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domenica 18 settembre 2016

Come granelli di sabbia

Pensavo non sarebbe mai accaduto ed invece quei giorni sono arrivati anche per me.
Quelli in cui non avevo più parole. Nè da pronunciare, e nemmeno da scrivere.
Quelli in cui ho deciso di cristallizzare tutto.
Di bloccare un flusso di sensazioni che sapevo stesse sgorgando, ma l'ho lasciato fare, impedendo a quella mia sfrontata attitudine di mettere tutto e tutti sotto esame di prevalere.

L'ho fatto quando ho capito che avrei potuto evitare di porre un'etichetta su tutti i pezzettini della mia vita che con cura avevo deciso di ricostruire, mettere insieme, per poi forse accorgermi che non era insieme che dovevano stare.

L'ho fatto quando ad un certo punto ho capito che la vita talvolta può essere come un elastico: torna sempre tutto indietro. E laddove non lo faccia, è indietro che lo dobbiamo lasciare, ma a noi spetta di andare avanti.

L'ho imparato, con il trascorrere dei giorni, quando forse mi sono resa conto che per tanto tempo mi sono dimenata nel tentativo di cogliere il momento giusto, che costantemente mi facevo sfuggire tra  le mani come granelli di sabbia portati via dai primi venti autunnali.
Quando ho capito che forse la vita non vuole che tu sia sempre puntuale, ma imparerai ad esserlo nel momento giusto.
Ed arriverai prima tu e poi lui.
Lo attenderai sul ciglio della porta quanto basta.
Lui busserà alla porta.
E riuscirai a prenderlo.
Perché vi riconoscerete.
E vi stringerete forte.

E non c'é forse più nulla che per il momento vorrei conoscere.
Mi basta quello che sento. Quello che vivo.

Che non possiamo passare un'intera vita ad etichettare tutto come fossero mono porzioni da riporre in frigorifero e scongelare quando crediamo faccia comodo.
E nemmeno investire tutte le nostre energie nel creare qualcosa che non sia destinato ad esistere quando sentiamo che non lo sia.
Nè limitarci. O pensare che sia sempre il momento meno propizio.

Possiamo soltanto sdraiarci con la schiena sul mondo e lasciare che questo dipinga per noi contorni di paesaggi mai esplorati.
Quelli che non avevamo mai pensato di poter toccare.

Perché forse preferisco vivere così.
Scegliendo che selciato calpestare, lasciandomi a tratti portare via dalla forza del vento.
Con la profondità di chi sceglie sempre di sentire tutto, ma la leggerezza di chi talvolta sceglie anche di non pensare, lasciando che vada tutto così: come granelli di sabbia portati via dalla brezza.

Perché tanto lo so già: andrà tutto bene alla fine, e se non andrà non sarà la fine.

domenica 28 agosto 2016

Sentire


Ci ho impiegato ventisette anni per capirlo.
Che non possiamo costruire ali di cartone a qualcosa che per sua natura non era destinato a decollare.
Che la paura d’innamorarsi è giá una forma d’amore, silenzioso.
Che non esistono momenti perfetti, ma ogni attimo può permetterci di raggiungere quella perfezione che, nonostante le sue sbavature, possa appartenerci.
Che la vita é troppo breve per non maturare il coraggio di tuffarvisi dentro, sino forse a rischiare di annegare. Ma avremo vissuto soltanto quando avremo imparato a lasciare le cose a noi non destinate. Ed anche a restare. Quando qualcosa ci fa sentire che potrebbe essere una cosa bella. Quando la sentiamo. Solo in quel caso.
Che la complicità é anch’essa una forma d’amore, eppure la più sottovalutata.
È un brivido. Un pugno allo stomaco. Succede e basta. Nessuno può evitarlo.
Non te lo puoi far venire nel tempo. Non puoi fartelo dare di proposito. E nemmeno affaticarti per porne le basi.
Che se avesse un suono sarebbe una risata fragorosa, di quelle che ricordi perchè intanto ti ci guardi negli occhi e capisci, prima di ogni cosa, che tu esisti, sei vivo, ci sei.
Ma che potrebbe averne anche un altro, che sentiremo a fatica o che avremo paura di sentire. Tipo tac. Sí proprio quello. Tac.
Che non si può evitare qualcosa che in noi si sia già insinuato.
Che quando un giorno, per caso, avrai imparato a scegliere, attorno a te tutti ti sembreranno immobili. Incapaci. Inutili. E tu non vorrai nè potrai impartire lezioni su come si faccia, perché lo saprai già: che non si può salvare chi non vuole essere salvato.
Cosí, a fatica, ti sforzerai di imparare un’altra cosa: cancellare, tutto quanto, nonostante dentro di te i giardini appaiano già in fiore.

Ma se c’è una cosa che mi sono sempre chiesta non riuscendo a venirne mai a capo è se tutti abbiano la stessa capacità di sentire.
Perchè ho sempre fatto lo stesso errore, io.
Pensare che tutti fossero in grado di sentire nello stesso modo.
Pensarlo, forse, anche soltanto perchè lo stessi facendo io.
Ma forse ho scoperto che anche quando te lo fanno credere, in realtà non lo stiano facendo.
Pensano di farlo, non ammettendo a se stessi che quello non è sentire, ma il bisogno di farsi accettare, per quello che non si è.

Cosí come quando penso alle forme infinite di comunicazione e quella che ognuno di noi pensa di scegliere, quando forse è invece lei a scegliere noi, quando hai bisogno di esprimere quello che senti.

Ed è forse per questo che abbia scelto di scrivere.
O forse è stata lei a scegliere me.
Come tutte le cose che devono appartenerci di diritto e farà di tutto per imporsi nella nostra vita, anche quando tenteremo di scacciarle via.
Come tutte le cose che potrebbero apparire pericolose, solo per la loro tendenza a distruggere piani precostituiti, rompere reti, aprire cancelli che avevamo chiuso con la doppia mandata.
Poi un giorno, per caso, capisci il motivo perchè tu e lei vi siate scelte.
Perchè gli ho sempre dato troppo valore.
A quelle parole che non riesco mai a dire.
A quelle che nascondo dietro altre.
Perchè forse mi sono sempre fatta bastare quello che sentivo.
Pensando lo potessimo fare tutti nello stesso modo.
Perchè ho sempre attribuito un significato ad ogni dettaglio.
Pensando che lo vedessero anche gli altri.
Lasciandomele bruciare dentro.

Poi ho immaginato che se ci si tiene sempre tutto dentro è come se non avessi niente.
E non per il bisogno di dimostrare ad altri quello che si è.
Ma perchè, forse, potrebbe farci sentire meglio.

Ed io voglio imparare un’altra cosa.
A non avere paura della felicità.
A non temere quando sento troppo.

Perchè comunque andrà a finire, me lo ricorderò per sempre: sono viva.

E se altri non riescono a sentirlo, devo ricordarmi anche questo: se lo sono è perchè ho scelto di esserlo. Fino in fondo.

domenica 21 agosto 2016

Dalla A alla Zeta

Pensavo che andare al supermercato da sola e mettere in tavola monoporzioni mi avrebbe fatto male.
Credevo che l'entusiasmo di imparare a cucinare qualcosa che andasse al di là di un piatto di pasta sarebbe gradualmente svanito.
Cosí come osservarmi dall'esterno tra le pareti bianche di una stanza a cui avrei dovuto regalare ancora una volta il mio profumo, i miei colori, in parte anche il mio nome.
E cosí come riempire gli spazi vuoti e silenziosi di musica, film, tanti libri.
Poi mi sono accorta che avevo fatto già tutto.
Sin dal momento in cui avevo deciso di muovere il mio primo passo.

Allora ho pensato a tutte quelle volte in cui mi convincevo dell'idea che se ci piace A non possiamo desiderare anche Zeta.
A tutte quelle volte in cui mi convincevo che A dovesse essere la mia vita per sempre.
E a tutte quelle in cui mi dicevo che Zeta sarebbe stato soltanto un desiderio inconscio che non sarebbe mai esploso, altrimenti avrebbe rovinato tutti i miei piani.

Poi ho realizzato che se la vita decide di prendere pieghe inaspettate sia un buon segno, perché significa che ti stai muovendo.
Che cucinare da sola non è poi così male, così come ripartire da pareti bianche su cui dipingere il tuo nome ancora una volta e riempire la solitudine di musica, film e tanta lettura.
Non immaginavo di stare bene, e forse addirittura felice.

Mi sono ricordata che tanto tempo fa avevo scelto A.
Ma non perché disdegnassi Zeta.
Credevo che A potesse sopperire a tutte le mie mancanze.
Immaginavo fosse la scelta giusta perché forse tutte le altre si erano sempre rivelate malsane.

Ma col tempo ho appurato che può accadere: di desiderare due cose diametricalmente opposte.
Di desiderare Zeta, pur restando in A.
Di convincerti che è con A che devi stare, pur immaginando che raggiungendo Zeta tu possa conoscere un'altra parte di te, quella a cui molto spesso non attribuiamo pari dignità soltanto per il suo essere qualcosa di inconscio. Ma esiste, é reale, é ciò che ci rende autentici.
La sfida sta nel cacciarlo fuori. Rischiare di essere felici, di avvicinarci a quell'essere donna o uomo cui abbiamo sempre immaginato di tendere.

C'é stato un momento in cui ho avvertito tutto il peso di quelle scelte fatte soltanto perchè sembravano giuste. Quel momento in cui ho assunto consapevolezza che avrei forse perso l'occasione di compiere scelte che non si collocavano in alcuna logica di giustizia, ma le avrei sentite, rumoreggiare nel mio stomaco come schegge impazzite.

Così ho capito che esiste anche un'altra opzione.
Che sia necessario trovarsi in A per accorgersi un giorno, per caso, di volersi invece tuffare in Zeta.
Che la vita ci pone dinanzi al confronto ripetutamente per lasciare a noi la facoltà di scegliere da che parte tendere, pur indicandoci quale sia la strada più appropriata, facendocela sentire già nostra.
Ma non ci regala consapevolezze, né il coraggio di scegliere.
Scoprire chi siamo spetta a noi, in cui maturare la facoltà di sentire il nostro battito cardiaco riveste un ruolo fondamentale.

Ho capito di desiderare Zeta da sempre.
E potevo scoprirlo soltanto vivendomi A, sino ad ossidarmi.
Sono questi i miracoli della vita.
Essere in grado di ascoltarla, anche quando tutto intorno a te appaia muto.






mercoledì 10 agosto 2016

Prendetela, questa vita

Tutto dovrebbe essere come un dolce dondolio, la cui intensità si percepisce dalla forza con cui ci si abbandona ed il desiderio dalla costanza di non smettere mai.
Come un soffio di vento che ti scompiglia i capelli che non riesci a toglierti dalla fronte.
Come una goccia di rugiada che si poggia sui primi fiori di primavera.
Come un'armonia che sa di leggerezza, perché allo stesso tempo ti incanta creandoti un vortice dentro e te lo riempie.
Come una bussola dietro cui perderti, per visitare luoghi prima mai esplorati.
Così che si possano ridisegnare i contorni, anche quando apparivano già calcati.
Sceglierne i colori, ed anche i profumi.

Ecco. È cosí che immagino la vita. O la più alta forma d'amore, verso l'altro, ma soprattutto se stessi.

Come uno spicchio di vita in cui ci siano dentro tante cose.

Di quelle che apparentemente sembrino non avere un senso logico, ma riscaldano, perché ti fanno sentire pienamente te stesso.
Di quelle che dondolano, come un'altalena su cui siede un bambino che chiede al papà di spingerlo sempre più forte, immaginando di poter toccare il cielo con un dito.
Di quelle che ti soffiano in faccia purché tu riesca a vederle e non riuscire ad ignorarle.
Di quelle che ti rinfrescano, sentendoti sempre come un bocciolo in primavera.
Di quelle che ad un ritmo incalzante ti si insinuano dentro e fanno rumore, come il suono di tamburi.
Di quelle leggere, che riempiono e svuotano ad un andamento costante.
Di quelle che il cuore te lo fanno in mille pezzi e te ne restituiscono uno nuovo il cui battito sarà accelerato quanto basta per sentire tutto quello che non credevamo possibile.
Di cose semplici, ma autentiche.
Mai banali.
Semplici.
Come una poesia a rima baciata.

Perché se c'è una cosa che ho imparato mentre mi affaticavo a rimettere in ordine i pezzi con l'ostinata caparbietà di oscurare pensieri che consideravo malsani solo perché non si sposavano con quanto la realtà invece raccontasse, è che non abbiamo nessun dovere, di dire o fare, se non quello di sentirci felici.
Pienamente. Follemente. Con tutta la passione che abbiamo dentro.
Che non significa vivere in una realtà avulsa dal quotidiano.
Ma plasmarla, a nostra immagine e somiglianza.
Così da lasciare sempre il nostro profumo.
Così da avere sempre un cuore pieno abbastanza da lasciarne pezzi a caso qua e là, per far sì che siano quelle le nostre impronte.

Si dice che le cose semplici siano quelle più belle.
E le cose belle hanno bisogno di profondità.
Quelle che spettano solo a chi ha il coraggio di osare.
A chi si munirà di occhi belli, così da poterle guardare.
Da trattenerle, in quello spicchio di vita, finché si è in tempo.

Afferratela allora, questa vita.
Prendetevela, tutta questa vita.



domenica 7 agosto 2016

Creatrice di momenti

Ho creduto per un attimo che questa città stesse diventando troppo grande.
Troppo per trattenermi senza che mi sgretolassi.
Troppo per le mie aspettative.
Troppo per ricostruire una dimensione dalle pareti morbide e schizzi di pittura colorata versati a caso.

L'ho pensato quando gli ero seduta di fronte, portandomi le dita alla bocca, come una bambina inesperta che si chiedeva come e da cosa potesse cominciare.

Ho per un attimo avallato una tesi che non mi è mai appartenuta fino in fondo.
Quella secondo cui le cose giuste arriveranno sempre al momento sbagliato, mentre le sbagliate sempre nel momento più propizio che ci renderà pronti ad afferrarle e a trattenerle, chi lo sa poi per quanto altro tempo ancora.

Poi mi sono ricordata di quanto fosse importante la parte che si svolge nella creazione di un momento.
Come un attore sul palcoscenico che dimentica il copione e deve andare avanti sperimentando l'arte dell'improvvisazione.
Quella intelligente, che stimoli, che mantenga l'attenzione di tutti. Quella in cui se sarai bravo abbastanza troverai un filo logico che metta in fila una serie di battute che ad un ritmo incalzante condurranno alla fine della storia, così come all'inizio di scoperte importanti: qualsiasi siano le condizioni, basta volerlo.

Ed è stato allora che l'ho capito.
Che avrei potuto scegliere di diventare una persona che non sente più niente.
Che si ciba di decisioni altrui per timore di prenderne di proprie.
Che di fronte ad un bivio si domanda quale sia la strada più comoda da seguire.
Che si racconterà un'altra storia.
Che fingerà di non ascoltare il rumore che ha dentro.

Ma ho scelto di diventare una creatrice di momenti.
Una di quelle che in un giorno di sole i cui raggi, filtrando attraverso i vetri della finestra, riescono a riscaldare l'ambiente, decide di spazzare via le foglie ingiallite per piantare nuovi semi.
Quando nessuno se lo sarebbe mai aspettato.
Quando tutti credevano non potesse mai accadere.

Perché quando lasci che un pensiero si insinui con prepotenza nella tua mente, sarà già fatta e toccherà a te porre rimedio, creando un momento.
Perché quando inizi, non potrai tornare indietro. Dovrai creare momenti che ti spingano in avanti.
E se avrai dei dubbi su quale sia la strada giusta da seguire, ascolta il rumore che hai dentro.
Sarà la via segnata dal tuo destino, forse.

Così, mentre ero intenta ad immaginarmi ancora troppo piccola ed inesperta, ho scoperto che questa città mi volesse far capire quanto grande fossi diventata e quanto ancora potessi esserlo.
Altrove.
Con un carillon sul comodino e le valigie sotto il letto.
Con delle tende retrò ed un lampadario improvvisato alla carlona.
Con delle candele aromatiche riposte sulle mensole.
Con tutta quella vita che mi porto sulle spalle.
E con quella che ancora riesco ad immaginare.
Con una casa da dover ricostruire, mattone su mattone.
Una di quelle meravigliose perché ci sarà dentro tutto quello che sento, che sono diventata e a cui non vorrò più rinunciare: il mio cuore.



mercoledì 3 agosto 2016

Scatole di cartone

Circondatevi di persone che conoscano non soltanto l'odore del mare, ma che sappiano meravigliarsi al suono di ogni sua onda.
Che sappiano guardarlo ed ascoltarlo come fosse una creatura da ammirare, la più meravigliosa mai incontrata prima. Che con cosciente onnipotenza ne constateranno la grandezza, ma sempre ad un passo dal sentirsi della sua stessa portata: infiniti.

Circondatevi di persone che sappiano ridere.
Che amino danzare a pieni nudi sotto la pioggia.
Che indichino col dito l'arcobaleno come fanno i bambini.

Circondatevi di persone che parlino il vostro stesso linguaggio.
Del corpo.
Della mente.
Del cuore.
Lasciatevi trascinare in questa danza, ammaliante tanto quanto pericolosa.
Perché quando oramai avrete imparato a ballare, non riuscirete più ad uscirne.
Ma vi concederete la più bella delle melodie mai ascoltate prima in cui i vostri piedi non saranno mai stanchi di battere il selciato.

Circondatevi di persone che abbiano degli occhi in cui sarete in grado di riconoscervi.
Bocche che sembreranno fatte apposta per toccarsi.
Orecchie che non vorranno sentire altro che il suono della vostra voce.

Circondatevi di persone che spruzzino libertà da ogni poro della pelle, cosí da raccoglierla a piene mani.
Circondatevi di quelle che sprigionano un'energia tale da generare una continua espansione, dentro e fuori.
Di quelle cui non avrete mai paura di mentire, perché sarete sempre così come siete, senza alcun freno. Senza nessuna paura.

Circondatevi di persone che sappiano sentire, così come sentite voi.
Di quelle che sentono cose che la vostra mente ha sempre creduto di tacere.
Di quelle da cui potrete imparare a sentire cose nuove o semplicemente in un modo diverso, così da metterle insieme alle proprie e produrre la melodia più dolce ed autentica mai suonata.

Circondatevi di persone che entrano un giorno nella vostra vita senza mai chiedere nulla.
Né di restare.
Nemmeno di andare via.
Di quelle che con la morbidezza di un vento primaverile spazzano via le foglie d'autunno senza che voi l'abbiate mai chiesto, per far germogliare boccioli cui sarà vostra premura innaffiare per far nascere nuove rose.
Di quelle che ad un certo punto non riuscirete più ad evitare.
Perché anche se lo farete, non lo vorrete mai abbastanza.

Circondatevi di persone che ricorderanno ogni smorfia del vostro volto, ma ne ameranno particolarmente soltanto una.
Di quelle che vi vogliono, anche quando sono in silenzio.
Circondatevi di quelle che vi bruciano dentro, prima di esplodere come dinamite.

Circondatevi delle scoperte più belle che vi offre la vita.
Imparate a guardare, anche quando credete non ve ne siano.
Circondatevi di pezzi di vita.
Imparate a riconoscerli.
Raccoglieteli.
Tratteneteli a piene mani.
Lasciateli andare soltanto quando vi accorgerete che per voi non ci sarà spazio.
Ma continuate a cercarne altri.

Imparate a lasciare tutto il resto.
Quelle sono scatole di cartone in cui abbiamo rinchiuso tutte le nostre cianfrusaglie per timore di deviare percorsi, di restare soli, di volere ed amare come non pensavamo fossimo capaci.

Quelle non saranno mai pesanti, perché portano soltanto tutto il vuoto che ci portiamo dentro.

Scopritelo in fretta, prima che sia troppo tardi.
Prima che quei pezzi di vita volino nell'aria, come soffioni che nessuno riuscirà a raccogliere.


domenica 31 luglio 2016

Stanno tutti bene

Ho poggiato una tazzina di caffè bollente sul tavolo. 
La musica passava in sequenza, tra Life In Technicolor e Lovers in Japan.
Ho alzato gli occhi verso i due finestroni sul soffitto della cucina. 
Il cielo era pieno di nuvole ma a tratti i raggi di un sole tiepido quanto potente riuscivano a filtrare attraverso i vetri facendomi sentire quasi a casa. Quasi al caldo. Forse al sicuro.

E ho pensato che per tanto tempo ho fatto a meno di quell’altra parte di me.
Quella di cui avevo bisogno per sentirmi così. 
A stretto contatto con quella parte di me che non aveva bisogno di chiedere niente.
Quella che aveva l’esigenza di distruggere tutto in mille pezzi solo per l’innato bisogno di ricostruire tutto da capo. Di ricrearsi, in una forma diversa che avesse quella sostanza cui aveva imparato ad attribuire orecchie sorde ed una bocca che pur muovendo le labbra non riusciva ad emettere alcun suono.
Quella che ha la necessità di sentirsi, prima di sentire.
Che vuole.
Che scoppia dentro. Come dinamite.

Avevo dimenticato di come potesse essere la vita.
Così imprevedibile. 
Così attenta ad incastrare i momenti come pezzi di un puzzle, facendoci spesso sentire impotenti impartendoci lezioni di inerzia quando ci identificherà come figure incapaci di cambiare le cose.
Ma così magnanima nel darci la possibilità di scoprirne di nuovi, da incastrare tra loro a ritmi incostanti, modellandosi con la morbidezza che ci appartiene, quando tra una lezione e l’altra, riusciremo a capire che niente é dato per scontato. Nulla può essere già deciso, solo perché un percorso lineare possa sembrare più comodo da seguire. 

Perché un giorno ti sveglierai accorgendoti di non aver scelto fino in fondo tutto ciò che riempie la tua vita. Almeno non del tutto.

Ma se c’é stato un tempo in cui abbia concepito tutto questo come la più bizzarra delle maledizioni, oggi credo sia stato quasi un dono. Come quelle scatole chiuse che apri e scopri che dentro ci sono tante cose che un tempo ti erano appartenute, che avevi dimenticato, ma che in fondo, se lo vorrai, da quel momento potrebbero far parte di nuovo della tua vita, incrociando, per caso, il tuo stesso destino.

Perché le cose belle sono così. 
Capitano mentre pianificavi la tua vita, come fosse una strada dall’asfalto lineare privo di dossi.
Come fossi un treno in corsa che non potesse permettersi deragliamenti.
Come pezzi di un puzzle che avevi messo insieme perché andava bene così. O perché forse erano gli unici che avevi trovato. E ti eri adattato. A quella strada, a quel vagone, a quella andatura, a quel modo blando di mettere insieme le cose, come fosse una sequenza che lasciavi andare. Che seguiva te, mentre tu, in fondo, ti lasciavi abbindolare.

Poi un giorno comprendi che la tua priorità è di sentire.
Lo scricchiolio delle ruote su di un asfalto impervio.
Il rumore di un treno in corsa. Ma anche i colori dei paesaggi circostanti che attraversa.
L’entusiasmo e la fatica di scoprire tu quali siano i pezzi mancanti e di metterli insieme, come fosse un puzzle che alla fine sia in grado di rappresentare qualcosa di bello, come un dipinto d’olio su tela.

E scopri che le cose belle sono così.
Capiteranno sempre nel momento sbagliato, ma sarà una prova per capire se tu sia diventato uomo o donna abbastanza. 
Per comprendere che i sensi di colpa seguono un processo naturale e fanno bene solo fin quando non ci si annulla.
E spetterà a te la maturità di comprendere che le cose belle vanno prese al volo, così come sono, a dispetto del tempo e di qualsivoglia circostanza.
Altrimenti il tempo le trasforma. 
E non significa che non doveva accadere.
Privarsene é sintomo di incapacità di riempire la vita di cose belle e continuare a vivere nei panni di qualcun altro che avrà sempre lo stesso rimpianto: quello di non averci provato abbastanza.

Sono strane, le cose belle.
Quando senti una morsa allo stomaco, quella sarà una cosa bella.
E ci si dovrà munire di occhi in grado di saper guardare.
Di un cuore nuovo mai pieno abbastanza.
Di un animo pronto a lasciarsi andare nella perlustrazione di orizzonti inesplorati.

E di mani grandi, per saperle raccogliere.

Perché le cose belle sono anche queste: la più meravigliosa delle scoperte di quella parte di te che riesce a sentirsi esattamente così, una cosa bella.
Così che tutti quei pezzi dentro di te, quelli che hai scoperto, o solo riverniciato, rimessi in fila, potranno dirlo: in fondo, stanno tutti bene.

venerdì 22 luglio 2016

Tutto quello che pensiamo non sia

Non so quando sia accaduto che abbia messo un punto fermo alla mia vita, senza riuscire a voltarmi,  a guardare oltre.
Sarebbe stato tutto più semplice, perchè mi sarei imposta di non sentire più nulla.
Né la fatica nel ricominciare, 
 l’entusiasmo di non smettere mai.
I profumi della primavera.
Il caldo tiepido delle giornate di mezz’estate.
Il rumore della pioggia.
E quello dei miei passi su di una distesa di foglie ingiallite.

Poi ho cominciato ad interrogarmi su quanto grande possa essere un nodo. Quanto stretto al punto da resistere per una vita intera. Quanto congeniale al punto da averne uno in ogni parte del corpo per trattenere tutto , per non sentire più niente. Né il battito cardiaco né il suono del tuo respiro.
Ed è stato allora che l’ho capito.

Che stavo riempiendo la mia vita di cose che non volevo, trascurandone altre.
Che stavo lasciando andare cose di cui avrei voluto riempire la mia vita al punto da farla scoppiare.
Cose che forse non mi sarebbero mai appartenute. Cose per cui ho deciso di tacere per paura di possedere. O cose per cui ho deciso di raccontarmi un’altra storia che potesse avere un inizio ed una fine pur perdendomi nel mezzo, senza alcuna ragionevole giustificazione che non fosse quella del lasciarsi andare alle cose belle.
Ma le voglio e le ho volute tutte. Quelle che non potrò avere, quelle che ho lasciato stramazzate sull’asfalto, ed anche quelle che forse non avrò.

Allora non so cosa sia l’amore.
Se guardarsi negli occhi e capirsi al primo battito di ciglia.
Se parlarne come fosse qualcosa che possa essere razionalmente spiegato mentre ci si perde l’uno nello sguardo dell’altro.
Se un bisogno, naturale, di sapere che c’è qualcuno accanto a te.
Se un volersi e non dirselo mai abbastanza.
Se sentire nello stomaco che sia lui o lei la persona che non stavamo cercando, ma che abbiamo trovato così, strada facendo, come una margherita in un campo di girasoli in una giornata di solleone.
Se sia come burro su marmellata.
O come una simbiosi che genera fuochi d’artificio. Dentro e fuori.

Qualsiasi sia la forma che gli si possa attribuire, gli opposti si attrarranno ma saranno i simili a restare insieme. 
Se riusciranno a riconoscersi.
Saranno quelli che si cercheranno anche quando si racconteranno di non volerlo.
E non so bene quali siano gli antidoti per creare tutto questo, ma ne conosco pochi che forse d'ora in poi riuscirò a farmi bastare.
Gli occhi.
Il sorriso.
Le parole, che non dovranno mai bastare.
Quella voce, dentro, che ti dice “lascia che sia”.
Sentirsi.
E sarà questo, forse, mentre ci affatichiamo pensando possa essere fatto d’altro.
Sarà forse tutto quello che pensiamo non sia.
E viviamo, spesso, tutto quello che non è e che non sarà mai.


domenica 17 luglio 2016

Io non ho paura

Ho fatto un gioco con la mia vita.
Le ho chiesto se io fossi abbastanza per lei.
Mi ha detto che non ero abbastanza.
Abbastanza onesta con me stessa.
Abbastanza sicura di me stessa.
Abbastanza audace nelle mie scelte.
Abbastanza serena da poter decidere da che parte remare.
Lei mi ha rivolto la stessa domanda.
Credevo di poterle rispondere a tono, dicendole che in fondo si stava sbagliando.
Invece ho capito che lei aveva ragione, e l'aveva sempre avuta.
Tutte le volte che ho avuto paura di scegliere, lei era lì a conservare il conto e a gettarmelo in faccia al primo momento utile.
Quando sarei stata pronta a non aver paura di leggerlo e a pagarlo. Tutto insieme.
Così ho capito quanto bene potessimo stare. Io e la mia vita.
Se solo l'avessimo saputo prima. Se solo ci fossimo interrogate più spesso. Se avessimo interpretato tutti i dettagli come segni del destino. Se solo non avessimo avuto timore di accoccolarci, l'una nelle braccia dell'altra, per capire che se non ci si ama abbastanza si riesce ad amare poco anche tutto il resto.
E se la paura é un sentimento che appartiene ai deboli, a chi non è in grado di scegliere, a chi non si ama fino in fondo, io scelgo di essere forte per amare ogni singola parte di me.
Perché io non ho paura.
Di scoprirmi donna.
Di sapere di essere forte.
Di conoscere tutte le mie debolezze ed attaccarmele al petto per non aver timore di affrontarle.
Di riconoscere chi sono riflettendomi nello sguardo di qualcun altro.
Io non ho paura.
Di sconfiggere quel male che come un cancro ti priva di sprigionare energia vitale.
Quello che ti priva del tuo essere donna, del riconoscerti forte, ma anche debole. Di conoscerti, in ogni tua sfumatura.
Io non ho paura.
Di ricominciare da un nuovo punto di partenza che abbia come prerogativa la consapevolezza che nella vita si sceglie. 
Questo é l'unico modo che conosco per assumere consapevolezza che possiamo scacciare via ciò che non ci è mai appartenuto fino in fondo, senza per questo sentirci colpevoli.
È l'unico modo che conosco per provare a riempire la propria vita di occhi in cui riusciremo invece a riconoscerci.
É l'unico modo per liberarci del superfluo e seguire la via dell'autenticità.
Quella che ci vede di fronte ad uno specchio in cui saremo in grado di riconoscerci.
Pieni di ferite, ma ancora lì a tifare per noi.
E capiremo che scegliamo ogni cosa. 
Così avremo anche scelto di essere felici.

domenica 10 luglio 2016

1,095 giorni e 26,280 ore, sempre insieme

Sono trascorsi quasi tre anni.
Poco più di 1,095 giorni. Pressappoco 26,280 ore.
Tanti giorni, troppe ore, minuti infiniti, attimi che non si contano.

Mi hai presa ragazza e mi hai fatto diventare una donna, forse.
Mi hai fatto indossare abiti che non mi si addicevano, ma che col tempo sono diventati parte della mia vita. Quella che man mano ho voluto costruire, insieme a te.
Mi hai fatto sentire piccola, inesperta, incosciente. Come tuffarsi nell’oceano e pretendere che qualcuno ti dia una mano per insegnarti a nuotare.
Mi hai fatto sentire parte di qualcosa, che metodicamente mi toglievi poco dopo.
Ma mi hai anche fatto capire che me lo toglievi perché non era destinato a me.
Ed io, insieme a te, col tempo l’ho capito: che dobbiamo imparare a lasciare, perché solo così impareremo a navigare ed approdare su altre sponde, sempre diverse. Solo così impareremo a trattenere ciò che conta, ciò che sembrerà scritto per noi e nessun altro, ciò che a noi sarà destinato. Solo così impareremo a non accontentarci.

Mi hai presa come fossi tanti pezzi di un puzzle da costruire.
Mi hai guidato, talvolta, per far sì che riuscissi ad incastrarne i pezzi.
Altre volte hai lasciato fare al mio istinto.
Perché anche se spesso non abbiamo mantenuto le promesse che ci siamo fatte, quando ne avevo bisogno tu eri sempre lì a dirmi che nonostante tutto ti fidavi di me.

Molte volte non ci siamo capite.
Ci siamo afferrate per i capelli e a turno esprimevano i nostri dubbi, cercando negli occhi dell’altra qualcosa che ci dicesse che nello stare insieme stessimo facendo la cosa giusta per entrambe.
Mi hai sempre fatto tante domande. Tu conoscevi sempre le risposte, io un po’ meno.
Ci siamo fatte del male. E ci siamo amate sino ad impazzire.

Ma se c’è una cosa che mi hai insegnato, nonostante dondolassimo a ritmi incostanti ciascuna nelle braccia dell’altra, è quella di cacciare sempre tutto fuori e a non pentirsene mai.
Essere come un mulino, le cui pale continuano a girare ad un ritmo incessante, mosse dalla forza del vento che a loro volta trasformano in energia vitale.
É a quest’aspirazione che mi hai insegnato a tendere. Ed è questo limite che mi hai insegnato ad abbattere.

A girare, ad un ritmo incessante, sino a trovare la strada il cui selciato stesse attendendo proprio le mie scarpe che vi lasciassero il segno, passo dopo passo.
A muoversi, oscillando tra la leggerezza del lasciarsi trasportare dal vento e la forza di decidere da che parte stare, senza mai lasciare agli altri questo privilegio.
A trasformare. Noi e tutto il resto attorno.
Creare qualcosa che appartenga soltanto a noi, in ogni suo microscopico dettaglio.
Dargli una forma che sia la nostra.

E se anche un giorno deciderai di poter fare a meno di me, Londra, non credo che riuscirei a crederti.
Perché tu ti sei presa cura di me, come un’insegnante severa, ma una madre attenta.
Ed io ho fatto altrettanto. Come uno scolaro svogliato, ma una figlia premurosa.
Non c’è qualcosa che tu abbia fatto che non l’abbia fatto a te anche io, con gli strumenti che possedevo e nella misura in cui riuscissi a farlo.

Questi 1,095 giorni raccontano di noi, insieme.
Del come ci siamo presi cura l’una dell’altra.
Del come ci siamo amate ed odiate allo stesso tempo.
Del come siamo cresciute e diventate qualcosa di migliore, perché insieme abbiamo compensato tutte le nostre mancanze.
Del come, alla fine, ci siamo prese perché l’abbiamo voluto sin dal principio.
E del come abbiamo imparato a restare, l’una per l’altra.
Non perché non ci fossero altre strade, ma perché tutte le volte che ci costruivamo vie di fuga, non facevamo altro che incontrarci a metà strada, stringerci forte e continuare il nostro percorso.
Sempre insieme.

sabato 18 giugno 2016

L'ho chiamato semplicemente amore

Ogni volta che apro il frigorifero impiego circa una decina di minuti nel decidere se sia meglio consumare i cibi di prossima scadenza o quelli che invece desidererei maggiormente.
Lo faccio, tutte le volte, nonostante sappia benissimo sin dal principio quale sarà la mia scelta.
Perchè sceglieró sempre i primi a discapito dei secondi.

La considero una scelta obbligata ma intelligente. Non mi piace gettare via il cibo, mi dico. E con ogni probabilità, la volta successiva mangeró i secondi, che però al giro successivo saranno diventati come quelli per cui avevo optato la volta precedente. Quasi avariati.

L'altro giorno, mentre pensavo al mio modo di scegliere 'intelligentemente' cosa mettere nello stomaco, ho pensato che per una volta avrei potuto contravvenire alle regole.
Cosí, oltre a sentirmi meglio, mi sono saziata di più.
Una volta ogni tanto. Non capita quasi mai, ho pensato.
Ed è stato in quel momento che ho realizzato quanto riuscissi ad adottare questa modalità di scelta anche per tutto il resto, preferendo, quasi sempre, situazioni su cui attacco un adesivo con sù scritto 'da consumarsi preferibilmente entro il ...' a quelle che mi lasciano con il fiato sospeso ed il cuore in gola perchè si disperdono nell'universo come residui di esplosioni stellari che non riuscirai mai a toccare, ma a guardarne la scia da lontano, forse, molto tempo dopo, quando non esistono già più.
Preferendo, spesso, le vite degli altri. Pensando sia giusto cosí. Pensando che in fondo, possa trasformarsi anche nella propria.

Ma da quando ho gustato ció che preferivo nel momento esatto in cui non desideravo altro, disinteressandomi delle scadenze sovrapposte sulla confezione, ho capito che farò sempre cosí.
E non significa contravvenire alle regole.
Nè scegliere in modo poco intelligente.
Ma nutrire e cacciar fuori da ogni poro della propria pelle il rispetto per se stessi, per quello in cui si crede, per ció che in fondo si vuole.

Perchè non esistono regole che ti impongono quando scegliere qualcosa che ci sta a cuore, nè quale sia il modo più intelligente per dargli una forma.
E non esistono mali che ti perseguiteranno, se non il rancore di non averlo fatto.

Gli ho voluto dare un nome.
A questo modo di decidere e a quello che con questo poi si diventa.
A quello che si prova nel farlo.
Gli ho dato un nome banale.
L'ho chiamato semplicemente amore.
Qualsiasi sia la forma, la sostanza, il volto, il profumo ed il colore che gli si voglia attribuire.
Perché non ha scadenze contro le quali si possa combattere, né tempi, illusori, che possano farci credere che finisca, né regole da imporre se non quella che nessuna possa essere così forte rispetto il desiderio di gettarle all'aria.

Perché esistono infinite strade.
Ma sempre una che non riuscirai a non imboccare, anche quando sentirai di averla invece smarrita.

domenica 12 giugno 2016

Spalle sul mondo

Pensavo che il mondo si dividesse in due categorie: quelli che svestendosi di qualsiasi rimorso si sdraiano con la schiena nuda sulle possibilità del mondo, lasciandosele scorrere lungo tutto il corpo e dilatandosi, insieme a loro, ad ogni loro cenno di espansione. E quelli che inghiottono rimpianti, lasciando che questi annichiliscano l'anima rendendo sempre più freddo il pavimento ruvido su cui si sono imposti di rimanere.

Gli uni e gli altri.
Diversi nel loro approccio alla vita, ma simili nei loro desideri.

Ma è stato proprio quando ho constatato ambedue le dimensioni, quella che mi vedeva con la schiena nuda a fare a cazzotti col mondo purchè su di essa fosse dipinta anche solo una fetta dell'universo che immaginavo, e quella che invece mi vedeva ricurva ad accettare ogni cosa mi si presentasse, che ho invece scoperto l'esistenza di un'altra.
Una di quelle che si pone in bilico tra l'accettarsi e l'accettare.
Che rinuncia alle mezze misure per crearne di proprie, soltanto per sè.
Una di quelle che comprendere è una virtù, il perderle di vista un atto di vigliaccheria, verso se stessi.

La immagino come una spiaggia deserta.
O come un campo di girasoli su cui batte forte il sole.
Come quei luoghi in cui riconosci che non puoi prenderti tutto, ma solo quanto basta.
E se non ti basta non è che te lo fai bastare, ma ti approprierai di quello che ti spetta, lasciando il resto al caso.
Farai come chi, sdraiato con la schiena sul mondo, farà di quest'ultima una cartina, i cui contorni saranno disegnati da volti e da emozioni. Da circostanze e da bivi dinanzi i quali scegliere. Da strade da percorrere e da possibilità, colte o cedute.
Perchè alla fine non sarà importante quanto sia scritto lungo tutto il tuo corpo, ma con quanta passione tu abbia voluto dipingere tutto ciò che il tuo corpo racconta.
Ed è cosí che, ad un certo punto, saprai anche dire basta. Perchè ti sarai riempito di cosí tanta bellezza che non ci sarà più nulla da aggiungere, anche quando avresti immaginato contorni diversi da quelli raffigurati.

Riuscirai a fermarti, ma lo farai per te stesso.
E per quella voglia matta di non annichilirti lasciando che le tue guance restino schiacchiate su di un pavimento freddo.
Ma per incidere su di te altre storie.
Altre strade.
Altri paesaggi.
Altri volti.
Altre emozioni.
Per cercare altri corpi, forse, che sapranno sdraiarsi con te, dando le spalle a quel mondo in cui avevi sempre immaginato ci fossero soltanto due possibilità: espandersi con forza e passione o guardare dal basso.
Per poi scoprire o lasciarti insegnare che talvolta bisogna anche alzarsi ed andare.
Il bilico tra l'accettare e l'accettarsi consiste proprio in questo: avere occhi profondi da poter cogliere tutto, e spalle possenti abbastanza da poterti voltare e disegnare altre vie.

giovedì 2 giugno 2016

La vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti


Molto spesso mi sono imposta delle scadenze al termine delle quali tiravo delle somme.
Questo lo facevo, e tuttora lo faccio, per capire se stia proseguendo nella direzione giusta, dove per giusto non pongo come condizione una serie di equazioni che diano tutte lo stesso risultato, ma numeri messi lì, anche a caso, che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, diano un risultato modesto, che possa essere solo il primo di tanti altri.
Come mattone su mattone, un passo dopo l'altro.

Ci sono stati dei momenti in cui il sottrarre mi sembrava la strada più comoda da seguire.
Altri in cui quest'azione proseguiva in modo inarrestabile e non ero io a gestirla.
Momenti in cui invece ho aggiunto numeri aspettando si moltiplicassero con altri.
Momenti in cui questo è accaduto, altri in cui ho capito che l'attesa doveva essere colmata da altro prima che questo accadesse.
Momenti in cui pensavo di condividere, e invece poi ci hanno diviso.

Ma se oggi dovessi dare un nome a tutto questo, non ce ne sarebbe uno appropriato.

Nè momenti, né lezioni di vita.

Perché i momenti fanno pensare a qualcosa di temporaneo, a quegli scatoloni chiusi con il nastro adesivo perché sono fragilissimi e non vogliamo toccarli, né tanto meno aprirli. 
Quelle bolle di sapone in cui soffiamo pochi istanti dopo averle create per annusarne solo il profumo nell'aria, che man mano sfuma, che odora già di passato.
Ed invece questi si collocano in una dimensione senza tempo ed in scatoloni rigidi e tutti aperti, in cui non si annusa la puzza di stantio delle soffitte in cui si nascondono cianfrusaglie inutilizzate.
Sono come numeri che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, non abbiano ancora portato ad un risultato esatto e definitivo, nonostante sembri tutto già accaduto.

Nè lezioni di vita, perché tutte le volte che pensavo di aver appreso la lezione, scoprivo che ci sarebbe stato ancora tanto altro da imparare o che, forse, non sarei mai riuscita ad imparare una sola pagina a menadito. 

Ma se c'è una cosa che ho imparato man mano che i momenti si susseguivano e che ricevevo pagelle al termine di ogni lezione, è che non si deve necessariamente dare un nome alle cose, perché non tutte le emozioni, gli attimi, le esperienze ed i bagagli che ci portiamo dietro ne hanno bisogno.

Perché esistono cose che possono avere un metro di paragone, di cui si possono descrivere i contorni, indicare le gradazioni di colori, per cui addirittura immaginare un suono o un profumo.
Ed altre che invece nascono così, prive di connotazione.
E non attendono che tu ne possa trovare una.
Si addizionano perché tu possa credere nella loro esistenza.
Si sottraggono perché tu non possa pensare di poterle possedere per sempre.
Si moltiplicano perché tu possa crederci.
Si dividono, come strade.

Perché la vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti.
Una serie infinita di tappe in cui ciascuna sarà come un ponte per l'altra.
Quella in cui non ti sentirai forse mai arrivato abbastanza, fin quando non ti volti e contando i passi che ti separano da dove sei a dove hai cominciato, capisci l'unica cosa che conta: ne è valsa la pena.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 24 aprile 2016

Le generazioni sono cosí, chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà

Ogni tanto mi capita di pensare a come sia accaduto.
Che sia passata dal far parte della generazione ah-perchè-è-già-arrivato-il-weekend a quella che odia il lunedì peggio del ketchup sulla pasta o che santifica il venerdì come fosse una festa comandata.
Che abbia fatto parte della generazione Erasmus, quella che a prescindere da un luogo geograficamente circoscritto, viveva quel momento della vita con slancio ascetico, come fosse un dono divino, un lusso che ci si era concesso, o entrambe le cose, per finire in quella del dove-ci-si-trova-conta-quanto-il-come, anzi talvolta lo influenza.
Che sia passata dal fare la fila per le patatine al Mc Donald's a poi cercare diete dimagranti su google.
Dieta dell'ananas, del limone, del minestrone. 
Perché al tuo posteriore con la forma di patate fritte nell'olio di una settimana, hai preferito una faccia con la forma di ananas, limone, minestrone, o checchessia.

Ma pensavo che le generazioni sono proprio così: finite. Un lasso temporale tra il prima ed il dopo che ci culla fin quando non giungerà il momento in cui sia giusto lasciarci andare.
E cosí saremo stati quella generazione prima di entrare in quella successiva che però non sarà mai la definitiva. Ma le saremo tutte, in egual misura. Ed il bello sarà riuscire a contarle e scoprire di non avere abbastanza dita per reggerne il conto.

Allora saremo la generazione delle corse il primo giorno di scuola per arrivare ad occupare l'ultimo banco in fondo a sinistra. Quella delle corse il primo giorno di università per trovare un posto dove sedere, uno qualunque. Quella delle corse il giorno del tuo primo colloquio importante per arrivare in anticipo. Quella delle corse, nella vita, per non arrivare mai ultimi.

Saremo la generazione di chi sceglieva il compagno di banco per condividere un intero anno spalla a spalla. Di chi, inconsapevolmente, sceglieva quelli universitari con cui condividere i propri dolori intestinali prima di un esame. Di chi poi, ad un certo punto, ha cominciato a selezionare i propri compagni di viaggio, quelli della vita.

Saremo la generazione che trovava amici dappertutto, quella che per trovarli doveva fare due passi e bussare un campanello, per finire poi in quella in cui per incontrarli deve prenotare un biglietto aereo e girare l'Europa, non più attraversare la strada.

Saremo la generazione delle farfalle allo stomaco, del contare le ore che ci separano dal primo appuntamento con il ragazzo cui abbiamo fatto il filo per mesi. Quella del se-non-mi-chiama-gli-invio-un-messaggio. Quella del se-non-mi-chiama-può-andare-al-diavolo. Quella del sono-qui-chiedimi-di-rimanere. Quella del resto-anche-se-non-me-lo-hai-mai-chiesto. Quella generazione in cui nessuno chiederà niente all'altro, perché l'importante sarà esserci. Lui per noi, e noi per lui.
Quella in cui forse il fato deciderà che dovremmo farne a meno, ma noi saremo lì, ad accoglierlo, comunque, perché in fondo, penseremo, l'importante è che siamo ancora vivi per affrontare la vita.

Saremo la generazione delle grandi aspettative, quella delle illusioni confezionate con carta regalo, per passare in quella del "No, grazie, a questo gioco non ci sto più."

Saremo la generazione che per un attimo penserà di avere il mondo in un pugno. Quella che sentirà il peso del mondo. Quella che poi, ad un certo punto, capirà che l'uno o l'altra sia servita per farci diventare quello che sarà più congeniale essere: un granello di sabbia che sfugge a chiunque voglia costringerci a spazi stretti, quello che seguirà i soffi di vento, prima di fermarsi sulla terraferma, dove ne saranno approdati altri, nella stessa modalità o forse diversa. E lí non saremo i padroni del mondo nè sarà lui a tenerci tra le sue mani, ma saremo i padroni del nostro destino, che potrà mutare tante volte, a seconda di come butterà il vento.

Saremo la generazione Erasmus, della vita vissuta come un attimo irripetibile, delle feste in casa, delle diagnosi partorite leggendo wikipedia, dello sperimentare il diverso, del comunicare in una lingua sconosciuta fino ad allora, del sentirci parte di qualcosa che abbia il volto di persone cui riserveremo sempre un posto speciale, nel luogo più profondo che un giorno avevamo chiamato casa per poi capire che sarebbe stato qualcosa di più: quello in cui, attraverso l'altro, abbiamo imparato a conoscerci senza mai dubitare di poter diventare quello che si sognava di essere.
Saremo quella che farà tesoro di tutto, anche quando un giorno si troverà ad osservare le proprie parrucche di colori differenti su di una mensola della propria stanza, le fotografie incorniciate per mantenere vivi quei ricordi, quelli che, sempre, ci faranno ridere di gusto, anche se un tempo non avevamo mai pensato di riuscirlo a fare.
Quella che sognava di scoprire a quale spicchio di mondo sarebbe stata destinata.
Quella che lo scopre e vi comincia a piantare radici.
Quella che, ignara, comincerà a chiamare radici mattoni, e mattoni poi casa.

Quella generazione che morirà di felicità, e poi di malinconia. Di malinconia e poi di felicità.
Prima di arrivare a quella in cui le due si combinano, perché non riuscirà a fare a meno né dell'una né dell'altra.

Quella generazione che credeva che le cose importanti non ci avrebbero mai lasciato, per poi passare a quella in cui conteremo quelle che invece non ci hanno abbandonato.
Ma poi, un giorno, entreremo in quella per cui l'una e l'altra ci avranno insegnato qualcosa che nessuno ci aveva detto in partenza: che nella nostra continua transizione, cambiamo come il passaggio delle stagioni, come la fine di una generazione e l'inizio di un'altra. Ed è così che scopriremo che talvolta le cose importanti le potremmo scoprire soltanto vivendo, e che spesso, come diceva qualcuno, devono ancora venire.

Le generazioni sono cosí: chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà.
E quante più ne passeremo, tanto più profondi saranno i nostri occhi.
Ignari che siamo noi a decidere tutto, la partenza così come la meta.