domenica 27 settembre 2015

Il viaggio più bello che una persona possa fare

Non ricordo il preciso momento in cui una mansarda per due sia diventata la mia casa.
Ma so che il suo divenire ha seguito un ritmo lento, mentre compravo piante da porre sul davanzale della finestra con il proposito di maturare il pollice verde (che non è mai nato), mentre compravo ingredienti per cucinare un dolce (che ho preparato solo un paio di volte), e mentre appendevo poster alle pareti evitando di lasciarvi segni (che inevitabilmente si sono trasformati in buchi).

Prima di allora c'era un appartamento per sei, ed ancora prima uno per dodici. In nessuno dei due ho comprato piante, preparato dolci per tutti i coabitanti ed avevo solo qualche fotografia attaccata con il nastro adesivo ai lati dell'armadio, per non macchiare le pareti. In nessuna di queste, in verità, ho provato una sensazione simile a quella del sentirsi pienamente a casa. Quella in cui hai la libertà di camminare scalza, senza pensare a quanti microbi stiano facendo capriole nella moquette che riveste il pavimento. Quella in cui puoi sederti sul divano, senza immaginare di dover chiedere un tuo spazio ad altri dodici. Quella in cui se ti scappa la pipí, non sei costretta a fare la fila come se stessi in un bagno del Mc Donald's.

Eppure anche quelle, assumendo toni differenti, erano la mia casa, pronunciandone i suoni in modo poco deciso, come quando leggi una frase tra parentesi che credi sia poco importante.

Ma il tempo insegna che quello che credi abbia un valore approssimativo, diventa spesso quel tassello che congiunge tutti i punti, ciò che si traduce nella causa di tutti i passi successivi e che ne spiega le conseguenze.

Allora sono partita dall'inizio, da quando desideravo di girare il mondo e poi ad un certo punto mi sono fermata. E non perchè stessi rinnegando i miei voleri. Ho semplicemente avvertito quel bisogno naturale di ogni essere umano di sentirsi a casa anche lontano da casa. Quel bisogno di costruirne una, che fosse per dodici, per sei o solo per due, in cui poter veder crescere o seccare le proprie piante, in cui comprare ingredienti per preparare una torta o riporli nel frigorifero, in cui appendere alle pareti i propri ricordi, per guardarli ogni tanto cosí da ridurre la responsabilità della mia mente: quella di raggrupparli tutti in cesta che pur diventando talvolta troppo pesante, decidi di lasciarla lí, proprio sopra la tua testa.

Ma ho cercato di fare un gioco con la mia vita. Come quando entri in un supermercato, compri quello che desideri, approfittando a volte delle offerte, altre accontentandosi di quello che si trova, altre ancora trovando esattamente quello che stavi cercando, pagandone il conto alla cassa al termine del tuo giro. Allora per ogni anno che passa, prima di gettarlo alle spalle e ricominciarne un altro, leggo la lista delle cose che ci ho messo dentro, la analizzo, e poi la pago, tutta.

Ed è stato allora che ho scoperto di quanto più che vagabondare, io desideri che ogni anno sia sempre diverso da quello precedente e dal successivo. Quanto io desideri sperimentare quanti nuovi prodotti sia in grado di mettere nella cesta. Quanto sia grande il mio bisogno di crescere insieme ai miei sogni, e di andare avanti, di anno in anno, nella loro ricerca, nell'appuntarli come su di una lista della spesa, nel pagarli, e nel cercare poi qualcos'altro da aggiungervi.

Credo sia questo il senso del viaggio, quello intimo che silente si insidia nelle fessure di un'anima pronta a sperimentarne tutte le sfumature, e certa di non volersi mai fermare. Pur mantenendo una casa in affitto, continuando a far seccare le proprie piante e a nascondere i buchi alle pareti con altri poster.

Ed è in quest'intimo vagabondare per sentieri che non si conoscevano che si scopre che c'è qualcosa che non cambia, nonostante ci si imponga di farlo. È una sensazione costante rispetto l'anno precedente, che forse l'anno seguente sarà attutita, o forse no, ma sarà sempre lí a chiederne il conto.
E tu forse non riuscirai a pagarlo, te lo trascinerai dietro, prima di capire che quelle sono le cose importanti. Quelle che non potrai appendere alle pareti, nè riporre in una cesta, quelle che credevi di aver cancellato dalla lista. Quelle di cui forse un tempo avresti dovuto prendertene maggiore cura, ma avresti inevitabilmente modificato il corso degli eventi. Quelle che nonostante tutto però restano lí, perchè è in quella zona grigia cui sono state destinate, perchè un tempo ti hanno fatto sentire a casa ed una persona migliore, forse.

Non so quanto sia vero ciò che si dice in giro, che si lascia un pezzo di cuore ovunque tu vada e si costruisce in ciascuno una dimensione che poi imparerai a chiamare casa. Io ho lasciato porzioni di cuore importanti o anche pezzi più piccoli. Tutto il mio cuore o proprio niente. Ma mi piace pensare che sempre, ovunque e con chiunque, io abbia fatto il più bel viaggio che una persona possa fare: ho vissuto, in tutti i modi in cui una persona possa vivere.

domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.

giovedì 17 settembre 2015

Homesick: la nostalgia non é una malattia

Nel posare la tazza di tea fumante sul tavolo, ho guardato il grigiore delle nuvole fuori dalla finestra che facevano da cornice ad una sequenza di tetti spioventi color rame, e ho realizzato quanto la stagione autunnale fosse oramai alle porte. Diciamo che in Inghilterra il suo spirito aleggia nell'aria anche prima, facendo in modo che tu non subisca alcun cambiamento climatico radicale e tenendo sempre la maglieria pesante su di una mensola dell'armadio anche in pieno agosto. Ma forse con l'ufficializzazione dell'autunno data dal calendario, mi sentirò in dovere di indossare il cappotto nuovo e di guardare alle decorazioni natalizie non più come fosse una data troppo lontana.

L'aria più fredda, i colori spenti del paesaggio circostante, le foglie ingiallite che tra poco cominceranno a staccarsi dai loro rami, lasciano pensare ad una nostalgia che non può risparmiare nessuno. E ci pensavo proprio quando in un vagone della metropolitana ho avvertito d'un tratto i profumi di casa, prima che una donna mi si sedesse accanto sgranocchiando patatine al formaggio, la cui puzza non avrebbe risparmiato nessuna narice, nemmeno se avessi avuto il raffreddore.

Come quando torni a casa e alla domanda "come stai?" vorresti trovare un termine adatto. Uno soltanto che eviti la perifrasi sto bene ma a volte ci si sente molto soli. Non soltanto in autunno. Non solo quando cadono le foglie. E neppure solo quando hai una tazza di tea tra le mani che ti riscaldi.
É come un singhiozzo che dura 365 giorni l'anno, anche quando pensavi di aver deglutito abbastanza per lasciartelo passare. È una nostalgia che non si attutisce mai, ma che può essere domata concependola non come fosse una malattia da cui non si guarisce.

Ogni volta basta pensare al tragitto fino ad ora percorso, a quei mattoncini che abbiamo con cura posto gli uni sugli altri, a tutti quei granelli di sabbia che abbiamo fatto scivolare tra le dita, a quella linea all'orizzonte che ogni volta appare sempre più nitida al punto da immaginare di oltrepassarla. Occorre pensare al perchè si è iniziato, ed allora anche la nostalgia diventerà meno amara.

Siamo noi a decidere anche questo: se morire di malinconia, o vivere di aspettative.

Io ho scelto di sentire i profumi di casa prima di realizzare che l'unico profumo esistente fosse quello di patatine al formaggio sgranocchiate dal vicino. Ed ho scelto di farmi entrare nelle narici anche quello, in un vagone che segna un viaggio verso una nuova destinazione. Ho scelto di bere una tazza di tea per riscaldarmi, di essere pronta alla caduta delle foglie prima del previsto e di guardare gli schizzi di pioggia che formano pozzanghere sull'asfalto perchè non posso guardare il mare.

Ma chi conosce la direzione da seguire, non si ammala di nostalgia, piuttosto impara a domarla.




sabato 29 agosto 2015

Guardarsi allo specchio tra vent'anni

Spero tu possa vivere a lungo, per guardarti allo specchio tra vent’anni ed accorgerti di non poter più tagliare i capelli bianchi che spuntano alla radice, perché ne saranno troppi. Ma spero che imparerai a non farci più caso, perché ognuno racconterà di una vita che scorre: un figlio che hai concepito, o forse più di uno; amori andati che saranno allora solo un piacevole ricordo; di uno, forse, che hai deciso di dipingere su tela, per guardarlo ogni mattino appena sveglia, ed ogni notte quando questa sembri non finire mai; di una sveglia alle sei e di una corsa al parco; di responsabilità, di doveri, di una morale da tenere sempre alta.

Spero tu possa essere vento, di quelli che spazzano via tutto, per mettere in ordine le cose, lí dove era giusto che stessero. Di quelli che asciugano la sabbia bagnata, di quelli che la spazzano via per lasciar spazio ad una nuova, più fresca, più pulita. 

Spero che tu possa essere pioggia, di quelle che rinfrescano l’aria in giornate di fine agosto, e poi arcobaleno, per meravigliarti ogni volta che qualche colore raggiunga il tuo sguardo quando non l’avevi previsto. E poi sole, per inebriarti dei suoi raggi che confluiscono in un unico fascio di luce, quello in cui sarai in grado di entrare con la consapevolezza che nel corso della vita talvolta dovrai farne a meno, senza per questo rinunciare a goderti il momento.

Che tu possa avere le scarpe per camminare ovunque. Uno zaino vuoto per riempirlo di tutto quello che c’é da sapere. La forza di lasciarlo cadere dietro le spalle e camminare scalza quando non ci sarà altra scelta per affrontare selciati fangosi o troppo ripidi. La determinazione di addentrarvi lo stesso, anche quando non ci sarà nessuno a tifare per te. Il coraggio di tornare indietro a riprendere ciò che hai lasciato, o lo stesso per voltare pagina e ricominciare da capo.

Spero che tu avrai imparato che nella vita non esistono né vincitori né vinti, né cose giuste o sbagliate: spero che allora tu abbia appreso che esiste la tua idea di giustizia, la tua scala dei valori, quelli che senti i tuoi doveri morali, e non importa se qualcuno si schiera sull’altro versante, al di là del risultato tu vinci soltanto se non li rinneghi, sempre.

Spero, sai, che tu abbia appurato che la vita è una ruota, ma non per questo dobbiamo aspettare inermi che compia il suo giro completo. Talvolta vale la pena aspettarla, come prenderla per la gola e deviarne il percorso.

Spero imparerai che quelli che un tempo chiamavi vicoli ciechi, siano poi stati concepiti da te come strade obbligate, la cui destinazione sia stata da te pianificata. 

Spero che non abbandonerai mai la voglia di commettere errori, perché significherà che non avrai più il desiderio di imparare. Fallo spesso, almeno due volte al giorno, come una pillola somministrata dopo i pasti. 

Spero che tra vent’anni avrai imparato a non sentirti in colpa o in dovere di essere accondiscendente. Spero riuscirai a toccare con mano la forza delle tue idee non per quanto siano grandi, ma per quanto grande sia stato il tuo entusiasmo a volerle portare sulle spalle comunque. 

Spero che il tempo ti insegni che questa vita non regala premi ai più meritevoli. Tutto quello che otterrai non sarà frutto di un merito predestinato, ma della costanza con cui non hai mollato anche quando tutto il resto ti diceva di lasciar perdere. In caso contrario, spero avrai imparato a non porre su te stessa il peso del fallimento: se non è accaduto, non doveva accadere. Questo spero tu lo abbia già appreso.

Che tu sia pronta al cambiamento e a giostrarti con lo stesso movimento ondulatorio dei rami di una quercia mossi dal vento. Che tu sia mare: profondo, dai contorni indefiniti, eterno e sempre pronta a sentirti ad un passo dall’essere infinito.

Spero che imparerai che quando tutto sembri perduto, tu non ti sentirai mai persa. Che tu abbia imparato a lasciare senza scrupoli ciò che sentivi non appartenerti, o guardare gli altri lasciarti senza mai il rimorso di non aver fatto abbastanza. Che tu possa imparare a restare, quando tutto ti dirà di abbandonare ma tu senti di non volerlo fare.

Spero che guarderai con dolcezza a quello che eri, e con passione quello che diventerai. 

Non vorrei che tu diventassi una professionista brillante, una madre modello, una moglie da invidiare, una zia ed una nonna ideale. Spero che capirai che la perfezione non si addice all’essere umano e tutto ciò che conta davvero è essere una brava persona. Così da poter essere una buona madre, professionista, moglie, zia o nonna che abbia una sola pretesa: trasmettere agli altri l’amore per te stessa, per ciò in cui credi, per la vita stessa.

Spero che tra vent'anni lo rileggerai e sentirai di aver imparato la lezione: che quello che saremo lo dobbiamo a quello che siamo stati ed abbiamo sempre l’opportunità di cambiare noi stessi, a partire da oggi.



martedì 28 luglio 2015

730 giorni, e sentirli tutti

Sono 730 i giorni che mi separano da quella valigia rossa che non sembrava mai piena abbastanza. Avrei voluto portare con me tutto l’amore che stavo lasciando, e forse anche il mare.

Ma è in questi 730 giorni che ho capito che l’amore non ti abbandona, e allo stesso tempo non permetterà a te di lasciarlo. Continua, sotto forme diverse. 
Ho imparato che non sei tu a scegliere quale di queste portare con te, saranno loro ad imporsi e tu a volte ad accettarle lo stesso, allo scopo di non perderle del tutto.

In questi 730 giorni, ci sono state troppe ore in cui credevo di poter cambiare le cose. A volte ci sono riuscita, altre ho fallito. Ma ho capito che certe cose non cambiano soltanto se ci si mette d’impegno, mentre per alcune il cambiamento é un imprescindibile postulato se le si è scelte. Così ho appurato l’inevitabilità che si annida nel progressivo mutamento delle cose, delle circostanze, ed anche delle persone, ed aspettarlo, come il passaggio delle stagioni.

All’inizio lo temevo, ma questi 730 giorni mi hanno insegnato che anche questo fa parte della vita, quella di cui non si può avere paura, mai. 

Ho capito che bisogna salire un gradino alla volta, per sentire sulle proprie gambe il peso della salita, per sperimentare passo dopo passo la bellezza di immaginare una meta nonostante questa sembri lontana, raggiungerla e prefissarne un’altra, nonostante la stanchezza.

Ho capito che non ci si deve per forza adattare, ma lo si può fare alle proprie condizioni. Che la libertà sta nel non avere pesi sul cuore e compromessi sulle nostre coscienze. È qualcosa che non va dimostrata agli altri, ma è necessario sentirla dentro, come l’unica voce che ci parla, come un vento che non si arresta mai.

Questi 730 giorni mi hanno insegnato che vale sempre la pena darsi delle possibilità, anche per sbagliare, perché in quelle occasioni si comprende dove stiamo andando, ed anche dove invece vorremmo essere, così da tirare il freno, sterzare, e ripartire da un nuovo punto, a patto che sia sempre differente da quello che si lascia alle spalle. 

Tanti giorni che hanno rafforzato la mia idea di progettare un luogo in cui non esistano orologi, né calendari, per avere la forza di creare e disfare senza imporci scadenze. Un luogo in cui ci si perde, ma nello stesso istante ci si ritrova e talvolta si ritorna. Ho impiegato 730 giorni per capire che quel significato che davo al verbo tornare era giusto per gli altri, ma non per me. Così ho dato un volto nuovo a quel luogo in cui tutti dicono un giorno di far ritorno: me stessa. 

Perché il tornare non implica necessariamente uno spostamento fisico, un dirigere i propri passi verso il punto di partenza. Piuttosto un ritrovarsi, un tornare lí dove è giusto restare, con quella parte di noi che sta sbocciando e che non possiamo più ignorare. Ci sono voluti 730 giorni per capirlo: che sono già tornata, ma che non sarà l’ultima volta. 

Ho imparato che si può vivere in case per dodici. Che la solitudine fa bene, ma scontrarsi con la diversità cambia la tua visione del mondo. Che la dieta sana ed equilibrata rigenera l’organismo, ma il cibo spazzatura aumenta gli anticorpi.

In 730 giorni se qualcuno mi avesse voluta davvero, lo avrebbe fatto. Le scuse servono soltanto a giustificare un non volerti abbastanza nonostante tu non gli abbia mai chiesto il perché. L’ho capito soltanto adesso.

730 giorni in cui ho imparato ad amare e detestare. A convivere con i sensi di colpa ed acuirli facendo una corsa al parco o piuttosto ripulire il frigorifero di tutti gli yogurt scaduti che avevo conservato per pigrizia. 

Troppi giorni, forse, per capire che quello che siamo lo dobbiamo solo a noi stessi.

Avrei voluto portare il mare con me, ascoltare il rumore delle onde, annusare l’aria fresca. Non ho potuto. Ma ho costruito 730 giorni, in cui mi ci sono tuffata, ne ho ascoltato ogni sussurro, ho annusato ogni profumo. 


730 giorni, e sentirli, tutti. 

martedì 21 luglio 2015

Non voglio essere single, voglio stare insieme a te.

Voglio che tu esca a bere una birra con gli amici, e che fra quelli ci sia anche io. Perché un tempo avevo imparato a rincorrere le persone, a vivermi l’altro soltanto a singhiozzo per non ubriacarmene troppo, avevo la pazienza di aspettare e di lasciare che fosse l'altro a decidere sia il come che il quando. Poi ho capito che chi si vuole sul serio non teme le attese, ma nemmeno se le crea forse.

Non pretendo che appena svegli tu mi riempia di discorsi, e nemmeno che prepari un caffè. Dovresti saperlo che prima delle dieci il mio sguardo è assente, le mie orecchie sorde, ed il mio palato poco ricettivo. Poi, sono sempre in ritardo. Ma vorrei conoscere i tuoi piani, non per farne necessariamente parte, ma per avere la possibilità di pensare a cosa tu stia facendo e magari dove. 

Non occorre che tu mi racconti i dettagli delle serate trascorse con i tuoi amici, né desidero ricevere messaggi nel cuore della notte dettati dalla sbornia. Non avrebbero senso, a meno che tu non colga quell’occasione per dirmi la verità: che sono la donna della tua vita. Ma in quel caso ti chiederei di ripetermelo mentre mi spalmi la marmellata su di una fetta biscottata a colazione, mentre cerco l’ultimo paio di calzini perso in lavatrice, quando ci sediamo per cena e tu mi prendi la mano perché temi che il piatto scotti e che io mi possa bruciare.

Non voglio andare in nessun altro luogo in presenza di altri. Che sia anche per fare l’amore a bassa voce. Vorrei godermi lo stare insieme ad altri, dove negli “altri” sei compreso anche tu, e l’ “insieme” siamo noi due.

Non voglio immaginare niente soltanto per il gusto di farlo. Voglio mettere un mattone alla volta e desidero che tu faccia lo stesso: quando la realtà tradisce l’immaginazione significa che non ci abbiamo creduto abbastanza. E voglio che tu mi sorprenda ogni giorno, non con cose grandi, ma con i piccoli dettagli quotidiani che mi regalano quella che é veramente importante: lo stare insieme, nonostante tutto.

Non desidero fare cose che non sarei stata in grado di realizzare in compagnia di qualcun altro. Ma voglio fare tutto quello in cui sarei riuscita lo stesso, da sola, ma è con te che ho scelto di condividerle perché con te ho una ragione in più per non avere paura.

Voglio che tu mi stringa forte, quando non me lo aspetto, e che tu non lo faccia quando lo merito meno, per comprendere il valore di ogni tuo singolo abbraccio.

Desidero che ciascuno segua il percorso della propria vita, ma che tu mi ci metta dentro in ogni scelta importante. Perché ci siamo scelti, nella routine come nel cambiamento. E desidero tu mi chieda di partire, ma soltanto dopo che tu mia abbia chiesto di restare.

Non desidero niente di complicato. Niente che mi imponga di farti mille domande a cui tu risponderai in silenzio, lasciando a me l’abilità di capire. Voglio essere libera di farne tante e di ricevere altrettante risposte. Perché esiste una comunicazione sensitiva che spesso necessita di conferme da quella verbale.

Non occorre che tu mi dica quanto sono bella davanti agli altri, né in qualsiasi occasione. Non lo sono appena sveglia, né quando rincaso sudata dopo aver rincorso l’ultimo vagone del treno alla stazione. Basta che tu lo faccia quando siamo soli e al momento giusto, perché sará la verità. Desidero che tu non mi faccia camminare davanti, né indietro, ma affianco a te, perché tu mi possa proteggere.

Voglio pianificare e realizzare, per poi progettare ancora, come un turbinio di creazioni che non finiranno mai fin quando esistiamo noi. 

Voglio esserti amica, ma che tu ne conosca il confine, per ricordarti ancora l’amore e la passione che ci lega. Non voglio che tu ti senta costretto a restare, né tanto meno a tornare. Voglio che tu ti senta libero di scegliere e per questo tu scelga sempre me, ogni giorno, capendo che il tornare non implica necessariamente uno spostamento fisico, ma un ritrovarsi nell’altro senza nutrire il bisogno di voler essere altrove, per conoscere ogni volta qualcosa di sé che non si conosceva. Tornare ogni giorno perché non ti basta mai.

Vorrei avere la possibilità di scegliere di stare da sola, ma di non farlo, perché è con te che ho deciso di stare. Sei tu la mia libertà: quella di amare.

domenica 19 luglio 2015

Quando torni?

Quel rumore fioco emesso dai tasti della mia tastiera, costante, che talvolta si prendeva delle pause per tornare indietro o proseguire, ad un certo punto si è arrestato. Conto i caratteri, faccio un respiro, guardo fuori dalla finestra: ho finito. È il primo pensiero che la mia mente sia stata in grado di partorire, mentre con gli occhi rossi ed un accenno di sorriso che riuscivo a scrutare attraverso lo schermo del computer, lo chiudevo per non pensarci più. Ancora con il fiatone, come se avessi fatto una corsa nonostante non ci fosse stata in fondo alcuna fretta.

Eppure sentivo dentro di me quel tremolio che mi imponeva di continuare e non perdere nemmeno un minuto prezioso. Ho finito, l’ho fatto di nuovo, e questa volta nemmeno tutto d’un fiato, per questo forse avevo fretta: non avrei di certo disperso i pensieri ma non volevo raffreddarli. Volevo fare tutto quando il fuoco fosse ancora caldo.

Ma questa volta non mi sono seduta ritagliandomi uno spazio dalle pareti rosa senza alcuna scadenza giornaliera. Le pareti erano bianche ed il soffitto più basso, e spesso, pur perdendomi tra le ore che scorrevano, ad un certo punto dovevo fermarmi. Non ho immaginato come potesse andare a finire, né chi metterci dentro che desse forma ai caratteri che seguivano al rumore della tastiera. Sapevo già come doveva andare a finire, le storie le conoscevo già. Ho immaginato, ma prima ho parlato con la gente, le ho conosciute, in parte. Non ho scritto tutto d’un fiato, mi sono presa del tempo. Dopo il lavoro, prima di fare la doccia, spesso in metropolitana. Non avrei avuto il tempo di concedermi quasi completamente come era già accaduto.

Ma ora che le mie dita hanno già scritto di altri, tocca a me rispondere a quella domanda che a questi ho formulato: Quando torni?

Credevo che ciascuno di loro potesse fornirmi degli indizi per provare a mettere insieme, come in una ricongiunzione di punti, quella che poi sarebbe stata la mia. Ma quelle sono le loro vite, le loro risposte. 

Ho puntato l’attenzione sul quando, e ad essere onesta non sono stata in grado di segnare alcuna data sul calendario che ponesse fine alla mia permanenza in una terra che non è la mia, ma a cui ho imparato a concedermi come se lo fosse. Allora ho cerchiato il verbo tornare, quasi come a spremerlo per carpirne l’essenza, credendo ci fosse un significato oggettivo da non lasciare alcun beneficio del dubbio. Ma non l’ho trovato.

Cosí ho pensato che forse non ci sia alcun luogo fisicamente esistente che ci imponga di tornare o anche di restare, se non siamo noi a crearlo. Ed io probabilmente non ho mai concesso alla mia mente di farlo, o almeno non del tutto e non nei modi precostituiti. Perché ho sempre creduto che ci fosse un luogo in cui non esistono orologi né calendari, in cui possiamo creare e disfare senza il bisogno di spostarci, in cui ci si perde, si resta e talvolta si torna. Siamo noi quel luogo in cui è sempre possibile ridisegnare il paesaggio, dare curve diverse ai sentieri, plasmarli così come il cuore ci impone di fare o non fare. Quello in cui a volte ci si perde, o basta restare per tornare. 
Perchè il tornare non implica necessariamente voltarsi all’indietro e dirigere i propri passi verso la direzione di partenza. Riscoprirsi, mettere ordine, reinventare: anche questo può assumere le parvenze di un ritorno, quello che ha come meta non un luogo fisico, ma una condizione, quella di star bene con se stessi, ed un volto, il nostro. 

Allora si può tornare, sempre, ed ovunque ci troviamo.

Perchè a volte tornare non significa per forza abbandonare, ma anche restare. Era a me alla fine che toccava rispondere a quella domanda per chiudere il cerchio, un grande vero e proprio capitolo che ho tentato di racchiudere in tanti. 

Quindi rispondo che non torno, perché in verità sono già tornata. E probabilmente non sarà nemmeno l'ultima volta.