pezzo di cuore ovunque vada, in tutti quei posti che ti donano tanto e allora un pezzo di anima la lascio anch'io, quei posti che ti spingono a tornare per respirare aria diversa, in quei posti che per un po' hai chiamato casa, per ricordare, per vivere, per sognare, per toccare le corde più intime del tuo essere, una città in cui non mi sono mai fermata se non in metropolitana o su degli scalini quando volevo scrivere qualcosa su quell'agenda che porto sempre con me. Allora forse da città come queste io non torno mai, vado solo e ci resto. Ma forse stavolta una piccola parte di me è tornata, per dovere o forse proprio per il desiderio di pensare a me stessa senza lasciare che i ricordi prendessero il sopravvento, sono tornata da legami che pensavo fossero inossidabili ed invece oltre ad ossidarsi si sono addirittura sporcati del marcio di quelle persone che hanno l'attitudine di rimuovere, sostituire e gettarti come un fazzoletto che non serve più, lasciandoti senza parole, nonostante in genere ne abbia sempre tante da pronunciare in ogni occasione. Chi ha letto il post precedente sarà forse curioso di conoscere come sia andata, se abbia fatto o meno la fine dello Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre. Con profondo rammarico dico di sì. Ma mi sono accorta di aver fatto soltanto io la fine dello Sputnik perchè in fondo un noi già non c'era più da tempo, ancor prima della mia partenza. Io nei miei pensieri in quel caffè londinese sono entrata, al tavolino mi ci sono seduta e ho anche ordinato una tazza di thea fumante che ho lasciato raffreddare per gustarlo meglio. Ho aspettato per ore o forse giorni il suo arrivo, ma quella porta è rimasta sempre chiusa. Ho provato per l'ennesima volta a comprendere e a cercare giustificazioni fin quando mi sono detta "Basta, devo tornare". Non c'è più tempo per vagare senza mai incontrarsi come lo Sputnik, non c'è più un noi, non c'è più tempo per i ma i se ed i forse, allora ai rimpianti ho preferito delle amare e laceranti delusioni, scontrarmi contro un muro le cui pareti ho scoperto essere di cartapesta, perchè in fondo esistono anche queste persone: quelle che alla tua partenza ti salutano con gli occhi gonfi, ricordandoti di quanto tu sia una bella persona per loro, quelle senza le quali non avresti mai pensato ad una permanenza migliore di quella vissuta ma che quando torni anche un saluto riescono a negarti, anche i ricordi riescono a sporcare, seminando dentro di te la convinzione che forse è vero che chi si accontenta gode ed io forse mi sarei dovuta accontentare del lì ed allora senza aspettarmi altro, perchè così forse quei ricordi sarebbero restati intatti senza mai sporcarsi, il mio cuore non avrebbe smesso di credere nell'esistenza di persone speciali, l'amore che covo verso qualsiasi persona, cose o città non mi avrebbe bruciato. Ma forse questo era necessario per tornare da quei legami che altrimenti sarebbero restati sempre appesi ad un filo, in balia dei condizionali, per cavalcare quello che è in fondo il mio motto, la politica del "Lasciare che sia", per non mortificarmi più del dovuto, per lasciare che tutto passivamente scorra sul mio corpo, per sperare, nonostante con un cuore colmo di delusione sia difficile, di incrociare un giorno persone che riescano a cavalcare la mia stessa onda, con meno parole, più silenzi, maggiore rispetto e profondità d'animo. Altri invece mi hanno allietato, infatti una delle domande più belle che abbia ricevuto in questi giorni da un'amica lasciata a Londra in settembre e incontrata in questi giorni è stata: "Ma quando scrivi un libro?Io sarei la tua prima lettrice!Ti seguo sempre ..." e so bene che alla lettura del tanto atteso "post del ritorno" starà proprio in questo momento sorridendo. Tutto questo mi è servito per comprendere una cosa molto importante. Quando sono ritornata in Italia a settembre ero completamente vuota, schiacciata dai ricordi e dai rimpianti, ancorata a legami che avrei voluto continuare ad alimentare credendo che la distanza non fosse un ostacolo così insormontabile per rapporti improntati sull'autenticità e sulle parole mai pronunciate per caso, con un'anima colma di mancanze. Adesso il mio ritorno mi vede invece tutta intera, con dei ricordi che avrei voluto lasciar puliti ma che le persone o forse il fato per suo dovere ed esigenza di proteggermi ha voluto sporcare, senza parole ma solo certezze, legami che ancora ci sono ma altri spazzati via da quel tempo che ha moltiplicato le distanze gettandomi in un pozzo. Ho avvertito una sola vera mancanza che sembrerà per molti assurda ma non meno di quanto lo siano certe persone che ho il "talento" di incrociare lungo il mio tragitto, non meno di certi atteggiamenti che non lasciano spazio a commenti: scrivere. Devo dire che questa volta rispetto ad allora ho sentito di tornare da qualcosa che avevo l'esigenza di riprendere per non sentirmi a metà: la tastiera del mio pc, le dita che veloci scorrono sui tasti, la mia ispirazione che prende forma in un conglomerato di parole che sono solo il frutto delle mie sensazioni che in modo diverso da questo non sono in grado di sciogliere. 
Avevo in fondo bisogno di tornare ad essere tutta intera, qui, adesso. Oggi lo posso dire, nonostante in fondo al mio cuore penso a Londra come a quell'uomo di cui conosci ogni dettaglio, ogni smorfia del viso, che ami follemente nonostante talvolta abbia il vizio di tradirti, ma che tu ogni volta perdoni, perchè credi che il perdono sia la virtù dei pochi che sappiano cosa significhi amare, perchè sai che a suo modo anche lui ti ama, sai che in fondo è l'uomo della tua vita o di parte di essa ed allora sarai anche in grado di aspettare, di andar via, ma di tornare di tanto in tanto, per poco o per restargli accanto, ma sempre tutta intera, senza mai lasciare che gli eventi ti mortifichino e ti annullino, come fa chi ama e chi proprio per questo perdona.

giovedì 3 gennaio 2013

Un trolley, un libro, un'agenda.

Ho un trolley di un arancione inconfondibile nell'angolo della mia stanza accanto alla porta contenente pochi vestiti, quanto basta per un weekend. Ho anche un'agenda, quella che da un po' porto con me nella borsa perchè talvolta mi piace appuntare quello che vedo, magari troverò ispirazione stando stesa sul prato con lo sguardo alto verso il Big Ben. Ho un libro che sto leggendo nella borsa, dal titolo "La simmetria dei desideri", di un autore israeliano, un altro sulla scrivania che comincerò quando finirò il primo, dal titolo "La ragazza dello Sputnik" dello scrittore giapponese Murakami Haruki, uno dei miei scrittori preferiti. L'ho acquistato giorni fa ed ero indecisa, ma mi è bastato leggere i primi righi della recensione per sceglierlo: "Sumire è una ragazza impulsiva, disordinata, generosa, con il mito di Kerouac e della scrittura. Myu è una donna matura, sposata, molto ricca e molto bella. Sumire ama Myu come non ha mai amato nessun ragazzo e Myu parrebbe provare lo stesso sentimento, ma uno schermo invisibile sembra separarla dal sesso e forse dal mondo. Riusciranno ad incontrarsi o si perderanno senza lasciare traccia come lo Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre?" Lo prendo. E chi mi conosce ha subito capito perchè. Perchè parla di una particolare quanto attuale e reale forma d'amore che non appartiene alla mia persona ma la verità è che a me basta che si parli di amore e trovo tutto molto affascinante. Mi sono rivista forse in Sumire quando la si definisce "impulsiva, disordinata, generosa, con il mito della scrittura". Ho anche io il timore di non lasciare alcuna traccia. Ho immaginato uno stralcio di vita alla lettura della domanda finale, paragonando un po' di me stessa allo Sputnik. Non pensavo al momento dell'acquisto che questo interrogativo fosse in parte anche la trama dei prossimi tre giorni a Londra, non pensavo di venire a conoscenza delle solite verità scomode che anzitutto feriscono il mio orgoglio di donna così presto, così vicino ad una partenza che fino a ieri mi rendeva entusiasta, oggi quell'entusiasmo si sposa con un po' di paura e un sottile velo di rammarico. Forse deciderò di prendere una tazza thea in un qualche caffè del centro, vi entrerò trafelata mentre tento di chiudere l'ombrello o forse ci sarà un inaspettato splendido sole. Forse mi aspetterà al tavolino o forse dovrò io aspettare lui. Forse saremo imbarazzati perchè è passato tanto tempo per lui, per me è come se ci fossimo salutati solo l'altro ieri. Forse cominceremo a parlare a vanvera senza toccare l'argomento, cominceremo a sorseggiare il nostro thea solo quando si sarà raffreddato ed una volta finito ci saluteremo e andremo via, di nuovo, ognuno per la sua strada. O probabilmente ci sputeremo in faccia le nostre verità sin da subito, non potendo sbattere porte cominceremo ad inveire l'uno contro l'altro, ma alla fine il risultato sarà sempre lo stesso. Ci saluteremo, e andremo via, per le nostre strade diverse nonostante il mio tentativo di cogliere una qualche minuziosa similitudine in un quadro che nulla più in fondo racconta, io seguirò la mia dai contorni indefiniti, lui andrà da lei. Non so quanto senso abbia tutto questo. Non c'è amore, passione, orgoglio, sembra non esserci niente se non l'amarezza dei ricordi, se non il desiderio ancora una volta di andare a fondo e risalire, come in fondo sempre mi accade, se non il desiderio di affrontare paure, esprimere opinioni, vedermi gettare in volto verità che forse nemmeno mi interessano ma le esigo, alzandomi poi come una donna fiera, svoltando l'angolo con una triste lucidità degli occhi che ancora una volta non troverà colpevoli, ancora una volta non sarà per nessuno ma semplicemente per ciò che avrei potuto avere in quella vita a me troppo distante, oramai lontana, passata, irraggiungibile, che in fondo non mi è mai appartenuta pienamente.
O forse faremo esattamente come lo Sputnik: vagheremo senza mai incontrarci.
Il vagare è un po' il motore della mia vita, ma anche l'amore lo è. E' questo il più grande paradosso, perchè vorrei tanto piantare radici vagando, ma è come pensare di far fiorire boccioli senza mai innaffiarli: una contraddizione in termini. Ma io questa vita in fondo l'ho scelta perchè mi rende viva, e c'è sempre un prezzo, a volte parecchio costoso, perchè la vita non fa sconti nè regala alcunché. Ma oggi c'è un trolley di un colore vivace nell'angolo, un'agenda con pagine da riempire nella mia borsa, un libro da leggere che attende di essere ultimato nella borsa ed un'altro da iniziare sulla scrivania, il primo un inguaribile manifesto sul tema dell'amicizia, il secondo su di una particolare forma di amore, quasi come se quest'ultimo non volessi portarlo con me, non per mia scelta, ma credo sia giusto che attenda sulla scrivania il suo tempo che talvolta ho come il timore che possa non arrivare mai, ma lo lascio qui perchè il mio cuore non venga dato in pasto al migliore offerente, perchè sia sempre io quella che dovrà scegliere a chi donarlo, passeggiando sulla mia strada. Allora oggi scelgo di essere un trolley non troppo pieno ma di un inconfondibile e vivace colore arancione, pagine di un libro che dovrò terminare, pagine di un'agenda quasi nuova che desidero riempire, lasciando che sia, come le note di una delle mie canzoni preferite. Perchè sono quella che in fondo porto sempre con me ed è importante che me ne ricordi, di tanto in tanto.
Non ho ancora letto il libro che è sulla mia scrivania, ma in fondo da inguaribile romantica spero che Samire e Myu riescano a ricongiungersi ed amarsi, nonostante il loro incessante vagare, lo spero nonostante in fondo credo che anime come loro siano destinate ad un'unica fine, una fine che per molti potrebbe apparire triste ed insoddisfacente, ma in fondo è solo il prezzo da pagare per chi sceglie di non fermarsi al corridoio della propria casa, ma sperimentare sempre nuove e diverse strade, nonostante spesso i loro passi ritorneranno a calpestare lo stesso ruvido asfalto della propria unica e sola strada: quella dello Sputnik. 
Vi aggiornerò sull'epilogo quando terminerò la mia lettura.

mercoledì 2 gennaio 2013

Preda dell'inevitabilità.

Eccomi qua, ancora una volta, con un sorriso ironico, tipico di chi deve mostrare una certa maturità che la faccia sentire più donna, mettendo ancora una volta in secondo piano l'esserci rimasta male per qualcosa che in fondo è indefinito. Eccomi qua ancora una volta, preda dell'inevitabilità, delle sue mille contraddizioni, del suo esprimersi a singhiozzo, preda dell'aver creduto in qualcosa di inesistente, preda dei suoi mille ripensamenti, della fiducia che spesso ripone nei rapporti che talvolta la tradiscono, preda dei non so dei ma e dei può darsi, preda dei ricordi, del pensiero inopportuno che tutto possa essere eterno senza mai mutare, preda delle sue tante fantasie che non hanno forma, preda delle distanze che inevitabilmente assottigliano e rimuovono, preda di chi ha l'esigenza di uscirne pulito volendo sporcarti per il semplice fatto che la tua mente si sia spostata troppo in là, verso un'isola che non c'era e non c'è mai stata, preda delle giustificazioni, preda del dovere di comprendere sempre l'altro senza che nessuno si sporga a comprendere anche te, preda di quel dovere morale di capire la naturalità degli eventi che in fondo considero i peggiori, dove nessuno è pulito ma nemmeno sporco, dove sembra che tutti abbiano colpe ma in realtà nessuno è colpevole, preda in fondo del tempo che lava asciuga e ripulisce, quel tempo che è maledetto perchè ti lascia sbigottito ed impotente, senza parole, puntando soltanto il dito contro di te, te che sei stata preda di qualcosa di cui in fondo conoscevi già l'epilogo ma che temevi arrivasse. Allora il tuo sentirti ferita non ha colpevoli, se non forse un po' te stessa, la tua ostinazione, la tua mancata predisposizione a voler circoscrivere qualcosa che doveva avere semplicemente il titolo "Lì ed allora", a cui invece hai dato l'etichetta "Lì ma anche un po' qui, allora ma anche oggi", aggrappandoti ai ricordi che riaffioravano e che speravi potessi ancora vivere, aggrappandoti a persone che contrariamente a te hanno continuato sulla loro strada, ed il loro non fermarsi ha portato alla logica conseguenza della "sostituzione", evento naturale e comprensibile, che non da però merito al tuo stato d'animo, alla domanda che spesso poni a te stessa: "Ma allora io alle persone cosa sono in grado di trasmettere per essere sostituita così presto?" Una domanda che non trova risposte, e che in effetti non dovrei nemmeno pormi perchè è priva di senso, perchè in fondo è normale, è logico, è naturale, si tratta di conseguenze. Quelle conseguenze che spesso conosco sin dall'inizio ma è come se provassi la masochistica voglia di sentirmele scaraventare in faccia, in modi non sempre pienamente condivisibili, come se pur conoscendo i probabili risultati ci voglia comunque provare, come se provassi a moltiplicare il due per il due sperando in un risultato diverso dal quattro. Soltanto dopo essere piombata nelle aspettate conseguenze rimetto la prima e riparto, è come se non volessi mai evitarle. Ma poi mi fermo e mi chiedo il perchè. Poi mi fermo e mi chiedo "Io dove vado a finire, ma soprattutto, le parole degli altri perchè continuo ostinatamente ad ascoltarle e soprattutto a crederci?" Alla fine forse anche il fatto che certi gesti, certe parole, certe persone vengano trascinate dalla forza del vento, anche questo fa parte del gioco, anche questo è un evento naturale dove il tuo restarci male trova uno spazio residuale, ove il tuo cuore deve continuare a battere senza far troppo rumore. Alla fine credo di esser troppo spesso preda anche della mia eccessiva rigida stupida coerenza.

Le persone: la più bella delle invenzioni.

Comincia un nuovo anno. Comincia ancora una volta senza di te. 
Comincia con un cielo nuvoloso e schizzi di pioggia che bagnano i vetri, iniziando così, proprio come è terminato. Un anno in cui dovrò solo ricordare senza mai più sentire il suono della tua voce, quella con cui mi chiamavi "Avvocato" ed io puntualmente ti rispondevo che quella non era l'ambizione della mia vita e allora tu mi chiedevi: "Allora cosa vuoi fare?Vuoi diventare un notaio, un magistrato oppure una giornalista?Cosa vuoi fare? Tu devi diventare qualcuno di importante, qualcuno che valga la pena ricordare, tu sei brava, ce la puoi fare!"
Era come se quelle parole, pur essendo apparentemente pesanti, non mi facessero mai sentire in dovere, ma mi allietavano, mi riscaldavano, mi ricordavano quanto potenzialmente potessi valere, che c'era qualcuno che non solo credeva in me ma me lo diceva, ogni volta che i nostri occhi si incrociavano mi inondava di una serie di domande e quando non davo risposte esaustive me ne rivolgeva ancora altre, mai per pura e sterile curiosità, ma per quell'indiscutibile scambio d'affetto che si instaurava, per il desiderio di instradarmi, di conoscere in fondo la mia vita. Quanto mi manca quel "brava" e il modo di pronunciare la parola "importante", scandendo lentamente le vocali, quasi come se tentasse di farmele entrare dentro, silenziosamente, gradatamente, in un cuore che all'ascolto di quelle frasi di dilatava, batteva ancora più forte.
Mancanze che anche quest'anno dovrò portarmi dietro, che si cerca di attutire confidando nell'inesorabilità del tempo che lava ogni cosa. Ma la verità è che sebbene questo tempo lavi, c'è sempre un alone che resta, che non va via, come quelle mancanze a cui necessariamente dovrai abituarti, che da vortici il tempo muterà in vuoti sempre più piccoli, che non si annulleranno mai del tutto ma che in certi momenti avvertirai addirittura più bui e profondi del solito. Perchè in fondo ti adatterai, ed adattarsi non appaga mai completamente. Ed è anche assurdo dire che le persone vanno via con il loro corpo ma ti resteranno accanto con il loro spirito, perchè in certe giornate sarà proprio la presenza carnale, il toccarsi, il parlarsi a mancare come l'aria che sarai costretta a respirare nonostante sia rarefatta. Le persone, il regalo più bello che la vita possa donare, l'invenzione più congeniale ed intramontabile, quelle persone che con la loro presenza fanno sentire il tuo cuore più grande e più caldo, ma che andando via ti lasciano spento, freddo, come se un pezzo del tuo cuore fosse andato via insieme a loro. Ed è per questo che ci si ripromette di non affezionarsi mai troppo alle persone, di mantenerci sempre in un equilibrio precario, in un'equidistanza strategica tra noi e loro per non entrare mai troppo nell'altro, perchè così crederemo di mantenere la nostra integrità, così quando i loro corpi si allontaneranno non avvertiremo mancanze. Ma forse quella mancanza non riusciremo a percepirla perchè in fondo non avremo mai avuto presenze, in fondo il nostro cuore non è mai stato grande nè caldo abbastanza, perchè quell'incredibile scambio tra le persone, l'unico in grado di riscaldare, non l'avremo in fondo mai conosciuto. Allora dovremo decidere tra una vita in cui ci rassegniamo ad essere ciechi, muti, sordi, freddi e spenti, una vita in cui non entreremo mai troppo nell'altro restando sempre sul nostro piedistallo in un'insoddisfacente incompletezza d'animo, senza mai vivere abbastanza, senza mai sperimentare la condivisione di emozioni che la vita ci dona ogni giorno rendendole speciali talvolta per il semplice fatto di poter stringere la mano di qualcuno e proseguire lungo il nostro tragitto, ed una vita in cui troveremo invece il coraggio di aprire gli occhi, di ascoltare, di esprimerci, di sbaragliare i confini dell'equidistanza e arrivare in fondo all'anima dell'altro, avvertendo una mancanza insostenibile a fronte di un loro allontanamento, ma solo perchè quelle persone quando hanno scelto di restarti accanto con la loro presenza hanno reso più calda, emozionante, piacevole la tua vita, ti hanno reso più caldo accendendo un fuoco in grado di riscaldare chi ti era attorno solo perchè in fondo eri tu stesso a sentir caldo, a sudare per tutto ciò che ti pullulava dentro e che non vedevi l'ora di trasmettere. Mancanze dure come blocchi di cemento, ma presenze leggere come una piuma, calde come abbracci senza un perchè, belle come arcobaleni che non credevi potessero apparire in un cielo offuscato da nuvoloni grigi come la cenere, presenze che ti ricordano quanto valga la pena prendersi cura dell'altro, mancanze che sono solo la logica conseguenza del tuo darti pienamente, del tuo vivere con intensità senza mai stancarti, mancanze che quanto più grandi e laceranti saranno più ti faranno capire quanto avrai in fondo vissuto. Abbiamo solo questa vita, allora va vissuta, con presenze roventi e mancanze laceranti, con un io che trabocca. Oppure esistere, con finte presenze e mancanze inesistenti, con un io che aleggia come fantasmi.

domenica 30 dicembre 2012

Dove tutti dicono grazie.

"Cosa ci fai a Londra?" domandai distrattamente attendendo la classica risposta vaga che invece stranamente quella volta non ebbi.
" Volevo intraprendere una nuova esperienza, diversa da un'altra passata, in una metropoli cementificata dove le persone non fanno che correre, dove avrei potuto condurre una vita smodata, avrei potuto guadagnare qualche soldo da stringere nel palmo di una mano annusandone di tanto in tanto il profumo, sin quando mi sono accorta che il mio essere così estrema in fondo mi ha sporcato al punto da avvertire ancora una volta l'esigenza di ripulirmi."
"Perchè parli in questo modo? Di che esperienza passata parli?"
"Africa. Kenya per l'esattezza. Prima di allora non credevo che un Paese come quello potesse insegnarmi quasi tutto quello che attualmente conosco sulla vita. Prima di allora non credevo esistesse un posto nel mondo che potesse rappresentare allo stesso tempo vita e morte, disperazione ed allegria, in un connubio impensabile eppure possibile. Me lo ha insegnato l'Africa, nelle sue mille contraddizioni che si annullano in un'unica sconcertante verità, l'essere umano nella sua essenza, nella sua primordialità. Giuro che un uomo così non l'avevo mai visto, perchè in Occidente, qui a Londra come al mio Paese, in questo mondo dove le mie gambe hanno ricondotto il mio corpo ma non la mia mente nè il mio cuore, io l'essere umano non l'avevo mai incontrato. Ho incrociato solo maschere che hanno stratificato l'anima, in nome di un'apparenza da salvare a tutti i costi, sino a farci dimenticare chi siamo, da dove veniamo, cosa cerchiamo. Ma l'Africa è anche un'arma a doppio taglio, almeno per me ha rappresentato questo. Il mio corpo balzava dal letto ogni mattina, da sola, credendo di potercela fare, ma quando calava la notte avrei voluto altre dieci, cento, mille di me stessa perchè non era mai abbastanza. Ci sono state nottate in cui non riuscivo a prender sonno per un senso di colpa che mi ero cucita addosso, che quasi avrei vomitato per la sua cospicua consistenza, credendo che il mio corpo sempre più magro non sarebbe riuscito a contenerlo. Non so se sai cosa significa scappare per un senso di colpa che non esiste, che ti rende impotente, ma che nonostante tutto senti che un po' in fondo ti appartiene. " 
Ebbi soltanto il coraggio di sussurrare " So forse cosa intendi, pur non avendo vissuto la tua stessa esperienza", poi completamente immersa nei fiumi delle sue parole lasciai che continuasse il suo racconto.
" Allora sono scappata. Sono prima tornata a casa poi non avendo un titolo di studio adeguato sono venuta qui in cerca di fortuna. Sono fuggita da un senso di colpa che solo adesso, col tempo, ho capito quanto fosse fittizio, solo ora capisco che forse non sono mai tornata, ma credo di essere rimasta lì, seduta in un angolo della baracca ad ascoltare storie, ad osservare volti che parlano di un mondo che non immaginavo, talvolta penso ancora di camminare lungo strade che di una strada non hanno nulla, eppure ti guidano, perchè è la terra che sembra muovere i tuoi passi come ad invitarti a scoprire, a sapere. Percorsi tratteggiati di immondizia e calpestati da scarpe rotte e tanti, troppi piedi nudi, mentre il sudore scivola sui corpi ed il dolore ti imbarazza per la sua cruda dignità, dove fa da cornice un cielo che sembra avvolgerti, così vicino da poterlo toccare, ove le stelle sembrano restare lì in attesa di essere afferrate, quasi come se la natura avesse scelto di guardare a questo mondo, a questa gente da una posizione ravvicinata, quasi a volerli abbracciare tutti nella loro miseria, nella loro precarietà. 
Dopo questa esperienza mi sono lanciata in quest'altra, totalmente opposta. Ho creduto mi piacesse, ma spesso quando sono seduta in autobus guardo fuori dal finestrino e mi accorgo che quel Paese ha cambiato i miei occhi, a tal punto da immaginare l'Africa con i suoi paesaggi incontaminati ovunque mi trovi, al punto da pensare che è proprio lì, in quel Paese bistrattato e disgraziato, in quel Paese dove trovi occhi riconoscenti del nulla, dove talvolta dovevo indossare vestiti sporchi e spiegazzati per l'ansia di far presto, di risolvere tante situazioni, dove il dolore è oramai routine, è proprio lì che ho toccato l'apice della felicità, perchè nel dare tutta me stessa all'altro riempivo gradatamente anche me stessa, non mi sono mai sentita così impotente ma mai così piena. Qui invece mi accorgo di aver sporcato il mio spirito per l'esigenza di dover sperimentare qualcosa che in fondo mi sono imposta semplicemente per dimenticare i ventri gonfi, i volti straziati, una sofferenza che portata così dignitosamente non avevo mai visto. Mi volevo sporcare e ci sono riuscita. Ma tra un po' penso di ripartire, perchè ogni volta che mi sporco sento poi l'esigenza di ripulirmi, e nella mia Africa non mi sono mai sentita sporca, nonostante i cattivi odori, nonostante il sudore che grondava dalla mia fronte, mai, nemmeno un istante. Volevo dimenticare ma oramai fa parte di me. Volevo rimuovere il dolore che ha la forma dei ventri gonfi di centinaia di bambini denutriti, un odore acre che ti inonda le narici non appena varchi l'uscio di una baracca e che si mescola a quello delle fogne e ti rimane addosso, dentro, a ricordarti ciò che hai visto, come un invito a non dimenticare, nonostante ti farebbe comodo. Il dolore può avere un peso, quello dei bambini che ho sollevato tra le braccia, che ho stretto al mio petto e dei quali cercavo di immaginare un futuro difficile da intravedere. Può avere un colore, quello rosso della terra che alla stregua di tante madri che ho conosciuto non ha cibo per nutrire i figli partoriti, nè più lacrime da versare per dissetarli. E poi a fare da contrappeso a tutto questo c'è una gioia che scoppia all'improvviso, per nulla. Un'allegria che contagia per la sua semplicità. L'Africa ti insegna il piacere per le piccole cose, minuscole, insignificanti, che sono in grado di strappare ad un adulto o ad un bambino il sorriso più radioso in cui tu ti sia mai imbattuto. Lì dicono tutti sempre "grazie", come spesso fai tu, ecco perchè credo che l'Africa entrerebbe dentro anche te. All'inizio quel grazie mi innervosiva. Pensavo tra me e me perchè mai dovessero ringraziare non avendo un bel niente, poi ho capito che lì, dicono grazie per la vita, per un cuore che batte seppure a fatica, per l'ossigeno contaminato dai cattivi odori che nonostante tutto alberga nei loro polmoni, perchè lì, non hanno niente ma pensano che quel niente sia tutto ciò che basti per ringraziare di essere ancora vivi. Un modo di fare che da noi si è perso, offuscati da uno sterile materialismo che ha poco a che vedere con la vita vera. Ecco perchè credo di tornare. Tornare a ripulirmi, alla vita vera, quella vita che dimentichiamo di possedere ma che esiste. Non pensavo di averne il coraggio prima di partire, ma questa esperienza ha cambiato la mia mente, i miei occhi, il mio cuore, me stessa. Pensavo di non essere pronta ed in effetti non lo ero, non si è mai pronti quando si è così giovani ad affrontare la vita nella sua cruda realtà, ma poi ti ci abitui, diventi più forte, e capirai di non riuscire più a farne a meno, capirai che il tuo viaggio sarà a tua insaputa di sola andata. "
Rimasi nel silenzio di quella stanza ad ascoltare il suo racconto non so per quanto tempo. Non riuscii a risponderle in modo appropriato tanta la passione che mi aveva trasmesso nel suo minuzioso e dettagliato racconto. Pensai soltanto che anche dietro un'apparenza frivola a tratti si nasconde una storia, perchè in fondo ognuno ne possiede una. Basta solo rendersi piccoli ogni tanto e stare in silenzio ad ascoltare stralci di vita che era quasi come se avessi vissuto anch'io in prima persona, quasi come se attraverso il suo racconto mi fossi "ripulita", come sempre diceva, anche io, mentre ad occhi aperti sognavo quel posto nel mondo in cui c'è vita nella morte e morte in una vita, in cui si sperimenta quell'equilibrio sinallagmatico, quel dare ed avere avendo solo se stessi a disposizione.

venerdì 28 dicembre 2012

Siamo come cerniere lampo.

Staccarsi da qualcuno è come quando non riesci più a chiudere il tuo maglione per la rottura della cerniera lampo che sembra scorrere in un'unica direzione. Sembri allora trasandato, il freddo si insinua sin nelle ossa irrigidendoti i muscoli, ma quel maglione continui ad indossarlo, perchè ti piace, è il tuo preferito, perchè nonostante si sia rotto non puoi fare a meno di indossarlo nonostante ti dia un tono malandato. Quando penso a due persone che sanno stare insieme in una sinergia simbiotica quasi imbarazzante, quelli che si riconoscono tra la folla per il loro modo di guardarsi attraverso timidi ma profondi sguardi, per il loro modo di capirsi accennando un lieve sorriso, penso ad una cerniera lampo che riesce a congiungere due opposti lembi, sino a combaciare perfettamente divenendo una cosa sola in grado di renderti a tratti più ordinato, al sicuro, al caldo. Quei gancetti metallici scorrono lentamente o con rapidità, ma sempre insieme, si apriranno o si chiuderanno in una perfetta sincronia. La loro direzione sarà la medesima e sarà bello vederli perchè non se ne renderanno nemmeno conto, come se fosse per loro quasi scontato muoversi nella stessa direzione, come se uno dovesse necessariamente aspettare l'altro perchè da solo non avrebbe alcuna utilità, perchè nel caso accadesse significherebbe che la cerniera lampo si è rotta. Track. Sì si è rotta. Cercheremo mille modi per ripararla ma nei momenti meno indicati nel chiudere il nostro maglione ci accorgeremo che la cerniera non è stata correttamente riparata, allora volendo chiudere il maglione ogni tanto invece si aprirà, i lembi non riusciranno più a combaciare, la sinergia si è persa, il maglione è in fondo da gettare. Ma a noi quel maglione piace troppo, allora proveremo ad indossarlo comunque, lo indosseremo senza provare a chiuderlo, lasciando che i due lembi siano in fondo sempre vicini senza mai più toccarsi, senza mai più scorrere insieme nella medesima direzione, nonostante tutto oltremodo distanti. Non riusciremo a sbarazzarcene, allora permetteremo al freddo di insinuarsi nelle ossa, di irrigidirci la muscolatura, sembreremo poco ordinati ma l'importante per noi sarà semplicemente indossarlo. Sbarazzarsi di qualcosa o qualcuno che per noi è stato importante, che ha costituito un pezzo della nostra vita, rendendolo magico, unico, sperando a tratti in una sua intramontabilità è umano, per questo è doloroso, a volte straziante. E' da uomini, molto più spesso da donne e forse è quello che la vita ci vuol far essere. E' umano anche provare a riparare una cerniera lampo che all'apparenza potrebbe sembrare inutilizzabile, perchè trovo abbia una profonda dignità prendersi cura di ciò che ci sta a cuore, non lasciare che l'orgoglio ci annebbi e ci disintegri, cercare di rimettere insieme dei cocci che hanno costituito parte della nostra vita senza andar via lasciandoli sul freddo asfalto. Ma è ancor più umano perchè appartiene a chi è vero uomo o vera donna capire il momento in cui è giusto andar via perchè non c'è più spazio, perchè riparare la cerniera lampo porterebbe solo ad un inutile dispendio di energie, rendendoci soltanto stanchi, malandati, poco presenti in noi stessi e troppo in chi in effetti non ci ama più, in chi ha scelto di seguire una direzione diversa, chi in quella sinergia ci ha creduto sino ad un certo punto per poi smettere di cercarla. Potremmo indossare ancora quel maglione ogni volta che ci va, nella vita reale, come nei sogni o nei ricordi ad occhi aperti, ma ogni volta si rischia di perdere un pezzo di umanità, un pezzo del nostro essere uomini o donne, e non perchè dovremmo dimostrare al mondo di esser forti perchè in fondo non c'è bisogno di ostentare il superfluo, è umano anche mostrarsi deboli, tristi, straziati per un amore perduto, ma perchè indossare un maglione vecchio, la cui cerniera lampo è oramai irreparabile, ci conduce al buio, nell'ombra di noi stessi, non permettendoci di brillare e di capire che attorno c'è tanto altro che attende solo un nostro passo, rischiando talvolta di perdere sinergie ancor più profonde di quelle che ci ostiniamo affannosamente a riparare. Spesso riusciremo ad accalorarci molto di più non indossando il maglione che quando l'avremo indossato senza riuscire a chiuderlo. Perchè noi siamo i soli in grado di trasmetterci calore, mai ad intermittenza, ma costantemente, nonostante spesso lo dimentichiamo colmando i nostri spazi di sagome destinate spesso a divenire fredde presenze. Ma noi necessitiamo di sinergie autentiche, di calore, di sagome più spiriti in grado di correre nella nostra stessa direzione. O forse semplicemente di un po' più di umanità.