lunedì 18 agosto 2014

Il faro della vita.

L'altro giorno ero a Canterbury, una tranquilla cittadina medievale, a circa un'ora e mezza dall'esasperata frenesia londinese. Entro in un pub ed ordino una birra. Di fronte al mio tavolo era seduta una famigliola.
Una donna robusta, dall'aspetto trasandato, che impugnava le posate in malo modo. Una coppia di gemelli, avranno avuto meno di cinque anni, biondi, con gli occhi dal colore azzurro cielo ed una carnagione bianca vellutata. Un uomo dall'aspetto distinto, che portava alla bocca le olive poste al centro del tavolo usando sempre uno stuzzicadenti diverso. Di fianco a lui un ragazzone dall'età difficile da definire, affetto dalla sindrome di Down, con evidenti difficoltà nel portare il cibo alla bocca, tanto che il padre se ne prendeva cura, pulendogli di tanto in tanto la bava alla bocca.

Sembrava una famiglia semplice, come tante. Quelle in cui la bellezza di un volto d'angelo si accosta ad un altro costretto su di una sedia a rotelle. Quella in cui ci sono bocche da sfamare, ma si aiuta prima chi ne ha più bisogno, senza voler dire amare di più, ma semplicemente in un modo diverso. Quelle in cui le differenze vengono a galla, ma si neutralizzano in un concetto più profondo, che è quello della famiglia, perfetta sempre, così come è stata creata.

E allora pensavo ad un film che ho visto tempo fa, Una storia vera, diretto da David Lynch, in cui il protagonista all'età di 73 anni decide di intraprendere un viaggio su un trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Ho pensato ad una sua citazione, quando dice: "Quando i miei figli erano piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un rametto ciascuno e dicevo loro di spezzarlo. Non era certo un'impresa difficile. Poi gli davo un mazzetto d'erba e dicevo di provare con quello. Ovviamente non ci riuscivano. Quel mazzetto - gli dicevo - quello è la famiglia."

Questa citazione incarna esattamente quello che credo da sempre. 

Famiglia non è solo un nome collettivo, che prevede quattro, cinque o dieci persone. Ce ne possono stare anche soltanto due. E' ciò che la regge, che è dietro di essa, inanimato ed impalpabile, a renderla tale. 
La famiglia è fatta di occhi in cui troviamo la nostra ragione d'esistere quando abbiamo paura. E' un amore che non ha bisogno di conferme perché esiste nel sangue che ci lega, non necessita di grandi azioni perché sarà più grande nei piccoli gesti, è qualcosa che spesso vive nel silenzio di bocche che restano chiuse, in cui il silenzio vorrà già dire tutto, perché sai già cosa direbbe. La famiglia si poggia su verità che nessun altro sarebbe mai in grado di dirti, su una forza indomabile che ti fa sentire protetto e meno solo ovunque ti possa trovare. E' una strada in cui non esistono sensi vietati, né limiti di velocità, sempre aperta, in cui ti immetti sentendoti sempre accolto, nonostante le differenze, le tue scelte sbagliate o giuste che siano, nonostante tutto. E potrai percorrerne tante altre, non ti sentirai mai lo stesso. 

Perché la famiglia è così: è come un faro la cui unica luce sarà riflessa su di te, guidandoti ovunque tu sia. 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/film/u/una-storia-vera-(1999)/citazione-68740?f=w:2280>
E' qualcosa di straordinario in cui vedi attraverso i loro occhi chi eri, chi sei, chi sarai.

E' qualcosa che non si spezza mai, l'unica in cui vale veramente la pena credere.

lunedì 11 agosto 2014

Imperfezioni.

L'altra mattina ero intenta ad asciugare le posate del ristorante, quando ad un tratto mi sono soffermata ad osservare i volti dei clienti in sala e dei miei colleghi, sembrando questi ultimi addirittura più gioviali dei primi.

Non so se lo fossero davvero, anzi credo che qualcuno nemmeno se lo domandi più. Fa parte di quel sistema che ti inghiottisce e non ricordi nemmeno quando e come sia capitato che ti sia trasformato in un essere robotico tuttofare. Posso saltare da una postazione all'altra, invitare i clienti ad entrare, preparare insalate, sparecchiare, chiedere loro se gradiscono un dessert, ma c'è una cosa che non sono in grado di fare su richiesta: avere un sorriso stampato sulla faccia perché così si deve fare. Ed è per questo che nascosta nell'angolo ad assicurarmi che piatti e posate fossero puliti per la clientela stavo bene: perché non dovevo pronunciare nessuna frase di circostanza, né sorridere come i miei colleghi. Un po' come quando mi rifugio in questo spazio digitale che racconta di quei dettagli e pensieri che messi insieme raccolgono la parte più autentica della mia vita.

E proprio mentre ero lì a lucidare l'ennesima forchetta, pensavo quando entrai in quel posto oramai un anno fa, con quell'unica aspettativa che accomuna chiunque approda in terra d'Albione: fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Da allora è cominciata la mia corsa contro il tempo, quella che mi ha visto talvolta diventare grande nonostante avessi le ginocchia tremolanti, altre piccola nonostante la forza di un leone che come consueto tardo a tirar fuori. Sono entrata in quel luogo senza nessuna speranza, ma ogni giorno, mentre ero in cassa o a pulire forchette o a servire qualche cliente, la mia mente non si fermava mai. Pensavo, ogni giorno, a quello che potevo creare. Ed è lì che si sono compattati i miei desideri, che ho stabilito quali fossero le mie priorità, che ho alimentato le mie ambizioni, nonostante talvolta per la fatica vacillassero. Ma c'era una cosa che le ha sempre tenute insieme: la mia innata tendenza a riprodurre all'esterno il mondo ideale che sognavo per me, il non lasciare che niente al mondo ostacolasse ciò che di buono attendessi, e continuo ad aspettare. Sono entrata in quel posto in punta di piedi, ed in silenzio, e continuo a non far troppo rumore, perché ci tengo a mantenere i miei tempi, a non omologarmi ad una dimensione troppo veloce che non mi appartiene, perché c'è un olezzo di qualcosa che non so cos'è, so solo che è poco umano.

Questi mesi sono trascorsi in fretta. L'estate ha lasciato spazio alle foglie d'autunno che hanno ceduto il passo ad un gelido inverno che è stato poi spazzato via da una fresca brezza primaverile trasformatasi poi di nuovo in una breve ed inconsueta estate londinese, in cui ci sono giorni in cui il cielo sembra presagire l'inizio di un nuovo autunno, altri in cui quest'ultimo sembra ancora lontano. Non c'è niente che non rifarei, nonostante i sacrifici e qualche senso di colpa che ogni tanto, di notte, torna a farmi compagnia come fosse uno spettro che ti piomba dal soffitto, di cui non puoi far altro che tollerarne l'eco. Non c'è niente che non rifarei, nemmeno quelli che la gente continua a chiamare errori, ma che sono per me la parte più bella della vita. E non perché ti insegnano a non sbagliare più, ma perché ti portano a toccare con mano la tua reale dimensione, quella che sa di un'umanità che vorresti vedere in tanti altri che sembrano perfetti solo perché non commettono mai errori, ma sono invece dotati della più severa delle imperfezioni: quella che ti racchiude nello schema del si può-non si può, non facendoti godere mai abbastanza.

Non tratterò mai i miei "errori" con superficialità, perché non sarà mai vero che non me ne frega niente di loro. Se potessi li farei ancora, e ancora, e ancora, non solo per sentire l'olezzo del senso di colpa, ma avvertire il profumo di umanità dentro il mio cuore che mi spinge a chiedere perdono, ogni volta, anzitutto a me stessa.

Ed è per questo che del posto in cui lavoro poco mi importa. Perché ho avuto, chiamiamola fortuna, di mantenere integre le mie priorità, di non scendere mai a futili compromessi, di entrare ma mai fino in fondo in un sistema che non mi appartiene, quello che infonde il senso di dovere sotteso alla necessità di produrre per guadagnare. Io ho sempre lavorato perché avevo necessità di creare qualcosa di diverso. Chi crea non è suddito né li detiene, è semplicemente padrone di sé e fuori da quel contesto in cui non gli si può chiedere di ridere, perché quello è il linguaggio più intimo di un'anima. Quella che nessuno può controllare, quella che commette errori, quella che è bella perché è così, semplicemente imperfetta.

Quella mattina, nascosta in quell'angolo, nessuno mai dei presenti mi avrebbe chiesto a cosa pensassi.
In realtà pensavo a quanto sia semplice cancellare momenti etichettati semplicisticamente come "errori" come fosse la cartella di posta indesiderata, piuttosto che conviverci accettandoli come parte integrante di vita, quella che possiamo scegliere di cambiare o che può cambiare noi. Pensavo al modo di tenere in vita le priorità nonostante gli ostacoli, senza commettere l'errore di chi desidera ardentemente qualcosa e quando è ad un passo dall'ottenerlo molla perché ha paura.

Pensavo che nella vita si fanno delle scelte, ed io ho sempre scelto, ma qualche volta avrei voluto che qualcuno lo facesse al mio posto per sentirmi meno colpevole, forse. 

giovedì 7 agosto 2014

Vivere di sfumature.

Stamattina nell'aprire il frigorifero i miei due scompartimenti sembravano sovraccarichi di roba.
Eppure c'erano solo tre yogurts, una confezione di fragole, un'altra di pomodori, un barattolo di sugo pronto, una bottiglia di succo alla mela, dei toasts e del formaggio.
Il frigo sembrava pieno, come quando in un piccolo spazio tenti di farci entrare il necessario che supera l'effettiva capienza, allineando tutte le bottiglie, riponendo i barattoli negli angoli e le confezioni di yogurts le une sopra le altre.

E ho pensato in quel momento al modo in cui si vive in una piccola città piuttosto che in una grande metropoli, dove gli spazi limitano i desideri facendoli sembrare però eterni e mai spenti, in cui ogni minuto sembra durare più di sessanta secondi, in cui i piccoli spazi fanno da alibi per tenersi stretti, in cui sembra all'apparenza non entrarci niente, eppure vi si può inserire tutto.

Perché quello che ho imparato vivendo in una grande città come Londra è questo: che non è vero che spazi enormi rendono giganteschi anche i tuoi desideri, ma spesso si rimpiccioliscono per far spazio a quelli degli altri, o addirittura per crearne tanti altri della stessa portata; che un minuto dura un secondo o forse anche meno e che i grandi spazi forniscono alibi per allontanarsi nonostante le distanze siano facilmente raggiungibili, in cui sembra che tu possa metterci dentro tutto ciò di cui hai bisogno, e forse ci riesci, pur mancando sempre qualcosa che vorresti tener stretto, a tuo modo, scegliendone la forma più appropriata che non si rivelerà però mai quella giusta.

E' che in una grande città come questa devi imparare a fare a meno delle persone. Quelle che vanno e vengono come onde che toccano il bagnasciuga per poi ritirarsi. Quelle che come schizzi di pioggia ti accarezzano la pelle, lasciandoti sentire un profumo di aria fresca che durerà esattamente quel minuto che percepirai come fosse un secondo. Quelle che vorresti tener strette pur essendo una strada vietata. 
Quelle con cui ti andrebbe di condividere semplicemente un po' di umanità, che ha lo stesso profumo del caffè appena svegli, la risata dei bambini in una piccola piazza di paese in un pieno pomeriggio d'estate, la voce di chi ti dice che resta con te perché le distanze, di qualsiasi forma si tratti, sono solo una creazione della mente, semplicemente bugie.

E' la terra in cui non c'è tempo, in cui tutto nasce e muore velocemente, in cui i rapporti durano quanto la vita delle farfalle. 
E puoi decidere di sottostare a questo insano principio che mette il tuo essere umano alla gogna, di vivere di solo bianco o solo nero, di cose che se non sono grandi allora è bene che divengano niente, o vivere di sfumature, sotto un cielo che vedi sereno anche quando vi sono poche nuvole che intiepidiscono i raggi di sole, al cospetto di un tramonto in cui la vasta gamma di colori si addiziona tramutandolo in un rosa inconsueto. 

Sarà che ho imparato a riparare piuttosto che a gettare, a trattenere piuttosto che respingere, a desiderare anche quando sembra sia proibito. 

Sarà che la leggenda racconta di un cielo londinese sempre grigio, mai solo bianco, mai solo nero.


venerdì 1 agosto 2014

Sotto i nostri occhi.

Dopo aver effettuato il check-in all'aeroporto di Roma Fiumicino, mi dirigo nella zona di accesso ai gate. Ripongo tutto in uno dei cestelli a disposizione e passo il controllo del metal detector.

Il pensiero più ricorrente di tutti i fumatori in quel momento è che la prossima sigaretta potrà essere accesa solo una volta atterrati nel luogo di destinazione.

Ammetto di averci pensato soprattutto dopo aver finito di mangiare un panino ad uno dei bar non molto distante dalla zona in cui mi sarei dovuta imbarcare, quando ad un certo punto mi viene indicata una zona fumatori. Apro la porta della saletta e mi siedo timidamente su una poltrona. 

L'aeroporto è il luogo ideale per osservare le persone. Ma lì dentro era come se ci fosse un diverso tipo di incontro. Le persone erano tutte in silenzio, c'erano pochi gruppetti che chiacchieravano a voce non molto alta, quasi per non disturbare. Tutti o quasi erano seduti ed intenti in una delle loro consuete azioni come fosse la prima volta. Terminata la sigaretta, per poco meno di trenta secondi si guardavano intorno per poi sgattaiolare fuori e lasciare entrare qualcun'altro. 

In tutto questo meccanismo del raggiunto-lo-scopo-vado-via, del non sapere di trovare proprio dietro l'angolo ed in quel preciso istante in cui la rassegnazione aveva preso il sopravvento un luogo di silenzioso appagamento, ci ho visto una porzione, molto piccola, di vita, del nostro modo di approcciarci agli eventi, alle cose, e anche alle persone. Come quando pensiamo di non poter nulla, ed invece possiamo ma non lo sappiamo perché non scaviamo nell'immensa portata della curiosità. Come quando crediamo sia più semplice dire basta, dimenticandoci di quello che vogliamo e come combattere per ottenerlo e farlo nostro. Come quando scegliamo di proseguire soli in una strada impervia e sconosciuta, senza ascoltare la voce di qualcuno che potrà da nostra guida suggerirci il modo per orientarci. Come quando crediamo di sapere tutto, tutti i nostri programmi, le procedure, ogni simbolo di un sistema, senza conoscerne il tassello più importante: che la sete di conoscenza, la curiosità, o soltanto la voglia di scoprire per puro desiderio di andare oltre può rompere ogni programma, sminuire le procedure, sciogliere ogni sistema. 

Ed è proprio quando sono entrata in quella saletta che non pensavo potesse esistere che ho rivisto come una pellicola in bianco e nero tutti gli errori passati, quello che ho lasciato si bagnasse sotto schizzi di pioggia scivolando via lontano da me solo per paura, o pigrizia nel guardare troppo lontano. 

Ed è lì che ho capito che niente è troppo lontano, ma talvolta tutto ciò che desideriamo è esattamente dove ci troviamo, sotto i nostri occhi. A noi tocca solo saperlo vedere.

domenica 13 luglio 2014

A piedi nudi.

L'altro giorno passeggiavo e ho rivolto lo sguardo ad un gruppo di bambini.

A piedi nudi danzavano in una fontana, una di quelle con l'acqua che zampilla, in cui sarebbe vietato entrare, eppure reggevano tra le mani le loro scarpe con invidiabile naturalezza. I loro vestiti erano completamente zuppi, sui loro volti era disegnato un sorriso che avrebbe illuminato qualsiasi giornata dal tipico grigiore londinese.

E ho pensato che quella immagine di libertà sarebbe stata in fondo la stessa in cui rivedrei esattamente il mio concetto dei rapporti, dell'amore, della vita, di me da sola, di me con le persone. 

Non sono un'amante perfetta, non chiedo di esserlo. Commetto errori e lascio che gli altri li commettano per quel senso di umanità che considero sacro ed inviolabile, perché in fondo nessuno è un santo.
Considero i dettagli parte inviolabile di ogni rapporto, ed è per questo forse che la scarsa premura dell'altro nel realizzarli dando loro un peso pregevole, rischierebbe di compromettere tutto. E' per questa stessa ragione che è sui dettagli che sarei disposta addirittura a porre le basi di quel niente che si tramuta in tutto quello che basta. Rido tanto, ma piango altrettanto. Rido per quello che mi concedono, piango per quello che vorrei e che mi viene negato. Talvolta sono infantile, perché ogni donna nel suo piccolo lo é, qualsiasi età abbia: è la nostra debolezza, ma al contempo, anche ciò che ci rende più forti. E mi impegno per creare le condizioni per la felicità degli altri, anche se questo significa sacrificare la mia. E' il mio mestiere: riparo cose.

Ma la verità è che a noi donne non si perdona niente. Ogni errore, anche il più irrisorio, avrà la stessa entità di una macchia d'olio su dei pantaloni di cotone. E ci viene chiesto di dimostrare sempre qualcosa, e se non ce l'abbiamo, il nostro orgoglio è come se ci imponesse di inventarcelo, anche se questo significherebbe prendersi cura di rami oramai secchi, far nascere germogli i cui semi sarai disposta a piantarli da sola, senza che l'altro sia disposto a raccoglierli, talvolta nemmeno si accorgerà dell'attività che hai cominciato. 

Talvolta è come se a noi donne venisse chiesto di assistere ad un sport che non ci appartiene: quello del tirare la corda, sin quando i fili così assottigliati si intrecciano, ad un passo dallo spezzarsi. Ci viene chiesto di restare nel silenzio di una stanza i cui muri implorano di lasciarla. Ma la richiesta peggiore è sempre la stessa: fare la cosa più giusta.

Ed io quest'oggi ero ad un passo dal commettere la più grande giustizia verso me stessa. Sarei scesa per strada scalza, avrei raggiunto quei bambini e mi sarei tuffata completamente nelle acque di quella fontana, senza temere un raffreddore, né di come gli altri mi avrebbero descritto, né avrei temuto divieti. Mi ci sarei tuffata proprio per quel senso di proibito, perché siamo umani e non ci è dovuto fare sempre la cosa più giusta, mai. Ciò che vogliamo, anche contro le aspettative degli altri, é la cosa più giusta, sempre. Avrei goduto della stessa spensieratezza, di quella libertà che in fondo fa parte di me, che è un tuffo nella mia intimità ed in quella di chi mi è accanto, così, senza nemmeno far troppo rumore. Con i vestiti ancora bagnati avrei corso anche sotto la pioggia, annusandone il profumo che mi manca, per aspettare che il cielo si rasserenasse per dar spazio ad un tramonto in cui l'arancione dell'orizzonte si tinge al rosa di quelle nuvole sempre più piccole.

Era tutto pronto. Mancavo soltanto io.

lunedì 7 luglio 2014

Promesse.

E poi pensavo a questa cosa di farsi promesse.

Quelle che facciamo ad altri e nel frattempo anche a noi stessi.

Del tipo da-lunedì-evito-i-carboidrati, da-domani-vado-a-correre, sarò-più-paziente, farò-come-dici-tu, cerchiamo-di-mettere-un-punto-fermo. 
Pensavo a quelle che prendono forma incastonate tra vocali, consonanti e punteggiatura, che ci impegniamo ad inculcare nella nostra mente, ma che poi falliscono miseramente, come se in effetti l'incastonatura fosse poco credibile, come se mal si sposasse con ciò che vogliamo.

Eppure talvolta ci capita di vivere di promesse, di affidarci a loro come quando ci lasciamo influenzare dall'oroscopo settimanale.

Ma la verità è che sono solo parole: vocali, consonanti, poche virgole, ma nessun autentico punto fermo.

La verità è che ci facciamo incantare da cosa sembra, da cosa scegliamo di vedere o ascoltare, mai da cosa è e da cosa realmente c'è vedere o da ascoltare.

E allora vivremo di frasi dette a metà, di gesti spezzati, di voglie represse, di silenzi in un turbinio di voci rotte, di promesse non mantenute.

Perché la verità è che il chiedere promesse è l'azione più insensata al mondo. E' che ci culliamo in gesti che nulla hanno a che fare con ciò che veramente vorremmo.

E' che le promesse sono così: come polvere che tentiamo di raccogliere in un pugno, che man mano cede per la forza del vento che porta via con sé ogni piccolo granello. Perché la verità è che non basta farsi promesse, agire é sempre stata l'unica cosa che conta. Quanto l'amore, la felicità, la vita.



giovedì 3 luglio 2014

339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

Sono trascorsi 339 giorni. Pressappoco 8136 ore.
Eppure da quando ho chiuso la porta di casa, con la mia valigia rossa, ed una mente spoglia di ogni aspettativa, sembra ieri.
Ma adesso sento che sia arrivato il mio turno. Sento di dover fare un resoconto di questi 339 giorni, 8136 ore di Londra, la mia.

L'ho capito quando uscendo di casa, avrei voluto svoltare l'angolo ed imbattermi nel mare. Vederne anche uno scorcio tra un blocco di cemento ed un altro. L'ho capito quando avrei voluto gridare, ed invece dovevo sorridere. L'ho capito quando ho avuto paura, ed ho dovuto creare un'altra parte di me, quella che non conoscevo, che si è anteposta a quello che ero. L'ho capito quando avrei voluto lasciare, ed invece sono restata, come incastrata tra due cabine telefoniche. L'ho capito quando avrei voluto pronunciare parole diverse da quelle che il suono della mia voce emetteva. L'ho capito quando sono tornata al quel 29 luglio del 2013 e guardandomi allo specchio mi sono vista diversa.

Sono partita come tanti, con la prima low cost disponibile.
 L'affluenza dei giovani, in maggioranza italiani e spagnoli, che ogni mese scelgono Londra con slancio ascetico, è notevole.  Non è chiaro se stiano fuggendo dall’Italia o se è irresistibile il richiamo della metropoli con tutte le sue leggende. Non lo sanno neppure loro. Si mimetizzano alla dogana con definizioni di circostanza. Studente. Ragazza alla pari. Turista. Artista. Sembra quasi paragonabile allo sbarco dei clandestini a Lampedusa. Solo che qui al posto dei gommoni, ci sono i voli low cost. Ma il costo del biglietto non costa quanto tutto ciò che dovrai affrontare, sudare, costruire, forse ottenere, una volta atterrato in terra d'Albione.

Dire che quando sono arrivata non avevo niente, è errato. Avevo me stessa, ed è da qui che ho cominciato. Dopo 14 giorni sono riuscita ad avere una prova nel ristorante in cui tuttora lavoro: il mio mezzo di finanziamento, per l'affitto, ma soprattutto per l'obiettivo su cui ho scelto di puntare solo dopo due mesi che ero a Londra, dandomi il tempo di capire chi ero e dove volevo andare. Come dice Shakespeare: "Sappiamo chi noi siamo, ma non sappiamo chi potremmo essere". E la mia fantasia ha di gran lunga superato la mia aspettativa.

Ma Londra non è il Paese dei Balocchi, né la terra promessa. E' una città grande in cui noi immigrati ci culliamo in una solidarietà sottile, sottesa alla condivisione di aspettative importanti, tra cui quella un giorno o l'altro anche di tornare.
E' una città che ti vuole pronto, in cui sono ammessi sbagli solo se avrai la modestia di perdere e la costanza di ricominciare. E' una città che ti vuole coraggioso, astuto e caparbio. E' una città in grado di deluderti come nemmeno il peggior uomo sulla faccia della terra, ma di regalarti tanto se avrai pazienza e generosità nel darti completamente, anche oltre quello che sapevi di possedere.

Pensavo a quanto sia una città in grado di disumanizzare. Non riuscirai a capire quando sia avvenuto, ma diventi un numero, utile ma mai indispensabile. Lo sarai quando aprirai la porta di casa e ti camufferai tra la gente che corre in metropolitana o per strada consumando il proprio panino, scansando i passanti, ed anche te. Lo sarai quando andrai a lavorare, perché la tua forza fisica basterà lì ed allora perché utile, ma mai per il tuo nome, il tuo viso, il tuo modo di fare. Sarà paragonabile a quella di chiunque altro. Come una cesta con tanti numeretti da pescare: l'uno o l'altro è indifferente. Lo sarai per autodifesa perché prima o poi dovrai dire "arrivederci", perché in una città che corre, a correre sono gli istanti così come le persone che scelgono di andare via.

Questi 339 giorni e 8136 ore racchiudono il bello ed il cattivo tempo. Il dolce e l'amaro. La delusione e la soddisfazione. I saluti e gli abbracci. Il desiderare ed il rinnegare. Il volere esattamente il contrario delle proprie azioni ed il tentare di scardinare muri che non si riveleranno altro che tali. Il sudore e le aspettative. Il guardare avanti ed il restare con un piede accanto alla porta per lasciare un piccolo spiraglio di riapertura. Le persone ed i fuochi di paglia. I rapporti e quelli che chiamo solo numeri. Solitudine. Paura e voglia di vincere.

Questi 339 giorni e 8136 ore raccolgono me stessa, a Londra, la mia.