venerdì 16 novembre 2012

Una metropolitana. Tante vite.

Un uomo sulla cinquantina. Una ragazza presumibilmente ventenne. Una donna anziana. Un ragazzo di colore con un borsone contenente merce di poco valore da vendere per sopravvivere.
Una metropolitana, uno dei massimi centri di aggregazione sociale, che vede ogni giorno e a qualsiasi ora entrare ed uscire persone dai vagoni, ciascuno con una propria storia da raccontare. Tante vite che si riuniscono in un piccolo spazio chiuso, per pochi minuti o un'intera tratta.
Un uomo sulla cinquantina intento a leggere il suo libro. Una ragazza presumibilmente ventenne che tenta sbuffando di sfogliare il manuale del suo prossimo esame. Una donna anziana con lo sguardo di chi torna dall'ennesimo accertamento ospedaliero ed intanto pensa a ciò che dovrà cucinare per il pranzo, per la cena ed anche per il giorno successivo, come fanno generalmente tutte le donne di una certa età. Un ragazzo di colore con gli occhi tristi che custodisce gelosamente un borsone contenente oggetti inutili e di scarso valore, ma che è la fonte della sua sussistenza. Successivamente entra una donna dalla folta capigliatura e dalla carnagione scura, indossando una camicia ed una minigonna che risalta le sue curve sinuose. Il volto totalmente plastificato, tipico di quelle donne che restano ancorate ad un tempo che però inesorabilmente scorre. Quelle donne che diventano di plastica perchè fanno fatica ad accettare che intanto la vita scorre, le rughe si moltiplicano e loro magari non avranno fatto niente di quello che sognavano in gioventù. Donne di plastica che saranno finte, che inganneranno gli occhi degli altri tranne di quelli più esperti, ma di certo non inganneranno il tempo. Quelle rughe potranno essere rimosse dal viso, ma dall'anima no, con quelle dovranno farci sempre i conti. 
Una donna ad ogni modo curata e dal bell'aspetto al punto da destare l'attenzione di tutti. In particolar modo dell'anziana donna che sarà stata invidiosa delle sue gambe e dell'uomo sulla cinquantina che tra una pagina e l'altra del suo libro alzava lo sguardo che inevitabilmente cadeva sulle gambe ed il fondoschiena della donna.
Quell'uomo di colore sedutomi accanto osservava il mio pacchetto appena comprato di Fruittella, che maneggiavo nervosamente mentre intanto tentavo nell'eroica impresa di sciogliere il groviglio di pensieri che porto sempre con me come chi porta a passeggio il suo cane. Fissa così tanto il pacchetto che scartatane una decido di offrirgliene una per poi regalargli l'intero pacchetto. Perchè quel pacchetto di Fruittella sarà stato anche un anti-stress per me, un modo dolce per digerire i pensieri, ma per quell'uomo dagli occhi tristi sarà stato un modo per capire che in fondo non è solo un mendicante, ma un uomo normale a cui gli si può offrire una caramella o più di una. Quegli occhi non erano meno tristi, ma sicuramente riconoscenti. Perchè il punto è che se facessimo anche solo un gesto al giorno di "solidarietà" verso un'altra persona, saremo tutti più felici. Perchè non è solo il cuore dell'altro a riempirsi di riconoscenza, ma anche il nostro. Ma purtroppo la nostra noncuranza verso chi ci è accanto e l'esagerata avidità ci rende protagonisti o spettatori di gesti impietosi, oltremodo imbarazzanti, come la sfrontatezza di una donna sulla quarantina che occupa un posto sul vagone per la nipote ventenne impedendo ad un signore anziano munito di bastone di sedersi, quasi come a dimostrare che l'educazione si è probabilmente fermata ai nostri nonni, e che se noi giovani difettiamo di educazione, di senso di solidarietà e rispetto è forse perchè abbiamo avuto pessimi insegnanti e pochi buoni esempi o addirittura nessuno. Se fossimo in grado di fare un buon gesto verso anche una sola persona ogni giorno, regaleremmo un sorriso a qualcuno e anche a noi stessi. Invece accecati dal menefreghismo spesso siamo in grado di offrire solo una lacrima. Una lacrima che potrà anche non solcare necessariamente il viso. Effettivamente quell'anziano con il bastone non l'ho visto piangere, ma ho immaginato che fosse il suo cuore a versare lacrime.
Una metropolitana in cui ascolti racconti di ogni tipo o semplicemente immagini pensieri. Non è stato difficile immaginare il pensiero di quell'uomo sulla cinquantina alla vista di quella donna dal viso plastificato, a lui sconosciuto perchè in effetti era di spalle e forse ha preferito immaginarla così.
Un groviglio di vite assuefatte o esageratamente stimolanti. Vite regolari o particolarmente folli. Vite felici o vite tristi. La metropolitana è il rumore o il silenzio di tutte queste vite, di parole raccontate, di pensieri immaginati tra il cigolio delle rotaie che ricorda che il vagone ci aspetta.

mercoledì 14 novembre 2012

Tu sei esattamente dietro la paura.

Viviamo di due chiacchiere davanti ad un caffè e di quattro passi.
Viviamo di se e ma, di magari, di forse, di non so.
Viviamo di approssimazioni perchè il definirci ci fa paura. 
Allora preferiamo due chiacchiere e quattro passi davanti ad un caffè di un bar del centro o di periferia perchè quello è l'unico modo che conosciamo per approcciarci a qualcuno. E' un modo che sterilizza un equilibrio precario che non comporta alcun rischio, perchè potremmo dire in ogni momento che in fondo era solo un caffè, si trattava solo di due chiacchiere e quattro passi. Siamo in qualcosa da cui potremmo uscire in ogni momento e senza troppe complicazioni, perchè siamo dentro ma non fino in fondo.
Abbiamo timore di raccontare certezze, a noi quanto agli altri. Allora riempiamo le frasi di ma, di se, di forse e può darsi e alla domanda di qualcheduno che avrà capito che il nostro è un vano tentativo di nascondere verità che fingiamo non esistano rispondiamo "Non so". 
Approssimiamo qualsiasi cosa. Approssimiamo un impegno importante, un dolce appuntamento, intere relazioni. Intere relazioni vissute approssimativamente fra se, ma, magari, può darsi e non so. Relazioni così approssimative che finiscono per donarci poco eppure quando finiscono saremo delusi. Una delusione che scaturirà più che dalla rottura, forse proprio dall'avere un'idea approssimativa dell'altro che finisce per proiettarsi su di noi. Approssimiamo anche noi stessi. Non siamo mai in grado di dare risposte esaustive, di restare in silenzio per qualche minuto ad ascoltarci, ad assaporare la profondità di quelle verità che fingiamo di non conoscere ma che in realtà pullulano dentro di noi come fossero urla che rimbombando in delle fitte caverne generano echi dall'insolita intensità. Non siamo mai in grado di mandare all'aria le due chiacchiere e i quattro passi e decidere di farne qualcuno in più se è quello che sentiamo veramente. Non siamo in grado di definirci per paura di rischiare tuffi nel vuoto che possano scaraventarci sull'asfalto. Non siamo in grado di non ragionare per approssimazioni, perchè forse l'esperienza ci ricorda che quando abbiamo rischiato tutto in un lavoro, in un'amicizia, in un passo giudicato importante, in un amore che credevamo eterno, tutto è stato considerato da altri approssimativo. Allora forse abbiamo cominciato a farlo anche noi. Abbiamo cominciato ad essere gli unici conoscitori del nostro stato, dei nostri pensieri ed anche delle nostre passioni. Abbiamo imparato a rispondere alla domanda "come stai" semplicemente con un "tutto bene, grazie", nonostante talvolta in quel tutto ci sia niente, in quel bene ci sia male, in quel grazie ci sia "a nessuno importa". Ma l'interlocutore spesso se lo farà bastare. Spesso sarà uno come tanti che vive di approssimazioni. Allora ad un disinteressato ciao, come stai, non può che aspettarsi un disimpegnato tutto bene grazie, perchè in fondo sebbene vorresti urlargli la verità probabilmente non riuscirebbe a comprenderla.
Ma vivere di approssimazioni ci rende piccoli pezzi che spesso non riusciranno a coordinarsi. Ci rende asettici ed indefiniti. Quindi forse prima di continuare a vivere nell'approssimazione di noi e dell'altro, tra sogni e passioni che restano muti, tra le due chiacchiere ed i quattro passi che racconteranno di un numero indecifrato di se, ma, magari e può darsi, dovremmo fermarci e capire cosa rischieremo nel definirci troppo. La verità è che l'unico rischio è di apparire completamente noi stessi, con la nostra fragile nudità che ci imbarazzerà, che ci renderà più esposti al rischio di delusioni forse, ma quella fragilità così nuda e così umana sarà vera, e quel rischio potrebbe condurci tanto ad una delusione quanto invece ad una vittoria. Se non ci mettiamo in discussione, se non diamo aria ai nostri pensieri, se non facciamo scoppiare il nostro cuore come palloncini, non lo sapremo mai. E rimarremmo lì, in quel bar del centro a fare quattro chiacchiere, a fingere di star bene nonostante il proferire di parole rigidamente programmate ma non sentite, ma perchè? Per paura. Paura di cosa? Di soffrire, di star male, di rimanere delusi? No, questo è secondario. Abbiamo paura della paura stessa. E' questo il più grande paradosso. Paura di quanta paura faccia l'essere messi nudi e fragili dinanzi al nostro essere. Ma che senso ha aver timore di qualcosa che fa parte oramai di noi e che non possiamo scacciare? Paura di amare, paura di restare in silenzio e che sia il nostro cuore a parlare a qualcuno, paura di fare progetti che temiamo siano avventati o semplicemente troppo grandi per noi. Paura di un tuffo nel vuoto. Paura di mettere in discussione una vita che ci sta stretta. Paura di capovolgere i piani e ricominciare da capo. Paura. Ma tu dove sei? Tu sei esattamente dietro la paura. Perchè sebbene la paura ti si anteporrà fingendo che tutto quello che temi non esista, in realtà sarà sempre con te, come cartoni sigillati messi in un angolo ad aspettare. Ed in questo conflitto tra ciò che c'è in quei cartoni e ciò che ti impedisce di aprirli prima o poi dovrai decidere sul da farsi, cosa vuoi scacciare. Ma il punto è che quello che hai depositato in quei cartoni sigillati non potrà mai essere scacciato, sebbene te ne convincerai, quei cartoni saranno sempre lì a reclamare la loro apertura. Ma la paura sì, quella la si può scacciare. Allora vinta la paura, scaraventata sull'asfalto, pestata per far sì che non possa più prendere il sopravvento, ci sarai tu con il tuo amore, il tuo cuore che batte, i tuoi grandi progetti, la tua incantevole passione.
Scacciata la perfida nemica rimani tu. Dopo di che, vola!

martedì 13 novembre 2012

Tra un inizio e una fine c'è una vita.

Si dice che ciascuno abbia una sola vita.
Ognuno di noi nasce. Cresce. Da bambino diventa adolescente. Da adolescente diventa ragazzo. Da ragazzo diventa adulto sino a diventare anziano per poi spegnersi.
Ognuno di noi ha una sola vita, per questa si invita a non sprecarla.
Ma il lungo processo che dalla nascita porta alla morte io non la chiamo vita, ma esistenza.
L'esistenza è unica, le vite possono essere tante come non esserci affatto.
Viviamo ogni volta che siamo posti dinanzi ad un nuovo inizio. Un inizio che sarà come una nascita. Tutto inizia con la rottura delle acque che sarà come quel qualcosa che decideremo di rompere o che si romperà non per nostra volontà. Quel che conta è che oramai qualcosa si sarà rotto. Si rompe un legame di amicizia, un amore, un rapporto lavorativo. Si rompono gli schemi in cui ci saremo quotidianamente imprigionati. Si rompono idee, sogni spazzati via dall'alta marea, programmi che d'un tratto perderanno la loro stabilità. Anche la speranza, anche quella si rompe. Allora quando si rompe tutto questo ci sarà l'esigenza di ripartire da zero, cominciare da un punto di partenza diverso dal precedente. Dovremo iniziare una nuova vita. Dovremo rinascere. Non sarà facile. Le nascite sono belle ma dolorose, accompagnate da strilli quasi ancestrali e continue spinte. Talvolta nonostante gli sforzi faticheremo ad uscire. Ma il tutto si calmerà con la voce dell'ostetrica che dirà "E' nato". Ce l'abbiamo fatta. Siamo nati. Avremo un nuovo amico, un nuovo lavoro, un nuovo amore. Ci saremo liberati dalla routine che quotidianamente ci rendeva schiavi. Siamo finalmente anime libere che hanno riconquistato passione e speranza. Allora cavalcheremo l'onda, quell'onda che ci terrà al riparo dalle intemperie, quella stessa onda che talvolta ci farà cadere.
Ma quando cadiamo e riusciamo a ricavalcare la stessa onda che ci aveva condotto sul fondale o anche una diversa, viviamo. Anche questa rappresenta una nuova vita.
Come è vita il fallimento. Spesso capita di attribuire al fallimento un'accezione negativa, ma non è sempre così. Spesso ci sono cose o persone che ci ricordano quanto siamo stati bravi o quanto invece abbiamo fallito. Ma nel momento stesso in cui falliamo sottovalutiamo che intanto abbiamo vinto una cosa importante: una nuova vita. Perchè non è esatto dire che ad una fine seguirà un inizio, è la fine ad essere allo stesso tempo un inizio. Ma spesso non ce ne accorgiamo perchè troppo chiusi nel dolore per quella fine che speravamo non arrivasse mai. Ed invece nel frattempo, quando pensavamo di aver solo fallito, in realtà stavamo vincendo. Stavamo vincendo una nuova vita. Una delle poche o delle tante altre da includere nella nostra esistenza. Non si può conteggiare a priori quanti inizi e quante fini avremo, quante volte saremmo costretti a morire per poi rinascere. C'è chi lo fa di continuo senza accontentarsi mai. C'è chi lo fa solo se messo alle strette. C'è chi addirittura non l'ha mai fatto. Non ha mai sofferto, nè gioito abbastanza. Non ha mai avuto delusioni, fallimenti, nè appaganti vittorie. Ha vissuto passivamente ciò che per strada gli capitava come preda di eventi di cui non si è mai domandato il come ed il perchè. Esiste, ma non vive.
Allora forse la cosa importante non è quante vite riusciremo ad inserire il quel lungo processo chiamato esistenza, ma il modo in cui lo faremo. Dovremmo cercare di riempire sempre ogni spazio vuoto, di far coincidere ogni fine con un nuovo inizio. Così avremo vite, non intervallate mai da sterili esistenze. Cicli da raccontare, cicli che comporranno un pezzo di noi. 
Ed ogni ciclo, anche quello apparentemente insignificante, servirà a spiegare quello seguente.
Perchè tra un inizio e una fine si comporrà una vita.

lunedì 12 novembre 2012

Elogio a chi resta e lascia andar via.

" C'era una volta un musicista. Era pallido in volto, emaciato, longilineo, dall'aspetto trasandato. Non gli importava cosa la gente potesse dire della sua apparenza, ma gli interessava soltanto colpire per il suo talento. Suonava il violino, l'unica fonte di sollievo. Era come se il vibrare di quelle corde lo trasportasse in una dimensione irreale. D'un tratto il suo volto diveniva di un improvviso rossore. Al suono di quello strumento era come se il suo essere trasandato, uomo di strada e dal destino incerto non importasse più a nessuno. In piedi, in posizione eretta, al vibrare di quelle corde incantava chiunque si trovasse a passare, in una stazione, su un marciapiede, in un qualche angolo di strada. Quel suono era così dolce, intenso, magnetico che non poteva far altro che attrarre i passanti. Alla fine avrebbe guardato il cappello capovolto e avrebbe contato solo pochi spiccioli, o qualcosa in più. Tutto dipendeva dalla giornata. Ma a lui non importava. Interessava soltanto sentirsi come solo il suono del suo violino lo faceva sentire, anche in una fredda e piovosa giornata dove raro era il passaggio di qualcheduno che per spirito di solidarietà avrebbe onorato il suo talento con qualche misero spicciolo. Lui ed il suo violino erano una cosa sola. Quell'uomo non avrebbe mai immaginato la sua vita senza il suo violino che portava sempre con sé. Lo abbracciava durante la notte, soprattutto quelle più fredde quando l'involucro del cartone in cui si trovava a passare la notte non bastava a causa del freddo così pungente da perforargli le ossa, eppure quel violino gli emanava calore. 
Ma una mattina si svegliò e non trovò più accanto il suo violino. Lo cercò ovunque ma sembrava quasi essersi dissolto. Quel giorno il suo volto appariva ancor più pallido del solito. Quanta tristezza in quegli occhi. Quanta rabbia mista a dolore vomitò. Quel violino, l'unica fonte del suo sollievo, quel violino che lo aiutava a superare le nottate più fredde, quel violino con cui componeva le melodie più dolci e poetiche mai sentite, quel violino che era fonte del suo sostentamento, non c'era più. E mentre vomitava dolore si sentiva niente. 
Quell'uomo adesso era solo, con lo sguardo perso nel vuoto. Ma d'un tratto decise di asciugare le lacrime che scorrevano sul suo volto e con la dignità di chi sa cosa significa perdere tutto e ricominciare da capo decise di andare comunque incontro alla folla, pur essendo sprovvisto del suo strumento.
Si dice che quel giorno sia avvenuto qualcosa di straordinario. Lui che non aveva mai proferito parola se non al suo violino cominciò a recitare poesie. E si dice che ancora lo faccia racimolando qualche misero spicciolo perchè con il suono delle sue parole riesce ad attirare comunque i passanti. Quelle poesie sono come urla di dolore verso un passato che non può più tornare. Poesie intrise di una vena malinconica che racconta di un amore e di una passione che sebbene non ci possano più essere, nel cuore scalpitano e sono ancora vivi come il primo giorno. Poesie che raccontano di un uomo che nonostante tutto ha avuto voglia di ricominciare da capo non avendo niente, se non se stesso. E si dice che oggi sia ancora lì ad incantare i passanti. "

Lasciar andare è la cosa più dolorosa che un uomo possa fare. Eppure in certi momenti è chiamato a farlo. Sarà la presenza fisica a mancarci più di tutto. Talvolta ci ostiniamo a conservare le cose a cui teniamo in uno scrigno per evitare che queste si lascino trasportare dalla forza del vento, andando via da noi. Ma spesso capita che certe cose non possono essere custodite perchè scopriremo, aprendo lo scrigno, che intanto si sono seccate, mancando di quella lucentezza che le rendeva speciali ai nostri occhi. Forse se non fossimo stati così egoisti, se avessimo lasciato che quelle cose fossero trascinate dalla forza del vento, quella lucentezza non l'avrebbero persa e noi le avremmo ricordate per sempre così. Perchè era ricordarle in quel modo che le rendeva così speciali ai nostri occhi al punto da volerle preservare a tutti i costi e vomitare dolore per la loro assenza. C'è un momento in cui l'uomo deve dimostrare la sua capacità di amare. C'è un momento in cui l'uomo è chiamato ad essere tale. C'è un momento in cui non dovrai dimostrare di essere forte agli altri, ma maturo abbastanza per te stesso. C'è un momento in cui dovrai lasciar andare piangendo lacrime amare, avvertendo una mancanza che a tratti ti renderà vuoto. Non si parla di fare la cosa giusta. E' sempre ingiusta una mancanza, ingiusto il dolore che vomiteremo, ingiuste quelle lacrime che ci solcheranno il viso. Ma sarà umano. 
Allora come quel musicista ha cominciato a recitare poesie mantenendo il dolce ricordo del suo violino nel cuore, così dovremmo fare anche noi. Ricominciare dal niente per ricostruire tutto, ammettendo che quella mancanza non sparirà mai, albergherà sempre dentro di noi. Ciò che per amore, devozione, premura riusciremo a lasciare andar via resterà con noi e forse grazie alla sua lucentezza mantenuta, grazie al fatto che non si sia seccata, ritornerà. 
Sarà il tempo a dircelo. Quel tempo che apparirà come una scatola vuota all'inizio, ma che andando avanti si riempirà di risposte a quelle domande che inizialmente sembravano tormentarci come un disco rotto.
Quel tempo che attutirà la mancanza lasciandone sempre l'alone, come il violino per quell'uomo. 
Ma quel ricordo, così intenso e nitido, ci regalerà sempre un sorriso. Quel ricordo sarà come una bella nota tra tante insignificanti o addirittura stonate. E dovremmo solo ricordarci di quanto siamo stati fortunati ad ascoltare il suono di quella nota, che riesce a renderci vivi anche solo con il suo ricordo. E' questo il senso dell'eternità, forse.

sabato 10 novembre 2012

Una fotografia. Un posto nel mondo.

Questa foto non è soltanto una foto. 
Se fosse così vedremmo solo due piccioni "beccarsi" su una ringhiera. La Torre Eiffel sullo sfondo. 
Ma come tutti i prodotti di un artista, che sia un film, una danza, una canzone, un romanzo, anche una semplice fotografia, racconta qualcosa che va al di là di due piccioni che si beccano su una ringhiera parigina e la Torre Eiffel sullo sfondo. E' il trionfo di un'unione perfetta.
Racconta di quanto sia bella la semplicità di un gesto. Di quanta bellezza ci si in due corpi che si uniscono come se tutto il resto non contasse. E' come se i piccioni rappresentassero due amanti che si sono cercati a lungo per poi ritrovarsi su di un'insolita ringhiera. Racconta di due amanti a cui è bastato avvicinarsi per fermare il tempo che inesorabilmente scorre. Eppure la loro unione è così ferma, così voluta, così semplice, così genuina, che è come se il tempo si fosse fermato. Il tempo in uno scatto si è fermato.
Racconta di un piccione dalle piume bianche ed uno dalle piume più scure che nonostante la diversità si dicono con una vicinanza quasi simbiotica nonostante manchi la perfetta unione dei corpi quanto siano stati fortunati a ritrovarsi, e quanta voglia abbiano di amarsi. C'è un punto nel mondo in cui qualcuno incontra qualcun'altro e si assiste al ritrovamento di due anime perdute, diverse ma così vicine, che non potranno fare a meno di godere della loro bellezza riflessa nella luce e nello sguardo dell'altro. Esiste un posto nel mondo dove due anime perdute si incontreranno e capiranno il perchè si siano sempre sentiti persi e sbagliati per chi giungeva nella loro vita per poi andar via girando le spalle. Lo capiranno nel momento in cui si guarderanno negli occhi perchè avvertiranno una sensazione di pace e di pienezza. Allora si uniranno, in un bacio, in una carezza o in un semplice sguardo. Si beccheranno come questi due piccioni, trovandosi esattamente sotto la Torre Eiffel, nella città più romantica al mondo. Ma non l'hanno fatto apposta. Questa non è una perfezione voluta e studiata nel dettaglio. Questa perfezione è venuta così, spontaneamente. In questa foto non c'è la Torre Eiffel e lì un angolo come un minuzioso dettaglio due piccioni che si baciano, ma ci sono due piccioni che si baciano e la Torre Eiffel che fa semplicemente da cornice a quest'unione. 
C'è un posto nel mondo in cui due anime si ritroveranno in una sincronia, in una complicità quasi imbarazzante, in un'unione così perfetta da sembrare studiata. 
Quelle anime perdute sono perfette e lo sono al punto tale da rendere perfetto lo scatto, perfetta la collocazione, perfetti i colori di quella che in fondo è semplicemente una fotografia. 
C'è un posto nel mondo che aspetta l'incontro di due anime perfette. E quando queste si incontreranno si troveranno nella città più romantica al mondo, in una posizione perfetta, esattamente sotto la Torre Eiffel, pur trovandosi altrove. Perchè la perfezione è data da quei corpi che si uniscono, in maniera dolce, candida, genuina, nemmeno troppo vicini, per paura di scoprirsi troppo. Saranno sempre lì, in quel posto del mondo, in quel posto perfetto, che sarà solo una perfetta cornice a quell'unione perfetta che da sola sarebbe già bastata, che renderà solo più scenografico il ritrovamento di due anime perdute che insieme raggiungeranno la perfezione.
Lì, in quel posto nel mondo, gli orologi si fermeranno per dar tempo a due anime perdute di ritrovarsi per poi unirsi in quell'immacolata perfezione.

venerdì 9 novembre 2012

Le stazioni.

Io le stazioni le detesto. Detesto le rotaie che con il loro cigolio è quasi come se ti dicessero "Sono arrivato". Quel cigolio che ti ricorda che devi salire se non vuoi perderlo. Detesto quei tanti o pochi vagoni messi insieme come se uno non bastasse a far salire tutti. Detesto il tabellone che segna gli unici orari in cui puoi partire. Come se avessi sempre delle scadenze da rispettare che riducono la tua libertà di agire.
Detesto quando il treno fa ritardo. E' come quando stai aspettando qualcosa da tanto, troppo tempo, e sei impaziente. Non ce la fai più a sostenere questa lunga attesa.
Detesto quelle lunghe attese alle stazioni, tra la folla che si lamenta, ascoltando le voci di chi lamentandosi dell'inefficienza del servizio non opta mai per un mezzo alternativo.
Detesto quelle corse per salire su un treno in partenza. E' come se dovessi sempre correre, gareggiare con qualcun'altro per ottenere ciò che vuoi, senza mai darti il tempo necessario per capire se veramente ti va di salire sul treno diretto a Roma, o preferisci andare a Torino.
Detesto quando le porte ti si chiudono in faccia una volta che sei arrivata ad un passo dal salire sul vagone, con il fiatone, con il cuore che oramai ti è arrivato in gola. Come quando la vita ti chiude le porte in faccia nonostante gli sforzi profusi e tu non puoi far niente per fare in modo che questo non accada, se non rimboccarti le maniche e sperare in tempi migliori, recitando in mente quel famoso detto che ti dice sempre tua madre "Ogni impedimento è giovamento". Lo fai per dovere verso te stessa, nonostante gli occhi lucidi e l'anima che si svuoterà in un sol colpo alla chiusura di quelle porte.
Detesto aspettare il treno successivo. Non sai mai quando arriverà e potresti rischiare di dormire addirittura in stazione.
Detesto i treni in partenza, anche quelli che arrivano. C'è un ricambio di gente che sale e scende da quei vagoni, persone che saranno come numeri, senza volti, senza un nome, che tu per la fretta non ricorderai, perchè tutti salgono e scendono dai vagoni velocemente, strusciando le loro spalle con le tue senza nemmeno guardarti in faccia e chiederti scusa. Come quando le persone decidono di entrare nella tua vita velocemente e con la stessa rapidità decidono di uscirci, come quando se ne vanno girandoti le spalle e dopo qualche tempo avrai difficoltà a ricordare persino il loro volto.
Le stazioni sono tristi.
Le stazioni vedono gente andare via e non tornare più indietro.
Le stazioni vedono gente salutarsi e proseguire su due diversi binari, paralleli, che non si incontreranno mai.
Le stazioni possono essere il peggior centro degli addii.
Ti piazzano il Mc Donald's, Spizzico, negozietti vari in cui poter acquistare souvenir del posto solo per distoglierti dai pensieri. Ti farai un giro tra i negozi nell'attesa, mangerai un panino ipercalorico, oblitererai il tuo biglietto e salirai su quel treno. Salirai su quel treno che ti porterà altrove. Ti condurrà a casa o in un altro posto. Non penserai che intanto stai dicendo addio ad un'altra parte di te.
Ci penserai solo quando avrai sistemato il bagaglio, quando ti sarai seduta cominciando a guardare fuori dal finestrino tutto quello che stai lasciando, che ti passa dinanzi agli occhi velocemente, senza aver tempo di soffermarti sui dettagli. Il treno in corsa te lo impedisce. Lì penserai che il giro per i negozi ed il panino ipercalorico che hai mangiato nell'attesa sono serviti a distrarti ma tu, in quella triste stazione, stavi dicendo addio a qualcosa. Ogni giorno c'è un treno che parte ed un altro che arriva. Ogni giorno è giusto per poter prendere un treno e dire addio a qualcosa, a qualcuno, ad un pezzo di noi. Gli addii sono dolorosi anche quando li vogliamo per il nostro bene, perchè archiviano una parte di noi oramai passata che non potrà più tornare. Alcuni dicono che l'importante sia prendere il treno giusto. Come si fa? Chi ci dice se un treno sia giusto? Nessuno. Dovremmo fidarci del nostro istinto. E più la strada sembrerà tortuosa, più il vociare di chi intanto ci critica sarà intenso, più significa che stiamo facendo la cosa giusta. Prendi quel treno. Te ne accorgerai solo così se sarà quello giusto o meno. Potrai sempre scendere dopo sole poche fermate. Ma se il tuo cuore, una volta sul treno, ti dirà di proseguire, arriva fino in fondo e vai anche oltre. Scendi solo quando si ferma al capolinea e se lo riterrai opportuno sali su un altro treno, e ancora un altro. Prendi tutti i treni che vuoi, tutti quelli che ti porteranno dove hai scelto di andare per creare un pezzo di te. Ricorda che ogni volta che salirai su quel treno stai dicendo addio ad una parte di te, ma allo stesso tempo ne stai creando un'altra. Magari più piccola, o forse ancora più grande. Ma alla fine di tutto, tra treni persi, treni presi in corsa col fiatone, attese lunghe ed estenuanti, persone che salgono e scendono incuranti di te o ostruendoti il passaggio, ti sarai creata. Ogni addio sarà un pezzo di te che se ne va, un altro pezzo che comporrai. Alla fine sarai tu.

mercoledì 7 novembre 2012

Il cervello chiede spiegazioni al cuore.

Cervello: " E così la volta scorsa mi hai liquidato in quel modo così arrogante. Pensi sempre di sapere tutto..."
Cuore: " No, ti correggo. Voi cervelli PENSATE. E spesso avete la presunzione di pensare di saper tutto."
Cervello: " Mi hai colto di sorpresa con quel giochetto malvagio. Voi cuori siete più bravi in questo genere di cose. Il rosso, il verde, il blu, il bianco. Mi hai rimbambito. Mi sono sentito obbligato a rispondere senza poterci pensare troppo. Ecco perchè ho fallito. Non ero pronto. "
Cuore: "Ecco. Tipica espressione da cervelli. Voi cervelli odiate essere colti di sorpresa. Anche un semplice invito lo trasformate a volte come fosse quasi un obbligo, un' imposizione. Non chiudete mai gli occhi lasciandovi trascinare da quello che vi sta accadendo. Dite di non essere pronti, ma non andate mai in ferie. "
Cervello: "Ancora con questa storia di chiudere gli occhi. Io sono un cervello. Non ho gli occhi."
Cuore: "Ti sbagli. Tutti abbiamo due occhi. Io che sono cuore, anche tu che sei un cervello. Ma siete così abituati a non chiuderli mai che talvolta vi dimenticate di averli. "
Cervello: "E se allora la tua teoria fosse valida, se veramente avessi gli occhi anch'io, a cosa servirebbe tenerli chiusi? Ne ho sentito parlare. Sono cavità che contengono due specie di biglie, un tantino forse più grosse. Sì ho capito di cosa parli. "
Cuore: "Sì, due cavità contenenti due specie di biglie un tantino più grosse forse, più o meno sono così. Ma non dobbiamo aprirli per forza, possono anche chiudersi. Si chiudono per esempio quando sei stanco. Ma non parlo solo di quella stanchezza fisica dopo una dura giornata che ci spinge a chiuderli per fare una bella dormita. A volte puoi chiuderli anche quando sei stanco di recepire costantemente informazioni che metterai una sull'altra come una pila di fogli da consultare all'occorrenza. Voi cervelli lo fate di continuo. Avrete sempre gli occhi aperti. Guarderete un paesaggio. Vi soffermerete su di un dettaglio. Una rosa. Ecco. Quella rosa è appena sbocciata. E' bella. E' rossa. Ha tante spine. Stop. Non andrete mai oltre quel bocciolo di un rosso intenso che potrà invece farvi immaginare tutt'altro. Eppure una rosa, il colore rosso, delle spine, possono raccontare tanto. Basta un po' di immaginazione. Ma voi siete settoriali. Vi basta l'oggettività e incasellerete quei dati scarni e privi di ogni emozione da qualche parte per poi utilizzarli quando rivedrete altrove un'altra rosa, magari rossa, magari con molte spine. Ma non è questo che ti biasimo. In fondo voi cervelli siete nati per questo, è questa la vostra funzione e non ti sto dicendo di "rubare" il lavoro di noi cuori. Ma quello che non riesco a capire è come fate a tenere sempre gli occhi aperti. Non siete mai stanchi di guardare?
Cervello: "E' una domanda che non mi sono mai posto. "
Cuore: "Ecco vedi? E' raro che voi vi facciate domande di questo tipo. Vi domanderete perchè una rosa è rossa, perchè ha tante spine, ma di rado capita se avrete veramente voglia di ammirarla.
Noi cuori abbiamo il problema inverso. Spesso capita di non voler guardare. Chiudiamo gli occhi.
Ma sai cosa succederebbe se noi cuori decidessimo di aprirli sino a spalancarli e voi cervelli decideste di chiuderli? "
Cervello: "No. Non lo so. Forse la rosa appassirebbe? "
Cuore: "Quando il cuore apre gli occhi ed in contemporanea il cervello li chiude, sai come si chiama ciò che accade? Si chiama felicità. Si chiama essere se stessi. Che poi equivale a dire la stessa cosa. "
Cervello: "Ne ho sentito parlare di questa felicità ma credo di non averla mai conosciuta. Forse una volta ci siamo presentati. Non ricordo. "
Cuore: " Se non ti è mai successo di chiudere gli occhi mentre io invece li aprivo in contemporanea forse avrai incontrato qualcosa di affine. Ma lei in persona mai. "
Cervello: "Ma allora perchè mi stai dicendo questo? Se sapevi come fare perchè non me l'hai detto prima?"
Cuore: "Perchè io e te non riusciamo a comunicare. Non parliamo mai. Il nostro linguaggio è diverso. Il tuo è oggettivo, matematico, incasellante, tendente ad una raccolta di dati. Se qualcuno non parlerà tu non ascolterai niente. Se non ci sarà una musica in sottofondo tu non percepirai alcun suono. Nel silenzio non troverai risposte. Il mio è il linguaggio dell'anima. Un linguaggio che non ha regole. Un linguaggio che oggi è in  un modo, domani ne sarà un altro. Un linguaggio che in grado di percepire risposte nel silenzio, ascoltare parole anche quando non ci sarà nessuno ad emetterle, in grado di lasciarsi cavalcare sulla scia di una dolce sinfonia anche quando in sottofondo non sarà trasmessa alcuna melodia. Una rosa non sarà mai una rosa e basta. Una rosa sarà un invito, una passione, un incontro, un amore appena sbocciato, una voglia da soddisfare, un desiderio inconscio. "
Cervello: "Ma allora se il problema è che io e te non parliamo mai, perchè adesso invece lo stiamo facendo?"
Cuore:" Ecco, vedi. Questa è la tipica domanda da cervello. Vi chiedete sempre il perchè delle cose anche prima di cominciare un qualcosa. Anteponete all'azione in corso di svolgimento o, ipotesi ancora peggiore, ancora da iniziare le conseguenze del vostro agire. Rilassati, almeno stavolta. Adesso stiamo parlando e questo ti deve bastare. Così facendo sottrai già un granello di sabbia. Un granello di felicità ".