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mercoledì 3 agosto 2016

Scatole di cartone

Circondatevi di persone che conoscano non soltanto l'odore del mare, ma che sappiano meravigliarsi al suono di ogni sua onda.
Che sappiano guardarlo ed ascoltarlo come fosse una creatura da ammirare, la più meravigliosa mai incontrata prima. Che con cosciente onnipotenza ne constateranno la grandezza, ma sempre ad un passo dal sentirsi della sua stessa portata: infiniti.

Circondatevi di persone che sappiano ridere.
Che amino danzare a pieni nudi sotto la pioggia.
Che indichino col dito l'arcobaleno come fanno i bambini.

Circondatevi di persone che parlino il vostro stesso linguaggio.
Del corpo.
Della mente.
Del cuore.
Lasciatevi trascinare in questa danza, ammaliante tanto quanto pericolosa.
Perché quando oramai avrete imparato a ballare, non riuscirete più ad uscirne.
Ma vi concederete la più bella delle melodie mai ascoltate prima in cui i vostri piedi non saranno mai stanchi di battere il selciato.

Circondatevi di persone che abbiano degli occhi in cui sarete in grado di riconoscervi.
Bocche che sembreranno fatte apposta per toccarsi.
Orecchie che non vorranno sentire altro che il suono della vostra voce.

Circondatevi di persone che spruzzino libertà da ogni poro della pelle, cosí da raccoglierla a piene mani.
Circondatevi di quelle che sprigionano un'energia tale da generare una continua espansione, dentro e fuori.
Di quelle cui non avrete mai paura di mentire, perché sarete sempre così come siete, senza alcun freno. Senza nessuna paura.

Circondatevi di persone che sappiano sentire, così come sentite voi.
Di quelle che sentono cose che la vostra mente ha sempre creduto di tacere.
Di quelle da cui potrete imparare a sentire cose nuove o semplicemente in un modo diverso, così da metterle insieme alle proprie e produrre la melodia più dolce ed autentica mai suonata.

Circondatevi di persone che entrano un giorno nella vostra vita senza mai chiedere nulla.
Né di restare.
Nemmeno di andare via.
Di quelle che con la morbidezza di un vento primaverile spazzano via le foglie d'autunno senza che voi l'abbiate mai chiesto, per far germogliare boccioli cui sarà vostra premura innaffiare per far nascere nuove rose.
Di quelle che ad un certo punto non riuscirete più ad evitare.
Perché anche se lo farete, non lo vorrete mai abbastanza.

Circondatevi di persone che ricorderanno ogni smorfia del vostro volto, ma ne ameranno particolarmente soltanto una.
Di quelle che vi vogliono, anche quando sono in silenzio.
Circondatevi di quelle che vi bruciano dentro, prima di esplodere come dinamite.

Circondatevi delle scoperte più belle che vi offre la vita.
Imparate a guardare, anche quando credete non ve ne siano.
Circondatevi di pezzi di vita.
Imparate a riconoscerli.
Raccoglieteli.
Tratteneteli a piene mani.
Lasciateli andare soltanto quando vi accorgerete che per voi non ci sarà spazio.
Ma continuate a cercarne altri.

Imparate a lasciare tutto il resto.
Quelle sono scatole di cartone in cui abbiamo rinchiuso tutte le nostre cianfrusaglie per timore di deviare percorsi, di restare soli, di volere ed amare come non pensavamo fossimo capaci.

Quelle non saranno mai pesanti, perché portano soltanto tutto il vuoto che ci portiamo dentro.

Scopritelo in fretta, prima che sia troppo tardi.
Prima che quei pezzi di vita volino nell'aria, come soffioni che nessuno riuscirà a raccogliere.


domenica 31 luglio 2016

Stanno tutti bene

Ho poggiato una tazzina di caffè bollente sul tavolo. 
La musica passava in sequenza, tra Life In Technicolor e Lovers in Japan.
Ho alzato gli occhi verso i due finestroni sul soffitto della cucina. 
Il cielo era pieno di nuvole ma a tratti i raggi di un sole tiepido quanto potente riuscivano a filtrare attraverso i vetri facendomi sentire quasi a casa. Quasi al caldo. Forse al sicuro.

E ho pensato che per tanto tempo ho fatto a meno di quell’altra parte di me.
Quella di cui avevo bisogno per sentirmi così. 
A stretto contatto con quella parte di me che non aveva bisogno di chiedere niente.
Quella che aveva l’esigenza di distruggere tutto in mille pezzi solo per l’innato bisogno di ricostruire tutto da capo. Di ricrearsi, in una forma diversa che avesse quella sostanza cui aveva imparato ad attribuire orecchie sorde ed una bocca che pur muovendo le labbra non riusciva ad emettere alcun suono.
Quella che ha la necessità di sentirsi, prima di sentire.
Che vuole.
Che scoppia dentro. Come dinamite.

Avevo dimenticato di come potesse essere la vita.
Così imprevedibile. 
Così attenta ad incastrare i momenti come pezzi di un puzzle, facendoci spesso sentire impotenti impartendoci lezioni di inerzia quando ci identificherà come figure incapaci di cambiare le cose.
Ma così magnanima nel darci la possibilità di scoprirne di nuovi, da incastrare tra loro a ritmi incostanti, modellandosi con la morbidezza che ci appartiene, quando tra una lezione e l’altra, riusciremo a capire che niente é dato per scontato. Nulla può essere già deciso, solo perché un percorso lineare possa sembrare più comodo da seguire. 

Perché un giorno ti sveglierai accorgendoti di non aver scelto fino in fondo tutto ciò che riempie la tua vita. Almeno non del tutto.

Ma se c’é stato un tempo in cui abbia concepito tutto questo come la più bizzarra delle maledizioni, oggi credo sia stato quasi un dono. Come quelle scatole chiuse che apri e scopri che dentro ci sono tante cose che un tempo ti erano appartenute, che avevi dimenticato, ma che in fondo, se lo vorrai, da quel momento potrebbero far parte di nuovo della tua vita, incrociando, per caso, il tuo stesso destino.

Perché le cose belle sono così. 
Capitano mentre pianificavi la tua vita, come fosse una strada dall’asfalto lineare privo di dossi.
Come fossi un treno in corsa che non potesse permettersi deragliamenti.
Come pezzi di un puzzle che avevi messo insieme perché andava bene così. O perché forse erano gli unici che avevi trovato. E ti eri adattato. A quella strada, a quel vagone, a quella andatura, a quel modo blando di mettere insieme le cose, come fosse una sequenza che lasciavi andare. Che seguiva te, mentre tu, in fondo, ti lasciavi abbindolare.

Poi un giorno comprendi che la tua priorità è di sentire.
Lo scricchiolio delle ruote su di un asfalto impervio.
Il rumore di un treno in corsa. Ma anche i colori dei paesaggi circostanti che attraversa.
L’entusiasmo e la fatica di scoprire tu quali siano i pezzi mancanti e di metterli insieme, come fosse un puzzle che alla fine sia in grado di rappresentare qualcosa di bello, come un dipinto d’olio su tela.

E scopri che le cose belle sono così.
Capiteranno sempre nel momento sbagliato, ma sarà una prova per capire se tu sia diventato uomo o donna abbastanza. 
Per comprendere che i sensi di colpa seguono un processo naturale e fanno bene solo fin quando non ci si annulla.
E spetterà a te la maturità di comprendere che le cose belle vanno prese al volo, così come sono, a dispetto del tempo e di qualsivoglia circostanza.
Altrimenti il tempo le trasforma. 
E non significa che non doveva accadere.
Privarsene é sintomo di incapacità di riempire la vita di cose belle e continuare a vivere nei panni di qualcun altro che avrà sempre lo stesso rimpianto: quello di non averci provato abbastanza.

Sono strane, le cose belle.
Quando senti una morsa allo stomaco, quella sarà una cosa bella.
E ci si dovrà munire di occhi in grado di saper guardare.
Di un cuore nuovo mai pieno abbastanza.
Di un animo pronto a lasciarsi andare nella perlustrazione di orizzonti inesplorati.

E di mani grandi, per saperle raccogliere.

Perché le cose belle sono anche queste: la più meravigliosa delle scoperte di quella parte di te che riesce a sentirsi esattamente così, una cosa bella.
Così che tutti quei pezzi dentro di te, quelli che hai scoperto, o solo riverniciato, rimessi in fila, potranno dirlo: in fondo, stanno tutti bene.

venerdì 22 luglio 2016

Tutto quello che pensiamo non sia

Non so quando sia accaduto che abbia messo un punto fermo alla mia vita, senza riuscire a voltarmi,  a guardare oltre.
Sarebbe stato tutto più semplice, perchè mi sarei imposta di non sentire più nulla.
Né la fatica nel ricominciare, 
 l’entusiasmo di non smettere mai.
I profumi della primavera.
Il caldo tiepido delle giornate di mezz’estate.
Il rumore della pioggia.
E quello dei miei passi su di una distesa di foglie ingiallite.

Poi ho cominciato ad interrogarmi su quanto grande possa essere un nodo. Quanto stretto al punto da resistere per una vita intera. Quanto congeniale al punto da averne uno in ogni parte del corpo per trattenere tutto , per non sentire più niente. Né il battito cardiaco né il suono del tuo respiro.
Ed è stato allora che l’ho capito.

Che stavo riempiendo la mia vita di cose che non volevo, trascurandone altre.
Che stavo lasciando andare cose di cui avrei voluto riempire la mia vita al punto da farla scoppiare.
Cose che forse non mi sarebbero mai appartenute. Cose per cui ho deciso di tacere per paura di possedere. O cose per cui ho deciso di raccontarmi un’altra storia che potesse avere un inizio ed una fine pur perdendomi nel mezzo, senza alcuna ragionevole giustificazione che non fosse quella del lasciarsi andare alle cose belle.
Ma le voglio e le ho volute tutte. Quelle che non potrò avere, quelle che ho lasciato stramazzate sull’asfalto, ed anche quelle che forse non avrò.

Allora non so cosa sia l’amore.
Se guardarsi negli occhi e capirsi al primo battito di ciglia.
Se parlarne come fosse qualcosa che possa essere razionalmente spiegato mentre ci si perde l’uno nello sguardo dell’altro.
Se un bisogno, naturale, di sapere che c’è qualcuno accanto a te.
Se un volersi e non dirselo mai abbastanza.
Se sentire nello stomaco che sia lui o lei la persona che non stavamo cercando, ma che abbiamo trovato così, strada facendo, come una margherita in un campo di girasoli in una giornata di solleone.
Se sia come burro su marmellata.
O come una simbiosi che genera fuochi d’artificio. Dentro e fuori.

Qualsiasi sia la forma che gli si possa attribuire, gli opposti si attrarranno ma saranno i simili a restare insieme. 
Se riusciranno a riconoscersi.
Saranno quelli che si cercheranno anche quando si racconteranno di non volerlo.
E non so bene quali siano gli antidoti per creare tutto questo, ma ne conosco pochi che forse d'ora in poi riuscirò a farmi bastare.
Gli occhi.
Il sorriso.
Le parole, che non dovranno mai bastare.
Quella voce, dentro, che ti dice “lascia che sia”.
Sentirsi.
E sarà questo, forse, mentre ci affatichiamo pensando possa essere fatto d’altro.
Sarà forse tutto quello che pensiamo non sia.
E viviamo, spesso, tutto quello che non è e che non sarà mai.


domenica 17 luglio 2016

Io non ho paura

Ho fatto un gioco con la mia vita.
Le ho chiesto se io fossi abbastanza per lei.
Mi ha detto che non ero abbastanza.
Abbastanza onesta con me stessa.
Abbastanza sicura di me stessa.
Abbastanza audace nelle mie scelte.
Abbastanza serena da poter decidere da che parte remare.
Lei mi ha rivolto la stessa domanda.
Credevo di poterle rispondere a tono, dicendole che in fondo si stava sbagliando.
Invece ho capito che lei aveva ragione, e l'aveva sempre avuta.
Tutte le volte che ho avuto paura di scegliere, lei era lì a conservare il conto e a gettarmelo in faccia al primo momento utile.
Quando sarei stata pronta a non aver paura di leggerlo e a pagarlo. Tutto insieme.
Così ho capito quanto bene potessimo stare. Io e la mia vita.
Se solo l'avessimo saputo prima. Se solo ci fossimo interrogate più spesso. Se avessimo interpretato tutti i dettagli come segni del destino. Se solo non avessimo avuto timore di accoccolarci, l'una nelle braccia dell'altra, per capire che se non ci si ama abbastanza si riesce ad amare poco anche tutto il resto.
E se la paura é un sentimento che appartiene ai deboli, a chi non è in grado di scegliere, a chi non si ama fino in fondo, io scelgo di essere forte per amare ogni singola parte di me.
Perché io non ho paura.
Di scoprirmi donna.
Di sapere di essere forte.
Di conoscere tutte le mie debolezze ed attaccarmele al petto per non aver timore di affrontarle.
Di riconoscere chi sono riflettendomi nello sguardo di qualcun altro.
Io non ho paura.
Di sconfiggere quel male che come un cancro ti priva di sprigionare energia vitale.
Quello che ti priva del tuo essere donna, del riconoscerti forte, ma anche debole. Di conoscerti, in ogni tua sfumatura.
Io non ho paura.
Di ricominciare da un nuovo punto di partenza che abbia come prerogativa la consapevolezza che nella vita si sceglie. 
Questo é l'unico modo che conosco per assumere consapevolezza che possiamo scacciare via ciò che non ci è mai appartenuto fino in fondo, senza per questo sentirci colpevoli.
È l'unico modo che conosco per provare a riempire la propria vita di occhi in cui riusciremo invece a riconoscerci.
É l'unico modo per liberarci del superfluo e seguire la via dell'autenticità.
Quella che ci vede di fronte ad uno specchio in cui saremo in grado di riconoscerci.
Pieni di ferite, ma ancora lì a tifare per noi.
E capiremo che scegliamo ogni cosa. 
Così avremo anche scelto di essere felici.

domenica 10 luglio 2016

1,095 giorni e 26,280 ore, sempre insieme

Sono trascorsi quasi tre anni.
Poco più di 1,095 giorni. Pressappoco 26,280 ore.
Tanti giorni, troppe ore, minuti infiniti, attimi che non si contano.

Mi hai presa ragazza e mi hai fatto diventare una donna, forse.
Mi hai fatto indossare abiti che non mi si addicevano, ma che col tempo sono diventati parte della mia vita. Quella che man mano ho voluto costruire, insieme a te.
Mi hai fatto sentire piccola, inesperta, incosciente. Come tuffarsi nell’oceano e pretendere che qualcuno ti dia una mano per insegnarti a nuotare.
Mi hai fatto sentire parte di qualcosa, che metodicamente mi toglievi poco dopo.
Ma mi hai anche fatto capire che me lo toglievi perché non era destinato a me.
Ed io, insieme a te, col tempo l’ho capito: che dobbiamo imparare a lasciare, perché solo così impareremo a navigare ed approdare su altre sponde, sempre diverse. Solo così impareremo a trattenere ciò che conta, ciò che sembrerà scritto per noi e nessun altro, ciò che a noi sarà destinato. Solo così impareremo a non accontentarci.

Mi hai presa come fossi tanti pezzi di un puzzle da costruire.
Mi hai guidato, talvolta, per far sì che riuscissi ad incastrarne i pezzi.
Altre volte hai lasciato fare al mio istinto.
Perché anche se spesso non abbiamo mantenuto le promesse che ci siamo fatte, quando ne avevo bisogno tu eri sempre lì a dirmi che nonostante tutto ti fidavi di me.

Molte volte non ci siamo capite.
Ci siamo afferrate per i capelli e a turno esprimevano i nostri dubbi, cercando negli occhi dell’altra qualcosa che ci dicesse che nello stare insieme stessimo facendo la cosa giusta per entrambe.
Mi hai sempre fatto tante domande. Tu conoscevi sempre le risposte, io un po’ meno.
Ci siamo fatte del male. E ci siamo amate sino ad impazzire.

Ma se c’è una cosa che mi hai insegnato, nonostante dondolassimo a ritmi incostanti ciascuna nelle braccia dell’altra, è quella di cacciare sempre tutto fuori e a non pentirsene mai.
Essere come un mulino, le cui pale continuano a girare ad un ritmo incessante, mosse dalla forza del vento che a loro volta trasformano in energia vitale.
É a quest’aspirazione che mi hai insegnato a tendere. Ed è questo limite che mi hai insegnato ad abbattere.

A girare, ad un ritmo incessante, sino a trovare la strada il cui selciato stesse attendendo proprio le mie scarpe che vi lasciassero il segno, passo dopo passo.
A muoversi, oscillando tra la leggerezza del lasciarsi trasportare dal vento e la forza di decidere da che parte stare, senza mai lasciare agli altri questo privilegio.
A trasformare. Noi e tutto il resto attorno.
Creare qualcosa che appartenga soltanto a noi, in ogni suo microscopico dettaglio.
Dargli una forma che sia la nostra.

E se anche un giorno deciderai di poter fare a meno di me, Londra, non credo che riuscirei a crederti.
Perché tu ti sei presa cura di me, come un’insegnante severa, ma una madre attenta.
Ed io ho fatto altrettanto. Come uno scolaro svogliato, ma una figlia premurosa.
Non c’è qualcosa che tu abbia fatto che non l’abbia fatto a te anche io, con gli strumenti che possedevo e nella misura in cui riuscissi a farlo.

Questi 1,095 giorni raccontano di noi, insieme.
Del come ci siamo presi cura l’una dell’altra.
Del come ci siamo amate ed odiate allo stesso tempo.
Del come siamo cresciute e diventate qualcosa di migliore, perché insieme abbiamo compensato tutte le nostre mancanze.
Del come, alla fine, ci siamo prese perché l’abbiamo voluto sin dal principio.
E del come abbiamo imparato a restare, l’una per l’altra.
Non perché non ci fossero altre strade, ma perché tutte le volte che ci costruivamo vie di fuga, non facevamo altro che incontrarci a metà strada, stringerci forte e continuare il nostro percorso.
Sempre insieme.

sabato 18 giugno 2016

L'ho chiamato semplicemente amore

Ogni volta che apro il frigorifero impiego circa una decina di minuti nel decidere se sia meglio consumare i cibi di prossima scadenza o quelli che invece desidererei maggiormente.
Lo faccio, tutte le volte, nonostante sappia benissimo sin dal principio quale sarà la mia scelta.
Perchè sceglieró sempre i primi a discapito dei secondi.

La considero una scelta obbligata ma intelligente. Non mi piace gettare via il cibo, mi dico. E con ogni probabilità, la volta successiva mangeró i secondi, che però al giro successivo saranno diventati come quelli per cui avevo optato la volta precedente. Quasi avariati.

L'altro giorno, mentre pensavo al mio modo di scegliere 'intelligentemente' cosa mettere nello stomaco, ho pensato che per una volta avrei potuto contravvenire alle regole.
Cosí, oltre a sentirmi meglio, mi sono saziata di più.
Una volta ogni tanto. Non capita quasi mai, ho pensato.
Ed è stato in quel momento che ho realizzato quanto riuscissi ad adottare questa modalità di scelta anche per tutto il resto, preferendo, quasi sempre, situazioni su cui attacco un adesivo con sù scritto 'da consumarsi preferibilmente entro il ...' a quelle che mi lasciano con il fiato sospeso ed il cuore in gola perchè si disperdono nell'universo come residui di esplosioni stellari che non riuscirai mai a toccare, ma a guardarne la scia da lontano, forse, molto tempo dopo, quando non esistono già più.
Preferendo, spesso, le vite degli altri. Pensando sia giusto cosí. Pensando che in fondo, possa trasformarsi anche nella propria.

Ma da quando ho gustato ció che preferivo nel momento esatto in cui non desideravo altro, disinteressandomi delle scadenze sovrapposte sulla confezione, ho capito che farò sempre cosí.
E non significa contravvenire alle regole.
Nè scegliere in modo poco intelligente.
Ma nutrire e cacciar fuori da ogni poro della propria pelle il rispetto per se stessi, per quello in cui si crede, per ció che in fondo si vuole.

Perchè non esistono regole che ti impongono quando scegliere qualcosa che ci sta a cuore, nè quale sia il modo più intelligente per dargli una forma.
E non esistono mali che ti perseguiteranno, se non il rancore di non averlo fatto.

Gli ho voluto dare un nome.
A questo modo di decidere e a quello che con questo poi si diventa.
A quello che si prova nel farlo.
Gli ho dato un nome banale.
L'ho chiamato semplicemente amore.
Qualsiasi sia la forma, la sostanza, il volto, il profumo ed il colore che gli si voglia attribuire.
Perché non ha scadenze contro le quali si possa combattere, né tempi, illusori, che possano farci credere che finisca, né regole da imporre se non quella che nessuna possa essere così forte rispetto il desiderio di gettarle all'aria.

Perché esistono infinite strade.
Ma sempre una che non riuscirai a non imboccare, anche quando sentirai di averla invece smarrita.

domenica 12 giugno 2016

Spalle sul mondo

Pensavo che il mondo si dividesse in due categorie: quelli che svestendosi di qualsiasi rimorso si sdraiano con la schiena nuda sulle possibilità del mondo, lasciandosele scorrere lungo tutto il corpo e dilatandosi, insieme a loro, ad ogni loro cenno di espansione. E quelli che inghiottono rimpianti, lasciando che questi annichiliscano l'anima rendendo sempre più freddo il pavimento ruvido su cui si sono imposti di rimanere.

Gli uni e gli altri.
Diversi nel loro approccio alla vita, ma simili nei loro desideri.

Ma è stato proprio quando ho constatato ambedue le dimensioni, quella che mi vedeva con la schiena nuda a fare a cazzotti col mondo purchè su di essa fosse dipinta anche solo una fetta dell'universo che immaginavo, e quella che invece mi vedeva ricurva ad accettare ogni cosa mi si presentasse, che ho invece scoperto l'esistenza di un'altra.
Una di quelle che si pone in bilico tra l'accettarsi e l'accettare.
Che rinuncia alle mezze misure per crearne di proprie, soltanto per sè.
Una di quelle che comprendere è una virtù, il perderle di vista un atto di vigliaccheria, verso se stessi.

La immagino come una spiaggia deserta.
O come un campo di girasoli su cui batte forte il sole.
Come quei luoghi in cui riconosci che non puoi prenderti tutto, ma solo quanto basta.
E se non ti basta non è che te lo fai bastare, ma ti approprierai di quello che ti spetta, lasciando il resto al caso.
Farai come chi, sdraiato con la schiena sul mondo, farà di quest'ultima una cartina, i cui contorni saranno disegnati da volti e da emozioni. Da circostanze e da bivi dinanzi i quali scegliere. Da strade da percorrere e da possibilità, colte o cedute.
Perchè alla fine non sarà importante quanto sia scritto lungo tutto il tuo corpo, ma con quanta passione tu abbia voluto dipingere tutto ciò che il tuo corpo racconta.
Ed è cosí che, ad un certo punto, saprai anche dire basta. Perchè ti sarai riempito di cosí tanta bellezza che non ci sarà più nulla da aggiungere, anche quando avresti immaginato contorni diversi da quelli raffigurati.

Riuscirai a fermarti, ma lo farai per te stesso.
E per quella voglia matta di non annichilirti lasciando che le tue guance restino schiacchiate su di un pavimento freddo.
Ma per incidere su di te altre storie.
Altre strade.
Altri paesaggi.
Altri volti.
Altre emozioni.
Per cercare altri corpi, forse, che sapranno sdraiarsi con te, dando le spalle a quel mondo in cui avevi sempre immaginato ci fossero soltanto due possibilità: espandersi con forza e passione o guardare dal basso.
Per poi scoprire o lasciarti insegnare che talvolta bisogna anche alzarsi ed andare.
Il bilico tra l'accettare e l'accettarsi consiste proprio in questo: avere occhi profondi da poter cogliere tutto, e spalle possenti abbastanza da poterti voltare e disegnare altre vie.

giovedì 2 giugno 2016

La vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti


Molto spesso mi sono imposta delle scadenze al termine delle quali tiravo delle somme.
Questo lo facevo, e tuttora lo faccio, per capire se stia proseguendo nella direzione giusta, dove per giusto non pongo come condizione una serie di equazioni che diano tutte lo stesso risultato, ma numeri messi lì, anche a caso, che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, diano un risultato modesto, che possa essere solo il primo di tanti altri.
Come mattone su mattone, un passo dopo l'altro.

Ci sono stati dei momenti in cui il sottrarre mi sembrava la strada più comoda da seguire.
Altri in cui quest'azione proseguiva in modo inarrestabile e non ero io a gestirla.
Momenti in cui invece ho aggiunto numeri aspettando si moltiplicassero con altri.
Momenti in cui questo è accaduto, altri in cui ho capito che l'attesa doveva essere colmata da altro prima che questo accadesse.
Momenti in cui pensavo di condividere, e invece poi ci hanno diviso.

Ma se oggi dovessi dare un nome a tutto questo, non ce ne sarebbe uno appropriato.

Nè momenti, né lezioni di vita.

Perché i momenti fanno pensare a qualcosa di temporaneo, a quegli scatoloni chiusi con il nastro adesivo perché sono fragilissimi e non vogliamo toccarli, né tanto meno aprirli. 
Quelle bolle di sapone in cui soffiamo pochi istanti dopo averle create per annusarne solo il profumo nell'aria, che man mano sfuma, che odora già di passato.
Ed invece questi si collocano in una dimensione senza tempo ed in scatoloni rigidi e tutti aperti, in cui non si annusa la puzza di stantio delle soffitte in cui si nascondono cianfrusaglie inutilizzate.
Sono come numeri che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, non abbiano ancora portato ad un risultato esatto e definitivo, nonostante sembri tutto già accaduto.

Nè lezioni di vita, perché tutte le volte che pensavo di aver appreso la lezione, scoprivo che ci sarebbe stato ancora tanto altro da imparare o che, forse, non sarei mai riuscita ad imparare una sola pagina a menadito. 

Ma se c'è una cosa che ho imparato man mano che i momenti si susseguivano e che ricevevo pagelle al termine di ogni lezione, è che non si deve necessariamente dare un nome alle cose, perché non tutte le emozioni, gli attimi, le esperienze ed i bagagli che ci portiamo dietro ne hanno bisogno.

Perché esistono cose che possono avere un metro di paragone, di cui si possono descrivere i contorni, indicare le gradazioni di colori, per cui addirittura immaginare un suono o un profumo.
Ed altre che invece nascono così, prive di connotazione.
E non attendono che tu ne possa trovare una.
Si addizionano perché tu possa credere nella loro esistenza.
Si sottraggono perché tu non possa pensare di poterle possedere per sempre.
Si moltiplicano perché tu possa crederci.
Si dividono, come strade.

Perché la vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti.
Una serie infinita di tappe in cui ciascuna sarà come un ponte per l'altra.
Quella in cui non ti sentirai forse mai arrivato abbastanza, fin quando non ti volti e contando i passi che ti separano da dove sei a dove hai cominciato, capisci l'unica cosa che conta: ne è valsa la pena.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 24 aprile 2016

Le generazioni sono cosí, chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà

Ogni tanto mi capita di pensare a come sia accaduto.
Che sia passata dal far parte della generazione ah-perchè-è-già-arrivato-il-weekend a quella che odia il lunedì peggio del ketchup sulla pasta o che santifica il venerdì come fosse una festa comandata.
Che abbia fatto parte della generazione Erasmus, quella che a prescindere da un luogo geograficamente circoscritto, viveva quel momento della vita con slancio ascetico, come fosse un dono divino, un lusso che ci si era concesso, o entrambe le cose, per finire in quella del dove-ci-si-trova-conta-quanto-il-come, anzi talvolta lo influenza.
Che sia passata dal fare la fila per le patatine al Mc Donald's a poi cercare diete dimagranti su google.
Dieta dell'ananas, del limone, del minestrone. 
Perché al tuo posteriore con la forma di patate fritte nell'olio di una settimana, hai preferito una faccia con la forma di ananas, limone, minestrone, o checchessia.

Ma pensavo che le generazioni sono proprio così: finite. Un lasso temporale tra il prima ed il dopo che ci culla fin quando non giungerà il momento in cui sia giusto lasciarci andare.
E cosí saremo stati quella generazione prima di entrare in quella successiva che però non sarà mai la definitiva. Ma le saremo tutte, in egual misura. Ed il bello sarà riuscire a contarle e scoprire di non avere abbastanza dita per reggerne il conto.

Allora saremo la generazione delle corse il primo giorno di scuola per arrivare ad occupare l'ultimo banco in fondo a sinistra. Quella delle corse il primo giorno di università per trovare un posto dove sedere, uno qualunque. Quella delle corse il giorno del tuo primo colloquio importante per arrivare in anticipo. Quella delle corse, nella vita, per non arrivare mai ultimi.

Saremo la generazione di chi sceglieva il compagno di banco per condividere un intero anno spalla a spalla. Di chi, inconsapevolmente, sceglieva quelli universitari con cui condividere i propri dolori intestinali prima di un esame. Di chi poi, ad un certo punto, ha cominciato a selezionare i propri compagni di viaggio, quelli della vita.

Saremo la generazione che trovava amici dappertutto, quella che per trovarli doveva fare due passi e bussare un campanello, per finire poi in quella in cui per incontrarli deve prenotare un biglietto aereo e girare l'Europa, non più attraversare la strada.

Saremo la generazione delle farfalle allo stomaco, del contare le ore che ci separano dal primo appuntamento con il ragazzo cui abbiamo fatto il filo per mesi. Quella del se-non-mi-chiama-gli-invio-un-messaggio. Quella del se-non-mi-chiama-può-andare-al-diavolo. Quella del sono-qui-chiedimi-di-rimanere. Quella del resto-anche-se-non-me-lo-hai-mai-chiesto. Quella generazione in cui nessuno chiederà niente all'altro, perché l'importante sarà esserci. Lui per noi, e noi per lui.
Quella in cui forse il fato deciderà che dovremmo farne a meno, ma noi saremo lì, ad accoglierlo, comunque, perché in fondo, penseremo, l'importante è che siamo ancora vivi per affrontare la vita.

Saremo la generazione delle grandi aspettative, quella delle illusioni confezionate con carta regalo, per passare in quella del "No, grazie, a questo gioco non ci sto più."

Saremo la generazione che per un attimo penserà di avere il mondo in un pugno. Quella che sentirà il peso del mondo. Quella che poi, ad un certo punto, capirà che l'uno o l'altra sia servita per farci diventare quello che sarà più congeniale essere: un granello di sabbia che sfugge a chiunque voglia costringerci a spazi stretti, quello che seguirà i soffi di vento, prima di fermarsi sulla terraferma, dove ne saranno approdati altri, nella stessa modalità o forse diversa. E lí non saremo i padroni del mondo nè sarà lui a tenerci tra le sue mani, ma saremo i padroni del nostro destino, che potrà mutare tante volte, a seconda di come butterà il vento.

Saremo la generazione Erasmus, della vita vissuta come un attimo irripetibile, delle feste in casa, delle diagnosi partorite leggendo wikipedia, dello sperimentare il diverso, del comunicare in una lingua sconosciuta fino ad allora, del sentirci parte di qualcosa che abbia il volto di persone cui riserveremo sempre un posto speciale, nel luogo più profondo che un giorno avevamo chiamato casa per poi capire che sarebbe stato qualcosa di più: quello in cui, attraverso l'altro, abbiamo imparato a conoscerci senza mai dubitare di poter diventare quello che si sognava di essere.
Saremo quella che farà tesoro di tutto, anche quando un giorno si troverà ad osservare le proprie parrucche di colori differenti su di una mensola della propria stanza, le fotografie incorniciate per mantenere vivi quei ricordi, quelli che, sempre, ci faranno ridere di gusto, anche se un tempo non avevamo mai pensato di riuscirlo a fare.
Quella che sognava di scoprire a quale spicchio di mondo sarebbe stata destinata.
Quella che lo scopre e vi comincia a piantare radici.
Quella che, ignara, comincerà a chiamare radici mattoni, e mattoni poi casa.

Quella generazione che morirà di felicità, e poi di malinconia. Di malinconia e poi di felicità.
Prima di arrivare a quella in cui le due si combinano, perché non riuscirà a fare a meno né dell'una né dell'altra.

Quella generazione che credeva che le cose importanti non ci avrebbero mai lasciato, per poi passare a quella in cui conteremo quelle che invece non ci hanno abbandonato.
Ma poi, un giorno, entreremo in quella per cui l'una e l'altra ci avranno insegnato qualcosa che nessuno ci aveva detto in partenza: che nella nostra continua transizione, cambiamo come il passaggio delle stagioni, come la fine di una generazione e l'inizio di un'altra. Ed è così che scopriremo che talvolta le cose importanti le potremmo scoprire soltanto vivendo, e che spesso, come diceva qualcuno, devono ancora venire.

Le generazioni sono cosí: chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà.
E quante più ne passeremo, tanto più profondi saranno i nostri occhi.
Ignari che siamo noi a decidere tutto, la partenza così come la meta.






domenica 3 aprile 2016

La stagione della resilienza

Ho capito quanto la resilienza fosse parte integrante di un processo di cambiamento solo dopo esserci entrata dentro tante volte.
Quando le cose non riuscivano a cambiare me ed allora io cambiavo le cose.
Solo quando ho capito che ci saranno sempre mille strade alternative per non sbatterci contro, ma solo una che vale la pena percorrere. Quella nascosta, a tratti invisibile, buia, dal selciato fangoso e a tratti impervio, ma la più vera. Quella in cui non incrocerai sempre volti gentili, né sorrisi raggianti, né sempre una mano tesa in tuo soccorso ogni volta che la vorrai.

Ma ho anche capito che la resilienza non è un qualcosa di innato.
Né di logicamente precostituito, per cui se si è pronti al cambiamento significa che lo si debba accettare escludendo automaticamente qualsiasi peso dal cuore.
E nemmeno un qualcosa che va insegnato.

Lo si impara, come fosse una regola da porre in cima alle nostre priorità.
E lo si amalgama a tutto il resto, come un ingrediente aggiuntivo che seguirà ogni avvenimento.
Come pochi granelli di zucchero in una tazza di caffè.

Ne si assume consapevolezza scrutando negli occhi di chi non avremmo mai voluto incontrare se avessimo optato per un percorso alternativo.
Ma anche di chi ci ama, mentre ci promette che andrà tutto bene.

Ed allora impareremo a sfidarla.
Davanti le rimanenze di un take-away della sera precedente preso in un ristorante cinese, pur essendo un giorno di festa.
Davanti scatoloni da riempire per traslochi imminenti da trasportare chi sa come.
Davanti un armadio che sarebbe stato sempre troppo pieno o valigie troppo piccole per portare con me ogni cosa.
Quando certe parole devono bastare per colmare le distanze, pur non attutendo le mancanze.
Quando la pazienza riuscirà a prendere il sopravvento sull'insoddisfazione.
Quando comprendi che cosí come la vita sia trascorsa per te, lo stesso sia avvenuto anche per gli altri.
Che le persone cambiano, cosí come sei cambiato tu.
Che possiamo scegliere di cambiare le cose se non accettiamo che siano loro a cambiare noi, ma può capitare che queste l'abbiano già fatto prima ancora che ce ne si renda conto.
Possiamo cambiare pensando di catapultarci in un nuovo inverno in cui nessun piumone sarà abbastanza caldo per riscaldarci.
Oppure possiamo farlo pensando sempre che fuori sia primavera.

È questa per me la resilienza.
Non soltanto adattarsi in maniera positiva a qualsivoglia evento ci capiti, ma imparare ad accettare anche quello che non possiamo cambiare.
E non è vero che col tempo queste cose ci cambieranno solo perché avremmo imparato a conviverci.
Scompariranno, cosí, all'improvviso, in un giorno di primavera.
Proprio quando avremmo imparato ad annusarne i primi boccioli.
Proprio perché avremmo deciso di farlo quando nessuno se lo sarebbe aspettato.
Quando tutto ci diceva il contrario, ma abbiamo preferito non ascoltare.


sabato 6 febbraio 2016

Siate donne, siate leonesse


Fino a qualche tempo fa mi comportavo come il mio gatto che va a nascondersi per espellere i propri bisogni e poi li sotterra tra i sassolini della lettiera, in attesa che qualcuno vada a scovarli per rimuoverli.

Perché esiste questa categoria di persone. Quelle che fanno come i gatti.
Ed io ne facevo inconsapevolmente parte, fin quando un giorno ho capito che non volevo essere quel tipo di donna.

Quella che si nasconde per timore di palesare i propri bisogni.
Quella che li esprime sotto voce, per timore che facciano troppo rumore.
Quella che li sotterra, non perché li reputi poco importanti, ma in attesa che qualcun altro li scopra e faccia qualcosa per portarli in superficie.

Cosí un giorno ho scoperto che volevo essere quella donna che mette i propri bisogni al primo posto. Che li urla, fino a sgolarsi. Che li sbatte in faccia a chiunque, affinché nessuno possa giustificarsi dicendo di non esserne a conoscenza.

Poi, col tempo, ho scoperto che questo sodalizio che avevo stretto con il mondo esterno non era destinato a durare. 
Perché chi mette i propri bisogni al primo posto diventa egoista nei confronti dell’altro.
Chi li urla rischia di bombardare le orecchie con il suono di quello che diverrà man mano soltanto un’eco.
Chi li manifesta come se non vi fosse altra che quella priorità, assoluta ed immediata, rischia di diventare schiavo delle persone. Della richiesta a loro rivolta di accondiscendenza, in ogni caso.

Cosí ho cercato una via di mezzo, catalogandomi tra le persone-gatto e tra quelle che credono di avere il mondo ai loro piedi. 
Mi sono riservata uno spazio in questa giungla, e ho capito che potevo essere una leonessa.

Le donne-leonesse siglano un patto di forza, tra loro stesse e tra loro ed il mondo.
Un compromesso tra i loro punti deboli e quelli saldi, in cui non vincono sempre i secondi a discapito dei primi.
Perché palesano i propri bisogni mettendoli in cima alla lista, consapevoli però del fatto che lì non potranno restare per sempre e ad ogni condizione. Perché forse questi stessi cambieranno cedendo il passo ad altri. 
Li esprimono con tono maturo di chi sa ciò che vuole.
Non li sotterrano mai, né lasciano che qualcun altro li scopra. 
Lo faranno da sole, perché avranno scelto di non essere schiave.

Ed è allora che ho scoperto che non volevo essere né quella donna, né l’altra.
Che desideravo sentirmi una leonessa, perché così non sarei mai stata schiava dell’accondiscendenza altrui. Perché mi sarei sentita sempre forte abbastanza, così da non aver alcun timore di palesare le mie debolezze.

Perché chiunque scelga di far parte di una simile categoria lo sa. 
Che quando avverti che le debolezze ti portino a fondo come un fiume in piena, questa può rivelarsi invece un’opportunità per sentirsi più forte.
Che il silenzio o le urla ti rendono solo una persona timorosa o una persona egoista.
Che spesso è necessario porsi al centro per guardare il mondo circostante con la giusta equidistanza.
Che in fondo i tuoi bisogni sono importanti, e dovrai esserci tu quando sarà il momento di soddisfarli. 

Che non esiste assenza più incolmabile di quella di non esserci per se stessi.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

martedì 26 gennaio 2016

Quando per innamorarsi servono gli occhi degli altri

A lui avrei perdonato tutto. Anche il maglione con i richiami natalizi, che da brava veterana, ho deciso a malincuore di lasciare al freddo delle mensole nell’armadio già da una ventina di giorni, subito dopo la fine delle festività natalizie.
Su di lei, invece, ho avuto delle riserve sin da subito. Ma a primo impatto, non le avrei mai perdonato le calze color carne, le ballerine ed il giubbotto di pelle nonostante fuori piovesse e ci fossero zero gradi. In fondo lo sanno tutti, le ballerine sono perfette per le giornate di pioggia.

I due erano in un pub, poggiando i gomiti sul bancone di legno massiccio, e mi erano di fronte quando lui le offriva da bere e le versava la birra in un bicchiere di cristallo.
Sarebbe stato un gesto di gentilezza qualunque, se lui non l’avesse guardata in quel modo. 
Come se dovesse fare qualsiasi cosa gli fosse concesso per meritarla, come se si sentisse non abbastanza. Come se domani fosse troppo tardi, perché lei sarebbe già stata di un altro.

La annusava, come se le sue narici non fossero in grado di percepire nessun altro profumo se non quello della sua pelle. Le toccava il braccialetto che aveva al polso e poi le ha detto qualcosa che le ha fatto accennare un lieve sorriso sul viso, mentre lui ha cominciato a ridere di gusto. 
Poi le ha portato una ciocca di capelli che le si poggiava sulla fronte nascondendole l’occhio sinistro dietro l’orecchio. 
Ad un certo punto però le avrà detto qualcosa che l’ha infastidita. 
Così lei ha accantonato il modo disincantato di lui di essere uomo accondiscendo al suo celato desiderio di sentirsi donna il doppio.
Il suo modo semplice di farsi entrare dentro il suo profumo, nonostante non si riuscisse a percepire altro che quello del malto d’orzo impregnato persino nel bancone di legno massiccio.
La sua risata incontrollata, anche quando lei vi ha posto un freno.
Il suo desiderio di volerla guardare dritto negli occhi scostandole i capelli che le coprivano il viso.

Cosí si è irritata. Il suo corpo si è irrigidito, mentre sorseggiava la birra come fosse un sistema per scaricare l’ansia. Immagino che lei sperasse che continuasse tutto come stava andando sino a quel momento. Ma invece lui è tornato al suo posto, sedendosi su di uno sgabello libero a qualche centimetro in più di distanza.

Poi li ho persi di vista, ma ho cercato di immaginare un finale che fosse verosimile.

L’unica immagine che la mia mente è riuscita a concepire è stata quella di lei che si strappa i capelli per lui, e di lui che, invece, preso dalla disillusione di quanto quella donna audace abbastanza da poter indossare un paio di ballerine in una giornata di pioggia non fosse poi così speciale, l’aveva scaricata.

Perché in fondo noi donne siamo fatte un po’ tutte così: crediamo di essere speciali, e questa convinzione diventa la più grande delle nostre frustrazioni.
Per questo ci fa credere che dobbiamo dimostrare il nostro essere donne nel tenere tutti alla larga e nell’imporre sempre le nostre condizioni. E spesso ci rende anche cieche.


Perché magari avessimo gli occhi degli altri. Saremmo in grado di innamorarci più spesso della persona giusta.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

mercoledì 30 dicembre 2015

Quando tutto diventa un alibi

L'altro giorno la pigrizia ha miracolosamente abbandonato il mio corpo, cosí ho pensato non avessi più alcun alibi per non andare in palestra. E dato che di alibi me ne procuro già abbastanza, ho ceduto alla tentazione di non farlo anche stavolta, accarezzata da un lieve venticello e da raggi di sole stranamente tiepidi per una giornata di fine dicembre.

E proprio mentre ero lí, a contare i minuti che mi separavano tra il tapirulan ed il poggiare i piedi su di una superficie statica che non imponesse alcun esercizio fisico, il mio sguardo si è poggiato su di un uomo, nemmeno troppo anziano, che indossava una maglia giallina a mezze maniche, un pantalone chiaro e delle scarpe marroni. 

La mia attenzione è calata su di lui, come luci su di un sipario, non perchè indossasse un abbigliamento poco sportivo e forse non consono ad un ambiente come quello. Ma l'uomo andava in giro per la sala con un bastone con cui si aiutava per passare da un attrezzo all'altro, prima di lasciarlo quando trovava qualcos'altro cui appoggiarsi. 

Vederlo girovagare per la sala tra busti che sembravano scolpiti nel marmo lo rendeva quasi diverso dagli altri. Ma quando saliva su di un attrezzo qualsiasi, ponendo il bastone vicino la parete alla sua sinistra, diventava come gli altri: uno che, in una giornata di fine dicembre, dai raggi di sole stranamente tiepidi, aveva deciso di allenarsi. Con quegli indumenti lí. Nonostante fosse claudicante. Nonostante non riuscisse a camminare se non per aiuto di un bastone.

Ed allora ho speso l'intera mattinata in palestra ad osservarlo, quasi come se volessi emularlo. 
Perchè in fondo è vero che siamo i primi boicottatori di noi stessi.
Lo facciamo con i nostri desideri, quelli cui ad un certo punto attribuiremo l'aggettivo dell'impossibile, solo per non ammettere di non averci creduto abbastanza.
Lo facciamo con le circostanze che avremmo voluto vivere, se solo non avessimo avuto paura di saltarci dentro anche quando tutto ci diceva di non farlo.
Lo facciamo con le persone, quando ci convinciamo che non hanno fatto abbastanza, senza contare ciò che noi, invece, avremmo potuto fare.
E lo facciamo con la nostra felicità, quando crediamo di non poterla meritare.

Ho cercato, per giorni, qualcosa da aggiungere alla lista dei buoni propositi di quest'anno.
Come un rituale che osservi nonostante finisca tra quelle abitudini che forse non inizierai mai.

Ma poi ho capito che quest'anno non ci sarebbe stata alcuna lista nè un alibi che giustificasse le mancate scelte.

Quell'uomo è diventato il simbolo di un anno in cui ho spazzato via gli alibi sull'uscio della porta, e mi sono arrampicata, anche quando credevo potessi cadere. Ma nonostante tutto, non ho smesso di farlo. E quando non potevo, mi costruivo un bastone e proseguivo, insieme a lui.

C'è l'abitudine di augurarsi che l'anno che verrà sia sempre migliore del precedente.
Io invece lo desidero esattamente cosí come è stato.
E di scoprire, solo alla fine, cosa hai imparato e chi sei diventata.
Come guardare un film muto in una sala per pochi.
Attraverso chi, intanto, ti sta insegnando che a poco conta augurarsi il meglio, se prima non sei tu ad andartelo a prendere. A qualsiasi condizione, e con ogni mezzo.

Quell'uomo me lo stava insegnando, in una giornata di fine dicembre qualunque.
Che siamo tutti scalatori, amatoriali o professionisti, con una meta da raggiungere.
Ed i mezzi, spesso, riducono i limiti. Le ragioni li vanificano.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

lunedì 28 dicembre 2015

Gocce di empatia

Empatia.
Nel linguaggio psicologico, è una forma di immedesimazione negli stati psicologici dell'altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o "comprensione", del suo comportamento. In sostanza, la capacità di porsi nella situazione di un'altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell'altro.

Io invece ho sempre pensato fosse un altro modo per comunicare.
Quello che si sceglie in modo naturale quando non c'è altra alternativa alla distanza.
O quello che si scopre imparando ad osservare qualcuno che ci è sempre accanto.
Quel linguaggio che lega fili di silenzio in un mucchio e che ad un certo punto si lascia cadere, cosí che ogni filo scivoli via per raggiungere l'altro, senza alcuna possibilità di essere riavvolto.

Ho sempre creduto vi fosse un modo di sentire differente.
Quello che di fatto appartiene già a chi sente troppo tutto.
A chi è in grado di cambiare la vita di qualcuno, ma sempre con la massima cautela.
A chi entra nella tua vita e prima di andar via ti chiede perdono.
A chi rovescia tutto e prima di gettarne i cocci cerca di rimetterli insieme.
A chi prima di attaccare una fotografia alla parete, pensa alla parete appiccicosa che non andrà più via se un giorno deciderai di rimuoverla.

Ho sempre creduto che una cosa come questa appartenesse a queste persone qui.
Quelli che si prendono cura di te al punto da pensare a quello che potrai essere un domani e mitigare le loro scelte per non compromettere quelle che forse un giorno potranno essere le tue.
È una sorta di missione. Entrano dentro di te, senza sconvolgerti la vita.

Credevo che potesse essere una qualità da apprendere o una di quelle con cui ci devi nascere.

Invece ho capito che si trova.
Per caso, in un giorno qualsiasi, o negli occhi di chi al principio ti apparirà come uno qualunque.
Si addiziona, come un'operazione algebrica.
Si moltiplica, come una radice quadrata.
E poi si mescola, come una poziona magica.

Prendi uno, per esempio, che creda di conoscerne già il procedimento, ed un altro che non si sia mai interrogato sulla possibilità di farlo.
Li metti insieme ed entrambe capiscono che ne vale la pena.
Chi credeva di conoscere tutto ciò che bastava, imparerà a conoscere ciò che credeva non potesse meritare.
Chi credeva di non saperlo fare, apprenderà ciò che credeva non potesse esistere.

Uno dei due pronuncerà quello che avrebbe detto l'altro appena un attimo dopo, se solo i suoi attimi durassero meno.
Entrambe colmeranno le distanze con gesti di pochi secondi, che appariranno come attimi di gioia infiniti.
Riusciranno a mettere in ordine le cose, lí dove era giusto che stessero.
Saranno gli unici in grado di comprendersi anche in silenzio.
Perchè avranno scoperto come sentirsi, in tutti i modi in cui sia possibile farlo.

E niente, questa è l'empatia.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.




domenica 29 novembre 2015

Una casa normale

Adesso vivo in una casa normale. A me piace chiamarla cosí.
Quella dove esiste un confine reale tra la tua camera da letto, il soggiorno e la cucina.
Quella in cui hai piazzato un divano, finalmente comodo, su cui spendere il resto delle tue giornate dopo il lavoro, o che potrà diventare una plausibile sistemazione di chi, si spera, ti verrà presto a trovare.
Quella in cui c'è spazio in sovrabbondanza, per comprare finalmente un mobile in cui riporre i tuoi libri su di ogni scaffale ben in vista. Dove appendere alle pareti un quadro che ti piace tanto e delle fotografie, quelle che ti hanno seguito ovunque tu sia andata, come a voler svelare parte della cesta dei tuoi ricordi, ma mai abbastanza.

Quella in cui per i tuoi vestiti non ci sarà mai abbastanza spazio, ma almeno riuscirai ad identificarli nel tuo armardio nuovo più capiente, ancora con gli occhi gonfi di buon mattino, senza convincerti di averli maldestramente persi. E poi dove?

Quella che per tre giorni di fila hai rassettato con cura, rimuovendo ogni briciola dal parquet, ordinando tutto a tua immagine e somiglianza, perchè si sentisse nell'aria il tuo profumo, perchè raccontasse qualcosa di te, perchè sembrasse perfetta nonostante le tue imprecisioni.

Come un traguardo che pensavi non potessi mai raggiungere, eppure è arrivato prima del previsto. Proprio mentre ricordavi il tuo soggiorno in una casa per dodici, con una pila di piatti di sporchi nel lavabo che avrebbero atteso il ritiro dei soldati in Afghanistan per essere puliti e la carta igienica nascosta come fosse un prezioso arsenale. Mentre ricordavi, accennando un sorriso, il tuo passaggio in una casa con la metà dei coabitanti, ma pur sempre un campo di battaglia. O mentre ricordavi, appena un anno fa, quando mettesti piede in una casa, piccola ma accogliente, che fosse solo per due. Dove il confine tra la camera da letto, il soggiorno e la cucina era inesistente. Dove ti sei convinta che il divano fosse comodo, nonostante non lo fosse. Dove riponevi i tuoi libri in cima all'armadio, che risploveravi di tanto in tanto. Dove non c'era spazio a sufficienza per appendere ai muri tutti i tuoi ricordi, qualcuno lo lasciavi nel cassetto. Dove ogni giorno perdevi una camicia nell'armadio, ma il giorno seguente ne recuperavi un'altra.

Non ho cambiato zona, e nemmeno l'edificio. Sono scesa semplicemente di qualche piano. Ed è per questo, che proprio l'altra sera, mentre ero in giardino ho alzato gli occhi verso quella finestra chiusa al secondo piano, con le luci oramai spente e senza più fiori sul davanzale.
Ho immaginato la mia figura sporta alla finestra e quanti pensieri in poco più di un anno abbia lasciato su quel davanzale.
Ma è successo solo quella sera. Ho deciso di lasciarli lí, almeno quei ricordi, perchè qualcuno meritava di essere spento come le luci di quella casa.
Ho capito che non avevo bisogno di portarli con me. Avrei voluto, forse, ma probabilmente sono stati loro a scegliere di non seguirmi, per rimanere in una stanza buia, dalle pareti bianche, lasciando che sia il silenzio a colmarli.

Perchè tutto cambia. Le circostanze, le emozioni, le persone, ed anche i ricordi. E cambiano perchè a mutare è il modo con cui a loro ci rapporteremo.

Ma in ognuna di queste fasi ricordo quella sensazione. Palpabile, come il terreno bagnato dopo una giornata di pioggia, e percepibile, come l'aria fresca che al mattino ti entra nelle narici. Mi bastava, ed è sempre stato cosí.

Non desideravo una casa diversa, perchè quello che adesso chiamo "passaggio alla normalità", sapevo di dovermelo guadagnare e che, un giorno, sarebbe arrivato, tra lo stupore del sentirmi felice perchè ho un mio spazio per scrivere, uno per leggere, uno per dormire, un altro per cenare, ed un altro in cui prendere aria anche se piove.

Non sapevo che volto avesse questa felicità, nè che nome attribuirgli. Ma adesso la rivedo in tutti i luoghi precedenti cui ho sempre attribuito nomignoli simili ma mai identici, come fossero un ponte per arrivare a quella che è, e che ancora forse dovrà essere.

Perchè ci vuole cura per far crescere un cuore.
Lo si innaffia a giorni alterni, esponendolo al sole.
Non lo si lascia morire.
Quando muore, lo si butta via e se ne fa crescere un altro.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.


sabato 21 novembre 2015

Occhi sani non conoscono nemici

Ho immaginato di svegliarmi un giorno ed un tratto percepire sulla mia pelle in rancore riflesso negli occhi di perfetti sconosciuti. O di essere io a possedere quegli occhi inquisitori.  

L'ho immaginato mentre lei mi diceva: "Dopo quello che é successo a Parigi, ce l'hanno tutti con noi", raccontando di essere stata verbalmente aggredita da un uomo mentre si trovava in ospedale con sua madre per una visita medica.
Parlando in prima persona, ma al plurale, presupponendo che dall'altra parte ci sia un "voi", ed in mezzo un deserto a separarci. Lei era il noi, io ero il voi. Intercambiabili a seconda del punto di vista dell'interlocutore.

Lei è una mia collega, cui ho scelto di dare un nome di fantasia. Allora facciamo pure che ve la presenti con un nome "occidentale", tipo Monica.


La famiglia di Monica è originaria del Bangladesh, ma lei è nata in un quartiere a Nord di Londra. Non so di che colore abbia i capelli, nè se li porti lunghi o corti, perchè indossa sempre un burka nero in tinta con i colori sobri degli abiti che indossa. Le chiedo spesso di insegnarmi come mettere l'eye liner con la sua stessa precisione, senza rischiare di sembrare un panda ogni volta. Ma probabilmente, nemmeno se riuscissi ad apprenderlo, sortirebbe su di me lo stesso effetto elegante che ha sopra i suoi occhi neri e dal taglio lungo.

In pausa pranzo evitiamo i ristoranti cinesi, perchè dice che non si fida. Potrebbero facilmente spacciare il pollo per halal anche quando non lo è, dice lei.

Quando andiamo al pub il fine settimana, è l'unica ad ordinare una coca cola. Tempo fa, quando ho fatto il vaccino contro l'influenza, mi ha stretto la mano mentre giravo i polsini della camicia e l'infermiera si preparava a farmi entrare l'ago nel braccio. Perchè a ventisei anni, ho ancora paura dell'ago. E lei, nonostante avesse di fronte una donna poco più grande di lei, mi ha detto sorridendo: "I'm proud of you", una volta terminato, assicurandosi ricevessi una caramella alla frutta subito dopo, come fosse un premio, come si fa per un bambino terrorizzato. 

Monica non ha mai conosciuto la guerra.
Non ha mai visto il cielo del Medio Oriente.
Non ha mai annusato l'odore della polvere da sparo.
Non sa maneggiare un kalashnikov.
Non ha un fidanzato di vent'anni più grande di lei.
Non pensa di diventare la schiava di nessun uomo. Probabilmente una madre, ma è ancora troppo presto.
Prega Allah, perchè questo è il nome del suo Dio. Ma organizza un minuto di silenzio per la commemorazione dei caduti inglesi nella guerra mondiale, cosí come per le vittime degli attacchi a Parigi.
Monica non ha la minima conoscenza sull'educazione impartita ai bambini nei villaggi sotto il controllo dell'Isis. Gliel'ho raccontato io, in modo approssimativo, dopo aver visto un documentario.
Invece lei mi ha detto che il principe dell'Arabia Saudita ha più di centoventi figli e trenta mogli, ma che nonostante il loro sangue blu, non vorrebbe mai essere tra queste, e nemmeno essere associata ad una cultura cosí estremista.

Monica è musulmana. Fa parte di quel "loro" che attribuiamo ad un popolo intero, suddividendoli per sottocategorie cui riserveremo lo stesso sguardo. Quello che attribuisce loro colpe di altri. Che li guarda con lo stesso spavento di chi crede che potrebbero farsi saltare in aria da un momento all'altro, e noi con loro. Quello sguardo che li etichetta come impositori di una cultura ed una religione pronte a smembrare le nostre.
Perchè in fondo, chi è che il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi non si sia imbattuto in uno di loro e non li abbia guardati con rabbia, o semplicemente con spavento. 

Ed anche Monica ne era a conoscenza, non appena ha aperto la porta dell'ufficio, che quello non sarebbe stato un ordinario lunedí come gli altri. E l'ho capito quando ogni pretesto si è per lei trasformato in un motivo giusto per parlare della sua religione, della sua cultura, della sua gente, per spiegare il suo punto di vista, cosa che prima non aveva mai fatto. 

E lo sapeva anche lui, cui darò un altro nome di fantasia, tipo Marco. Ma che quel lunedí ha scelto di reagire in modo diverso. 
"Ho visto che hai scritto qualcosa su Parigi", mi ha detto.
Ed io ho soltanto annuito, perchè per me si trattava di un lunedí diverso dagli altri, ma pur sempre un lunedí in cui fatico per le prime ore del mattino a mettere insieme frasi di senso compiuto.
Ed allora pensando che avessi scritto qualcosa di male che non sarebbe stato in grado di tradurre, mi ha detto: "Mi dispiace, sono solo degli assassini."
Ed io, ascoltando quella frase, ho sentito il bisogno di svegliarmi sul serio tutto d'un tratto. 
Perchè l'aria era pesante e ho avvertito quanto sentisse il peso della giustificazione per qualcosa di cui lui non era colpevole. Quanto mettesse sulle mie spalle il peso di una superiorità che non desideravo possedere. 
Cosí ho rotto il silenzio aprendo la busta dei biscotti che abbiamo messo al centro del tavolo per mangiarne qualcuno insieme. È stato il primo gesto istintivo, per smorzare quell'atmosfera che più che paura, sapeva di qualcosa di irreale che intanto si consumava di fronte i nostri sguardi impotenti.

Ma è ciò che è accaduto in un lunedí che poteva essere come tutti gli altri, ma che purtoppo non lo è stato. 
Perchè io ho sempre detto di essere cristiana, loro musulmani. Ma se l'avessimo saputo, avremmo forse evitato di puntualizzarlo troppe volte, per non scambiarci pesi gli uni con gli altri, che nemmeno ci spettano. Per non aspettare risposte o rassicurazioni che non siamo tenuti ad offrire.

Ma la domanda che mi sorge spontanea non è se questa sia una guerra giusta o sbagliata. La sola idea che si faccia chiamare guerra, dovrebbe d'istinto metterci tutti uniti e puntargli il dito contro. 

Vorrei piuttosto sapere cosa state insegnando ai vostri figli o nipoti, per comprendere cosa possa insegnare ai miei tra qualche anno. 

Come faccio ad insegnare a mio figlio che quelli con la barba lunga e la carnagione scura, quelli che riconoscono in Allah il proprio Dio e ne Il Corano il loro testo sacro, sono diversi, per questo potenziali nemici?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che gli esseri umani non sono tutti uguali, e che esistono culture superiori alle altre?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che aggredire fisicamente o verbalmente qualcuno non è una cosa giusta, ma se il soggetto in questione è il nemico cui tutti sembrano aver dato quel volto, potrebbe essere giustificato?

Non so che state dicendo ai vostri. Io sono sicura che al mio lascerò la libertà di scegliere cosa sapere solo dopo aver sperimentato, lasciandolo solo in quest'esplorazione.

Perchè so già, con molti anni in anticipo, che alla fine lo capirà anche lui o lei. 

Che Monica e Marco non rappresentano il nemico. Che se pensiamo possano esserlo, saremo destinati a possedere occhi inquisitori. Quelli che osservano il diverso con disprezzo, rinunciando alla curiosità dello scoprire.
Spero allora che, come me, sceglierà di avere occhi sani. Che non significa svuotarsi completamente dalla paura, ma trattare tutti con grazia, non avere inutili pesi sul cuore, guardare tutti come esseri umani, per riuscire a domarla.

Ve l'ho voluto raccontare, per lasciare a voi la possibilità di scegliere da che parte stare.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.