mercoledì 30 aprile 2014

Scelgo il numero sette.

Londra è una porta aperta da cui le persone entrano ed escono di continuo, come un sipario che si apre e si chiude quando la performance volge al termine. E' una porta aperta a persone che, una volta varcata la soglia, divengono numeri imprecisi, tutte uguali, sebbene diverse.
Ed è all'importanza delle persone che pensavo, come essa cambi a seconda dei luoghi calpestati. 
Sono di un paese del Sud Italia, in cui le persone si conoscono pressappoco tutte, in cui se chiedi una sigaretta ti viene offerto l'intero pacchetto, in cui i ristoranti sono pieni solo nel fine settimana perché si pranza o si cena fuori soltanto nei giorni di festa, e quelli sono una rarità. Sono di un paese in cui le mancanze si avvertono, gli abbracci sono forti, le parole sono importanti, le persone non sono tutte uguali, non sono numeri, ma hanno un volto, un nome, una propria identità. Sono di un paese in cui lo scorrere del tempo si avverte, in cui le persone che incontri divengono tuoi amici ed è probabile che te li porterai con te per l'intera vita. Sono di un paese che è una porta piccola, di quelle da cui entri sgattaiolando su di un piccolo sentiero che porta al mare, alla spiaggia, al fresco venticello tipico del mese di maggio, in cui, puoi star seduto per ore a leggere un libro mentre tiepidi raggi di sole riscaldano la tua pelle, senza mai bruciarti, ritrovando te stesso nei sorrisi della gente, la quiete nel sole che man mano si nasconde per dar spazio alla luna. 
E pensavo a quanto in fondo mi stia abituando allo scorrere veloce delle persone, che oggi ci sono, domani non più. Come se fosse una prerogativa di una città dove il tempo si percepisce in maniera diversa, dove la calma è quasi un'utopia, in cui il lunedì non è così diverso dal sabato. E pensavo alla differenza tra bisogno ed amore, inteso nelle sue mille sfaccettature. Al cospetto del primo saremo in fondo tutti uguali, numeri da addizionare, moltiplicare, dividere e talvolta sottrarre. Pensavo a quanto il bisogno sia in grado di sminuzzare il tempo, fornire la stessa maschera a tutti coloro che sceglieranno di tuffarvisi dentro, quanto sia in grado di chiudere porte con le catene, quelle stesse che per una forza, definiamola naturale, verranno spezzate. Al cospetto dell'amore anche un singolo attimo avrà importanza, anche un dettaglio varrà, per definire volti, sguardi o forme simili, ma mai completamente uguali. Ed è al suo cospetto che tutti i numeri si azzerano, è davanti a lui che le porte resteranno sempre aperte, per far entrare persone, per imparare, talvolta, anche a lasciare andare. 
Ed in questo continuo riflusso di persone, pensavo che la mia è la città dell'amore, Londra quella del bisogno. Ma se devo essere un numero, allora scelgo il numero sette. Perché il doppio suono dentale suona bene, e perché il sette è vicino al dieci, molto distante dall'uno, ma supera il cinque. Perché il sette è abbastanza, mai troppo poco, mai un eccesso. E' un numero che inconsciamente lascia pensare che vi sia un proseguo, anche ai bambini si insegna a contare almeno fino al numero dieci, al sette non ci si ferma mai. E' un numero che si pone a metà strada tra il cinque ed il dieci, tra la pianura e la cima. Ci si può anche fermare, perché in fondo il numero sette è come un giovedì nel corso della settimana: sembra un numero messo lì a caso, ma è bello perché unisce. Non esistono numeri nella prima decina che vantino questa caratteristica. Sembra gli si possa dare quasi il volto di un giovane sorridente che aiuta un'anziana donna ad attraversare la strada, una piccola porta che conduce in cima per guardare dall'alto la bellezza di tutto il paesaggio circostante, sembra quasi avere la freschezza di un vento che spazza via le nuvole, infondendoti la speranza che domani è un giorno nuovo per andare avanti. 
Così si arriva ad essere numeri, senza mai sentircisi. E allora si impara a dare ai numeri un'identità, un volto, un nome. Si impara a sentire le mancanze, lo scorrere impetuoso del tempo che come un uragano fa piazza pulita, lasciando che tutti, prima o poi, escano da quelle porte che l'amore ha lasciato aperte. Si impara ad immaginare il mare, la spiaggia, il sole, nonostante sia tutto molto distante da te. Si impara il modo di creare spazi piccoli in un enorme universo. Si impara il modo di portare amore in cui la natura farebbe sorgere soltanto bisogni. 

Se devo essere un numero, scelgo il numero sette. 

domenica 27 aprile 2014

L'ennesima lezione di vita.

"Buongiorno, può dirmi il numero del suo tavolo, per favore?"
"Ehm... sono seduto lì", indicando col dito un tavolo così lontano che mi è di solito impossibile da vedere, considerando che il ristorante in cui lavoro ha capienza per circa novanta tavoli, ed il sistema, noto per chi è solito frequentare, è ordinare alla cassa dicendo il numero del tavolo ed attendere seduti al proprio posto che il cibo arrivi.
"Mi scusi, può andare a controllare il numero del tavolo, la aspetto alla cassa".
Con aria sconfortata, si dirigono verso il tavolo. Capita spesso, nonostante tutto, che sbaglino a leggerlo. E altrettanto spesso, non ho altro modo che rivolgermi brutalmente dicendo loro "Se il numero è sbagliato, il cibo non arriva", anche se in realtà quello che mi toccherebbe fare è gironzolare tra passeggini e folle impazzite di bevitori di coca cola, da riempire almeno cinque volte alla drinks machine, per cercare il tavolo del malcapitato. Una volta ottenuto questo maledetto numero comincia l'impresa più complicata: ordinare.
Il ristorante dove lavoro è noto per preparare pollo alla griglia. Non è solo noto, diciamo che, in diversi modi, fa soltanto quello. Con l'aggiunta di salse, la maggior parte piccanti, ed è il cliente a scegliere quanto piccante lo vuole.

"Come lo vuole?"
"Normale"
"Si, dico, quanto piccante?"
"Si, piccante"
Allora non mi resta altro che allungare la mano per mostrare sul menù le diverse gradazioni.
"Sì, allora LemonAndHerb", l'unica salsa non piccante.

Nonostante rilegga due volte l'ordine, dopo aver pagato, spesso si creano incomprensioni. Del tipo che volevano le patatine e non sono arrivate perchè pensavano che arrivassero comunque anche senza averle ordinate. E spesso urlano, e sì, mi è arrivata anche qualche ricevuta in pieno viso. Si dice che il cliente ha sempre ragione, la loro si sarà persa tra le ali del pollo.

L'altro giorno un mio superiore mi ha detto che devo essere "engaging", che letteralmente significa coinvolgente, simpatica, insomma assumere un atteggiamento che attragga il cliente, nonostante mi sforzi ad essere sempre gentile, nonostante tutto. Ma la cosa che più mi ha sorpreso è stato il modo in cui pensava di spronarmi ad esserlo. Essendo a conoscenza del fatto che "scrivo", pur non avendo mai letto una sola riga, mi ha detto che dovrei sapere cosa significhi coinvolgere qualcuno, quasi come se volesse trovare una similitudine tra l'attrarre un cliente e catturare l'attenzione di un lettore. La cosa mi ha fatto rabbrividire. Gli ho detto che io non sono "engaging" di natura, ma dopo un po' ho fatto semplicemente un cenno d'approvazione, e sono ritornata al mio posto. Avrei dovuto spiegargli che vendere pollo mi fa sopravvivere in una città così grande, che comporta tante spese, tra cui quelle in cui ho deciso di investire il mio futuro. Ma scrivere, quando posso, mi fa vivere, come se fossi in cima ad una montagna a respirare aria fresca, o tornare a galla dopo una lunga apnea. Nelle cose che amo mi ci tuffo dentro, ci metto il cuore perchè è così che si fa nelle cose verso cui nutri una passione, spesso inesplicabile. Ma nelle altre, no. In quelle ci metto il sudore, le braccia, la mente, le gambe che a fine giornata riescono a reggermi a stento. Non so bene se questo sia qualcosa che abbia a che vedere con i limiti, forse sì, o semplicemente qualcosa di naturale su cui, sebbene ci lavorassi, non riuscirei mai ad attutirla. E non so se nelle mie righe il lettore riscontra un atteggiamento "engaging". Ma io, prima di far scorrere le mie dita sulla tastiera, nemmeno ci penso, perchè forse nell'amore vero, qualsiasi forma abbia, non serve, nemmeno forse lo richiede. Ma mentre tutti questi pensieri frullavano nella mia testa, senza avere il coraggio di dire la verità a lui, così convinto della sia affermazione, ho capito una cosa: per sopravvivere in un mondo così denso di angolazioni e prospettive differenti, bisogna essere come pianeti. Così flessibili da vagare in galassie spesso tra loro distanti. Ma nonostante il moto rotatorio, non sempre riusciremo ad approdarci. Pianteremo semi che porteranno a segni di vita soltanto in quelli in cui sarà possibile scorgere una qualche compatibilità, dettata dall'atmosfera, dalle forme, dal cuore.

E mentre parlava, lui me lo stava insegnando ed io ho appreso l'ennesima lezione.

martedì 15 aprile 2014

Per diventare grande.

L'estate è volata mentre ero intenta a riprendere ciò che di me era andato perduto, emozionandomi per ogni raggio di sole che riscaldava la mia pelle. Ed è passato anche l'autunno con le sue foglie ingiallite, mentre cadevo anch'io, come loro, di tanto in tanto in un'insensata nostalgia, lasciandomi abbracciare da una fresca brezza che non avrei mai pensato arrivasse a toccarmi, ed invece l'ha fatto. Ed è alle spalle anche un freddo inverno, in cui aspettavo la neve che non è mai arrivata ad imbiancare i tetti, intenta a riempire d'inchiostro le pagine di un nuovo diario. E poi, d'un tratto, la primavera, con nuovi colori, profumi ed un Sole nuovo.
E mentre le stagioni scorrevano veloci, cambiavano così anche le mie priorità, le mie giornate ed i miei weekends. Mutavano nella mia totale consapevolezza, cambiando una vita che al contempo stava cambiando me stessa, in una apparente passività che conosceva solo moti attivi, perché ero io in fondo a tenerne i fili. Come una giostra che ti fa girare, ma che va a gettone, solo se ce lo metti dentro.

E allora ho lasciato la mia mondanità, gli aperitivi, le feste, le serate in cui esci a prendere una birra che diventava una tequila con sale e limone, o più di una. Ho lasciato uomini incompresi che avevano nell'armadio ancora lo scheletro di qualche ex che riappariva d'un tratto lasciandomi inerme, suscitandomi la sensazione di non essere mai all'altezza. Ho lasciato che le mie orecchie dimenticassero il fastidioso rumore delle parole "non è scattato nulla, ma vorrei che rimassimo amici". Ho lasciato raffreddare le mani, non accettando più di prendere parte al gioco in cui si tiravano patate bollenti che sceglievo di tenere come souvenir da appoggiare sul comodino, dove avevo l'impressione di vincere, ma alla fine perdevo sempre, già in partenza.

Ho lasciato ciò che si addice, in fondo, ad una ragazza della mia età, perchè ho capito di meritare qualcosa di più. Ho cominciato ad apprezzare a svegliarmi presto, perché spesso a Londra capita di avere un cielo terso solo di buon mattino, lasciando spazio a nuvole grigie nel corso della giornata, ed io non volevo perdermelo. Ho cominciato ad amare quelle giornate in cui termino di lavorare alle quattro, perchè ho tutto il pomeriggio per studiare, scrivere, intrattenermi in quattro chiacchiere senza per forza implorare il cuscino. Ho cominciato ad apprezzare quelle poche giornate di Sole, per fare una passeggiata al parco, anche da sola, per sentire il profumo dei miei pensieri che non lascio mai appassire. Ho cominciato a godere di quelle poche uscite che mi concedo, perché la città sembra sempre più bella, sempre diversa. Ho cominciato ad apprezzare quelle serate in casa, sotto il piumone, guardando un film gustando del cibo di una qualche cucina orientale. Ho imparato a condividere uno spazio, un cuscino, un percorso. Ho imparato a fare della mia vita un tavolo da ping pong, dove schizzo come una pallina tra scuola e lavoro, riuscendo ad additare quel poco tempo che mi resta per addentare una fetta di pizza seduta comodamente in poltrona come del tempo libero, comunque. Ho imparato a credere nei miei progetti, anche se ho paura, perché se qualcun altro ci crede, allora devo farlo anch'io. Ho imparato a gestire le distanze, a convivere con la nostalgia. Ho imparato a costruire all'esterno ciò che avevo da sempre pianificato dentro di me. Ho imparato la differenza tra l'essere modesti ed il sottovalutarsi. Ho imparato che nella vita bisogna avere pazienza, che non c'è niente di bello che non sia costato sacrificio. Ho imparato a portare i conti, per essere in grado di pagare a mie spese scuola ed affitto senza mai essere costretta a chiedere aiuto. Ho lasciato che l'ambizione superasse il pregiudizio, mi sono reinventata cameriera e sono ritornata tra i banchi.

Ho lasciato una vita giovane, per catapultarmi senza misure in una vita vecchia, fatta di responsabilità e di doveri. Ma tra la roba vecchia non ci sono libroni impolverati né oggetti antichi che risulteranno dopo un po' solo ingombranti. C'è un diventare grandi ponendosi delle priorità: orecchie che ascoltano solo melodie, mani che si aprono solo a teneri abbracci, occhi che guardano ad un mondo in cui avrò ancora tanto da imparare, in cui grande non ci si sentirà mai abbastanza. Ma almeno mi sento all'altezza e vinco sempre qualcosa d'importante: un pezzo del puzzle, un tassello di vita.

martedì 8 aprile 2014

Solitudine virtuale.

Lo ammetto, sono una social network addicted. Nel senso che mi piace far parte di una comunità virtuale, dove si condividono aspetti del nostro quotidiano, si gradisce o meno, ci si segue, si "twitta" e "ritwitta". Non sono una di quelle che crede che facebook sia il male del nuovo millennio, sarà che trovo nella parola social qualcosa che mi affascina e che mi spinge ad esserci. Anche se probabilmente sono un po' all'antica: non sono affetta da selfite acuta, nè mi piace copiare ed incollare frasi che ha detto qualcun'altro o mettere su instagram le foto del cibo. Non mi piace e forse l'ho fatto solo di rado, perchè preferisco la personalizzazione in ogni singolo dettaglio, anche di quel pezzo di vita che si definisce virtuale, perchè mi piace che ogni cosa rifletta quello che siamo realmente, in un sano equilibrio tra ciò che è vero e palpabile e ciò che è virtuale e senza forma, ma non per questo meno veritiero.

Quando mi hanno parlato di Tinder ho pensato: "Ma cosa mi sto perdendo?" e allora mi ci sono fiondata, spinta dalla curiosità di capire come funzionasse. Tinder è un'applicazione che in base ad un geolocalizzatore e tendenza sessuale, ti mostra una carrellata di fotografie di gente che potrebbe fare al caso tuo. Se entrambe, cliccando "mi piace", mostrano "interesse" comincia il match e si inizia a chattare ipotizzando un eventuale incontro. Io mi sono fermata molto prima.

  1. Sono impegnata e non avrei voluto compromettermi;
  2. Si accede trasferendo sull'app le tue credenziali direttamente da facebook: avevo la foto con mia madre e a parte qualche quarantenne obeso cui la madre rassetta ancora camera ogni mattina, che ci avrebbe visto un viscerale credo nel valore "famiglia", non avrei "cuccato" proprio nessuno.
  3. Non mi piacciono i ragazzi belli, ma quelli interessanti o, a limite, quelli che mi suscitano sensazioni positive, standogli accanto, anche solo scambiandoci due chiacchiere. Chattare, verbo entrato ai giorni nostri nel comune linguaggio, significa comunicare digitando tasti del computer dietro uno schermo che non ha sembianze fisiche. Chiacchierare con una bocca che si muove, orecchie che ascoltano e occhi che ti guardano, è altra storia.
  4. Non sono alla ricerca del sesso occasionale (v. punto 1), né credo che almeno la maggior parte dei tinderers, cerchi qualcosa di diverso che abbia a che fare con amore ed emozioni affini. In Inghilterra hanno un rubinetto per l' acqua fredda e uno per quella calda. I due flussi non si mischiano. E sebbene ci si trovi nell'era 2.0, dove tutto è in continua evoluzione, non accetto che anche questo muti. Esistono le relazioni virtuali e quelle umane. Sono due cose distinte, proprio come due rubinetti. Questo postulato per me è imprescindibile, vi prego, non me lo toccate. Esistono le eccezioni, che è un po' come trovare la scritta "Hai vinto" nella confezione del Kinder Bueno.
  5. Ho cominciato a vedere nei volti di ogni passante, qualcuno di già visto, come fossero tutti presunti tinderers.
  6. Tempo speso su Tinder? Meno di 30 minuti. Il tempo di realizzare che esaurita la mia curiosità, poteva bastarmi.
Dopo qualche giorno ho guardato il film Her (Lei): uno scrittore di lettere per conto di altri,in preda alla solitudine post-divorzio, scarica un sistema operativo di intelligenza artificiale - OS1 - di cui ascolta semplicemente la voce. E sì, poi si innamora del suo computer. E fanno anche sesso"orale", nel senso che lo fanno "a voce". Fin quando "lei" scompare, ammettendo all'uomo che i sistemi operativi si stanno evolvendo e devono allontanarsi dagli umani. Ha vinto il premio Oscar per la sceneggiatura più originale. Anche se, lo ammetto, ha molto deluso le mie aspettative.
Ma ho subito pensato che in fondo potesse preannunciare un'avanzatissimo aggiornamento di Tinder: una voce al posto di fotografie ritoccate.
E ho cercato di immaginare una possibile connessione tra il Social Network ed una parola a me molto cara: persone.

Ma l'unica cosa cui ho pensato è che non c'è cosa più bella dell'avere attorno qualcuno che si emozioni per la vita, per come appare il mondo. E questa è una prerogativa umana, la più incredibile. Il male del nuovo millennio non è facebook ma si chiama "solitudine da ingabbiamento virtuale", ma vi assicuro che una cura esiste, e come al solito la troveremo nelle cose più semplici: scindendo i due mondi, ma lasciando al contempo che combacino. Apprezzando il chattare, ma desiderando di chiacchierare di fronte ad una bocca che si muove, orecchie che ascoltano, occhi che ci guardano. Gradendo un'immagine, desiderando di averla di fronte e di palparla con mano. Pensando che in fondo, siamo persone: quelle che amano il caffè con poco zucchero o che preferiscono il cappuccino, che amano la lettura o a quest'ultima preferiscono il cinema o il teatro. Persone la cui voce prende forma in frasi in cui virgole o punti saranno solo immaginari, riuscendo a penetrarti più di un corpo sordo, muto e cieco. Persone che in fondo sono portatrici di qualcosa che un oggetto inanimato non riuscirà mai a donare in egual portata: le emozioni.

Lasciamo che il 2.0 faccia solo ciò che manchi nelle abilità umane: accumulo dati e resettare come se niente fosse mai esistito. Il resto, è nostro.

lunedì 31 marzo 2014

Perchè è bello essere terroni.


Qualche anno fa mi è stata rivolta un'insolita domanda. Sapete quelle domande che vorresti non ti venissero mai rivolte, e non perchè non vuoi svelare quale sia la verità, ma perchè oltre ad ignorare la risposta, ignori il senso della domanda stessa. Lei, che antepone gli articoli determinativi ai nomi propri di persona, mi fa: "Io ed il mio ragazzo andremo in vacanza a Napoli quest'estate, e gireremo per tutta la costiera", ed è lì che mi aspettavo una domanda su quali sarebbero state le immancabili tappe, quando invece se ne è sopraggiunta un'altra: "Volevo chiederti, ma posso indossare l'orologio?Cioè, posso o c'è il rischio che me lo rubino?"
Alquanto imbarazzata e con il volto dell'umiliazione, nonostante avrebbe dovuto sentircisi lei, le ho risposto nella maniera più diplomatica possibile dicendole che avrebbe potuto tranquillamente indossarlo, con la solita attenzione che ognuno impiegherebbe per ogni oggetto di valore che indossa quando si è in giro in una grande città piena zeppa di turisti. Avrei voluto propinarle una battuta, ma probabilmente l'avrebbe presa troppo sul serio, da una che ti fa domande del genere pur avendoti in altre occasioni a stento salutato, cosa ti aspetti? Ma sicuramente questa è in cima alla mia TopTen delle domande alla-cazzo-di-cane, prima del "Quando ti laurei?" e "Cosa fai a Capodanno?"
E presumo che abbia cominciato forse in quel momento a spargere i semi della mia misantropia, tendente per lo più ad una misoginia arrivata probabilmente ad uno stato di metastasi, insomma, ad un punto di non ritorno. Sono nata a Napoli, e non me ne sono mai vantata, fin quando ho cominciato a girare per l'Europa. Quando mi presentavo e tuttora mi presento ad estranei la prima parola che mi viene detta è camorra. La seconda è pizza. La terza è Berlusconi, il che mi fa sentire meno in colpa, perchè è come se si parlasse di un'idiozia tutta all'italiana, non soltanto del Sud. Qualcuno mi ha anche detto che dalle sue parti si dice che a Napoli si gettano i mobili inutilizzati dalla finestra, simpaticamente gli ho risposto che forse si riferiva alla defenestrazione di Praga. Lui mi ha guardato perplesso, forse a scuola non ne ha mai sentito parlare, o forse, non ci è nemmeno mai stato. Oggi, lontana dalla mia città, capisco il senso dell'appartenenza, quello che scorre nel tuo sangue e ti rende parte di un luogo geografico nonostante sia andata via. Ed oggi capisco la bellezza dell'essere terrona, il senso di protezione che devo alla mia terra, malandata e disgraziata, ma pur sempre la mia, che forse non darà alcunchè al mio futuro, ma un sorriso quando solo ne sento parlare.

Ma che significa essere terrone?

Dimostrazioni.
Il terrone che sbarca in terra straniera - ove per straniera reputo, a questo punto, anche il Veneto autoproclamatosi illegittimamente indipendente per una spinta egocentrista - deve dimostrare subito una cosa: essere una brava persona, anche se pronuncia le "e" aperte. Perchè c'è questo luogo comune dell'essere imbroglione, di chi, quando può, fotte. Non vi do tutti i torti. Ma c'è questa innata sensazione dentro di me, come se volessi dire: "Mi chiamo Antonia, sono del Sud, e sono stata educata, come voi, se non di più", che non se ne va. Dimostrare di valere il doppio. Non ci viene posta nessuna richiesta esplicita. Ma è un po' come se ce la sentissimo addosso, come un olezzo pungente, un po' per smorzare anche luoghi comuni.

Nonni.
Il terrone ha presumibilmente nonni terroni. La nonna del Sud, non prendiamoci in giro, non è come la nonna di Milano. La nonna terrona ti sveglierà con la tazza di latte ed il caffè ancora bollente sul tavolo con la domanda "cosa vuoi per pranzo?" nonostante siano ancora le otto del mattino. Il non avere appetito equivale al non stare bene. E non importa se dopo un'abbondante piatto di pasta nel tuo stomaco c'è spazio solo per una polpetta e non per le tre grosse che ti aveva conservato, se non le mangi tutte non stai bene, hai bisogno di farti delle analisi. C'è mia nonna materna che prepara le sue famosissime melanzane sott'olio, più che sotto l'olio vi sprofondano sulla superficie del contenitore come piombo su un fondale marino. Quando mia sorella le dice di essere a dieta, lei quasi irritata le dice: "Ma tanto è verdura". Ed in fondo ha ragione.
La nonna terrona diventa la tua seconda mamma, la baby-sitter che tutti desidererebbero, la tua ancora di salvezza - soprattutto se hai fame -, la tua banca che ti passa di tanto in tanto la famigerata "mazzetta" in stile pusher, per non farsi notare. 

Cibo.
Lavorando in un ristorante in stile fast food, mi capita di imbattermi in intere famigliole che consumano lì il loro pranzo domenicale. E mi sento quasi fortunata ad essere, nei geni, una terrona. Perchè ricordo mia nonna o mia zia o anche mia madre svegliarsi presto di domenica mattina per preparare dei piatti succulenti, di quelli che si cucinano quando si ha tempo ed in occasioni speciali. La domenica, per esempio, è un'occasione speciale, perchè nessuno avrà altri impegni, si è tutti insieme, dal primo al dolce. E non c'è nulla che possa essere definito "fast": andiamo piano, con calma. Durante lunghi pranzi attendiamo anche quaranta minuti prima di servire il resto, per digerire e gustarlo meglio. Ci piace così, mangiare "slowly". Quando passo per i tavoli chiedendo loro se il cibo è di loro gradimento, il più delle volte mi rispondono che quel pezzo di pollo cucinato sulla griglia e delle patatite imbevute di olio da motore sono semplicemente deliziosi. Io faccio un respiro e mi trattengo. Se non lo facessi mi ritroverei a gettargli in viso il piatto e a far arrivare mia nonna con il teletrasporto, con una parmigiana di sette chili, dopo aver fritto una decina di chili di melanzane per l'intera mattinata. Con una pasta al forno croccante in superficie, ma morbida all'interno, perchè accompagnata da ragù e da uno strato di mozzarella filante catalogata fra le sette meraviglie del Mondo. 

Caffè.
Per chi vive al Sud, ma soprattutto nel territorio partenopeo, l'andare a prendere un caffè non equivale necessariamente a berne una tazza. Il caffè può diventare una birra, un aperitivo, un sandwich. E' un modo per intrattenersi tra una chiacchiera e l'altra quando si è in compagnia, l'unico che conosco per svegliarmi. "Sì ma l'English breakfast è più ricca". Per voi, finti radical chic, forse. Dite quello che volete ma, al mattino ci vuole caffeina. Caffeina vera, non acqua colorata di marrone, che poi, è un marrone manco tanto scuro. Non pancetta e uova, con quella ci faccio la carbonara per pranzo. Provatelo a spiegare alla nonna terrona. Vi guarderà con due occhi spalancati e magari vi dirà: "Bevi prima il latte con il caffè, mangia due fette biscottate, una fetta di panettone, questo te lo porti, se ti viene fame dopo, prima di pranzo".

Famiglie allargate.
Sembra quasi di vivere nella soap opera Beautiful, ma quello delle famiglie allargate è un dato che ci contraddistingue. La figlia della tua migliore amica diventerà tua nipote, pur non avendo con lei alcuna familiarità, amici di famiglia diventeranno i tuoi zii, il fidanzato di tua sorella diventerà il fratello maschio che non hai mai avuto, i tuoi amici saranno fratelli acquisiti, che chiameranno tua madre per nome e seguiranno in salotto il campionato di calcio con tuo padre. Quello che è mio, diventa anche tuo. Tutti una grande famiglia, ma nulla di perverso alla Brooke Logan. 

Mare.
Spostandoci in grandi metropoli, ci illuderemo di aver scoperto di essere affetti da metereopatia. Ci ammaliamo per il clima uggioso, per la pioggia, il vento e l'umidità. Non saremo metereopatici. Quella è mancanza di mare. Ogni tanto, lo ammetto, spero di girare l'angolo e di ritrovarmi su di un bagnoasciuga. Ogni tanto avremo il desiderio di vederlo, solo per gettarvi i pensieri che sembra svaniscano, per essere al cospetto di qualcosa che nonostante dicano sia infinito, non ci farà mai paura.



Mi chiamo Antonia, dicono di me che sono una brava ragazza. Mi manca la parmigiana di melanzane preperata con cura da mia nonna. Al mattino, per svegliarmi, bevo un espresso, di quelli belli forti. Ho un cognato-fratello, amiche-sorelle, amici di famiglia che chiamo zio e zia. Mi manca il mare, il suo profumo, la brezza che inumidisce la mia pelle. Sono una terrona, ma non amo gli orologi da braccio, per questa ragione non li indosso.




lunedì 24 marzo 2014

Imparare da quando si era bambini.

Ogni tanto ho un'insolita paura: quella di non essere, un domani, in nessun vecchio album di fotografie, da sfogliare di domenica pomeriggio, quando fuori piove e si diventa nostalgici.
Quella, in fondo, di non essere nei ricordi di nessuno, nonostante io ne abbia parecchi.
Quando ero piccola, per esempio, non ricordo di essere mai stata seduta sulle ginocchia di mio nonno paterno, ma sempre di fronte. Ero la prima nipote, quella grande, ed è per questo che forse mi ha sempre trattata da adulta. Lo faceva con le sue domande su quali fossero le mie prospettive di vita, seduti al tavolo, uno di fronte all'altro, come il maestro e la sua allieva. Come quando mi chiedeva cosa volessi fare da grande. Al contrario di molti bambini, non ho mai sognato di fare l'astronauta. Volevo fare la scrittrice. Ma nonostante la mia giovane età, mi ponevo anche alternative nel caso in cui non ci fossi riuscita: la scultrice o la pittrice. In poche parole, avrei voluto essere un'artista. Mio nonno mi trattava da adulta, nelle domande, quanto nelle risposte. E allora mi fece presente che non avrei avuto bisogno di una rigida istruzione per fare tutto questo. Ed è per questo che forse ho represso tutto d'un tratto i miei desideri: perchè sin da piccola ho creduto che una buona educazione fosse la base per poter condurre una vita fatta di successi. Nessuno mi disse che avrei potuto fare entrambe le cose, l'ho capito strada facendo, quando sono diventata grande sul serio.
Appena ho imparato a leggere e scrivere, mi dilettavo nella scrittura di pensierini, su piccoli fogli di carta, che accartocciavo con cura e riponevo dietro la statua della Madonna, che mia nonna aveva sul mobile della cucina durante il mese di maggio. "Lei ti ascolta", mi diceva nonna, e allora ogni tanto le scrivevo, un po' come quando si scriveva a Babbo Natale, o come quando si credeva nella fatina dei denti. Un giorno però non ero a casa dei miei nonni, ed in casa non c'era nessuna statua cui potessi affidarmi, e allora dato che nonna mi aveva detto che "la Madonna ci ascolta sempre, ovunque noi siamo", ho incominciato a fare una preghiera, stringendo le mie manine più forte che potevo. La mia generazione è nata nei tempi in cui alle elementari esisteva una sezione, che comprendeva due classi, due diversi moduli. Io ero nella sezione F, modulo G. Ma per qualche strana ragione, le insegnanti avevano deciso di spostarmi nell'altra classe, nel timoroso modulo E. Io non ci volevo stare. Volevo i miei compagni. E allora chiesi alla Madonna di far tornare tutto come era prima. Il giorno seguente, appena entrò la maestra, mi disse di tornare nell'altra classe. Ricordo che in quel momento capii che i tuoi desideri diventano realtà, solo se realmente ci credi con tutto te stesso. Se lo fai, stringendo forte le mani sino a farle sudare, qualcuno ti ascolterà.
All'età di otto anni cominciai a scrivere il mio primo libro: Polvere di Stelle. Presi un vecchio diario, di quelli che si chiudevano con il lucchetto, e lo riempii scrivendo a mano almeno una ventina di racconti frutto della mia fantasia. Ognuno era intervallato da giochi o quiz che avrebbero intrattenuto il mio lettore immaginario. Quando mia sorella lo ebbe tra le mani, lo distrusse con una serie di scarabocchi. Anch'io ero piccola e ci rimasi molto male, ma pensai che avrei potuto un giorno scriverne un altro, e che quello era in fondo soltanto una bozza.

E' vero forse che il nostro presente è, in fondo, un tempo assurdo, in cui viene chiesto di mantenere l'ingenuità e la freschezza dei bambini, anche se non lo si è più, ed alimentare quella saggezza che cresce solo in età avanzata. Oppure possiamo fare una cosa più semplice, restando nel nostro presente: imparare da noi stessi, ricordare quello che si era quando ancora ci chiamavano bambini. E oggi capisco di aver imparato dai miei nonni le cose più importanti, quei pilastri che pur sgretolandosi man mano che l'età avanzava, con il tempo si sono ricostituiti:

  • la fantasia non è solo una prerogativa dell'infanzia, ma può accompagnarci per tutta la vita. A nulla serve reprimere passioni o desideri, perchè il destino avrà già scelto per noi, e quello che ci viene chiesto di fare è solo di assecondarlo.
  • Non bisogna mai smettere di credere in qualcosa. Possiamo chiamarlo Dio, fato, karma, o semplicemente qualcosa di superiore, in cui confluiscono forze positive, che ci permettono di credere che c'è sempre una via d'uscita, che la felicità non appartiene solo ai protagonisti di un film o ai personaggi di un libro di fiabe, ma è una cosa meravigliosa che può toccarci se non smettiamo mai di crederci, se mettiamo un tassello ogni giorno, se stringiamo forte le mani, quanto i denti, e andiamo dritti per quella strada che il nostro cuore avrà scelto di percorrere.
  • Che c'è sempre una seconda possibilità, ma anche una terza, una quarta, una quinta, cento, mille. La vita stupisce, ma anche noi possiamo stupirla. Lei, che ogni giorno ci abbatte e ci rialza, in un ciclo continuo di scommesse, sconfitte, e vittorie.
E tutto è già ricordo appena un istante dopo averlo vissuto. Ma i ricordi insegnano. Tutti.

venerdì 21 marzo 2014

L'uomo che spazzava via le briciole.

L'altro giorno percorrevo la strada che faccio di solito, sempre con immancabile fretta, quando mi è capitato di rivolgere lo sguardo ad una coppia di anziani seduti dietro ad un bancone di un fast food.
L'uomo scrollava con delicatezza le briciole cadute sulle gambe della donna, reggendo nell'altra mano dei tovaglioli, pulendole il viso mentre mangiava.
E allora ho pensato alle due categorie di uomini esistenti su questa Terra: quelli che lanciano a te patate bollenti, da tenere nelle mani mentre pian piano la tua pelle si brucia, costringendoti, prima o poi, a farle cadere come l'ennesima palla di cristallo che si frantuma sul pavimento, e quelli che invece con premura e sottile tenerezza, si addossano il compito di spazzare via le briciole, di persone vuote, di carezze mancate, di un passato di solitudine, lasciando che tu stia lì semplicemente a guardare.

L'altro giorno lui è arrivato con un pacco pesante, chiedendomi di aprirlo. Dentro c'era una macchina del caffè. Ho sempre ricevuto scarpe, borse o qualsiasi altro accessorio che, si sa, fanno sempre felice una donna. Ma lui, con l'ingenuità di un bambino mi ha detto che poichè mi lamento della ciofeca che in Inghilterra propinano come caffè, avrei potuto adesso preparare in pochi minuti un espresso, come facevo di solito a casa mia.
Ogni tanto, quando sto male, mi prepara dei piatti genuini, caldi, di quelli che mi avrebbe preparato mia madre.
I primi tempi, chiesi timidamente di fare una doccia, perchè dovevo lavorare e andavo di fretta. Mi ha preso un accappatoio dicendomi di non averlo mai usato, e che potevo lasciarlo in bagno perchè sarebbe stato mio da quel momento. E lì ho pensato ad un'altra sottocategoria di uomini: quelli che aprono gli armadi, facendoti entrare negli abiti della loro vita, e chi, non appena osi lasciare il tuo spazzolino nel bagno, lascia sull'uscio della porta le tue valigie, perchè è l'uomo del ognuno-i-suoi-spazi, dell' andiamo-con-calma, del ho-ancora-lo-scheletro-della-mia-ex-sotto-il-letto, del non-ho-tempo, del non-ho-voglia-di-cose-serie-adesso-ma-solo-pensare-alla-mia-vita.

Litighiamo spesso perchè non siamo perfetti. Ma il punto è che l'amore non chiede di esserlo. Spazza briciole, per costruire edifici in cemento armato, con tante porte e finestre di ogni misura, da cui entrare quando fuori piove, ed uscire solo se si vuole, solo se fuori c'è una bella giornata di sole, insieme, o anche da soli. Non conosce nessuna dimensione spaziale o temporale, non ascolta il tempo, non guarda al passato e la generosità è una sua appendice.

Ho ricevuto così tante patate bollenti tra le mani, che mi ero illusa di poter diventare un'esperta nel mantenerle, nonostante la pelle bruciasse. Ma oggi capisco che non vi è cosa più umiliante di scottarsi per qualcosa di bollente solo per l'involucro, ma all'interno freddo, vuoto. E ho capito che questo è un sentimento solo per donne fiere, e per uomini che sanno osare, per quelli che non giocano con la vita, ma rendono la vita il gioco più emozionante che ci sia.

Quando sono triste mi dice sempre: "Everything is gonna be fine, Antonia". Ed io lo credo.