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giovedì 1 giugno 2017

Il giusto valore delle cose

Quando penso all'azione del 'dare il giusto valore alle cose' immagino uno sguardo, forse smarrito, dietro i vetri di una finestra bagnati dagli schizzi di una pioggia sottile, teso a catturare qualsiasi cosa prenda forma all'esterno, trovando per ciascuna la giusta posizione. Quasi come a voler mettere ordine.

Cosa guardo, prima la pioggia o l'arcobaleno che di lì a poco catturerà il mio sguardo con le sue tinte variopinte, per durare anche solo pochi minuti?
Cos'è più importante?
Il mio sguardo, o le cose su cui si posa, quelle che questo tende a prendere con sé, come fossero parti di uno scenario da dipingere su tela.
Il mio sguardo, o ciò che questo tende a rappresentare.
Il mio sguardo, o quello che quest'ultimo vuole vedere. Perché sarà la nostra percezione delle cose a deciderne il valore, e quindi a catalogare ciò che vorremmo trattenere o lasciare andare via.

La percezione è lo stadio più importante del processo.
Quello che deciderà tutti i passaggi successivi.
Delicato al punto che potrà capitare di scambiare un fuoco per una lucerna, o viceversa, una luce fioca per il più bel fuoco d'artificio su cui il nostro sguardo si sia mai posato.

Ed è forse da questo che deriva l'incapacità a dare il giusto valore alle cose, così come alle persone, dove il concetto di 'giusto', per quanto soggettivo, deve rispondere ad una sola domanda: quanto ci amiamo, cos'è che ci fa star bene?

Il non sapersi mettere anche solo un dito più distanti da quella finestra, da cui, con il naso schiacciato ai vetri, pretendiamo di incamerare ogni cosa. 
Potremmo percepire gli schizzi di pioggia più grossi ed i vetri ancor più bagnati, forse.
Ma anche l'arcobaleno più colorato di quello che è realmente, come se le tinte risultassero decise nonostante, osservandole con attenzione, siano invece sbiadite, opache, poco vivaci.

Solo a qualche centimetro in più dalla finestra potremmo forse capirlo.
Che chi ci vuole bene ci farà star bene, ma che se non accadrà, dovremmo aumentare la dose del nostro amor proprio.
Che solo con la dovuta distanza riusciremo ad osservare meglio, attraverso delle lenti da indossare per capire cosa tenere stretto al nostro petto, e cosa far scivolare via.
Chi siano i mattoni destinati a diventare pilastri, e chi paglia destinata a divenire cenere.
Chi o cosa sia una luce fioca destinata col tempo a diventare il nostro faro, e chi o cosa non farà altro che abbagliarci al solo scopo di farci perdere la strada di casa.
Chi o cosa sia apparsa come una bollicina effervescente in un bicchier d'acqua destinata col tempo a fuoriuscire, o chi o cosa sia stato come una bolla che saliva per poi, ad un certo punto, perdere quota.

Ma se c'è una cosa che col tempo ho imparato, è che al di là delle paure di perdere, di incanalarsi verso sentieri ignoti o proibiti, di inciampare su massi al centro del nostro percorso che non avevamo previsto e che forse avremmo potuto evitare, così come abbiamo deciso di dar forma alle cose, avremo soltanto noi il potere di sgonfiarle.

E se c'è un'altra cosa che il tempo mi ha donato, è che non vi sarà rimorso né rimpianto.
Perché se é vero che le cose sono belle solo se si conserva la bellezza nei propri occhi, quegli stessi possono decidere di scansare ciò che non vibra, non sussulta, non trasmette, in fondo, niente di bello, nonostante l'ostinazione nel voler scorgere un angolo dove le tinte fossero davvero variopinte, come l'arcobaleno.

Perché le cose che entrano nella nostra vita necessitano di cura. 
Altre, invece, di essere estirpate quando non ce ne sarà più bisogno.


L'ultima cosa che ho imparato è proprio questa: varrà sempre la pena farlo.

domenica 7 maggio 2017

Per rinascere, ancora

A volte penso alla risposta da dare se qualcuno mi chiedesse a quanti anni sia iniziata la mia vita.
Non un numero che ci leghi ad una sfera anagrafica, piuttosto a quella emotiva.
Perché si può nascere a venti, a trenta o cinquanta. 
Lo si può fare tante volte.
O per qualcuno non capita mai.

Io credo di essere nata a 19 anni.
Una sera di gennaio dopo aver fatto la doccia, mentre pettinavo i capelli, allo squillo di un telefono. Dovevano essere circa le sei del pomeriggio.
È allora che sono nata.
Mentre lui se ne andava.
Come se ad una morte, inaspettata, avessi voluto far combaciare una vita, la mia.

Quando ho staccato il cordone ombelicale non credevo sarebbe stato così difficile. 
Non in quel momento, ma tutto quello che ci sarebbe stato dopo.
Cercare di stravolgere tutto quello che era stato e creare una nuova dimensione da stigmatizzare come fosse un credo cui poter apporre un'etichetta che tante volte ha cambiato nome, ma che in fondo avesse sempre il medesimo significato: sono questa. Adesso per allora, e non posso cambiarne i connotati.
Difficile immaginare il mondo che avrei voluto creare, dentro e fuori di me, negli occhi di qualcun altro.

Da allora sono nata tante altre volte.
Quasi come se non riuscissi a farne a meno. Ma ho pensato sempre, tutte le volte, a quel momento per ricordare quello che ho promesso di fare e dare un senso.
E che ci sarà sempre modo di migliorare, ma che indietro non posso tornare.

Come se avessi imparato, col tempo, a vivere non solo per una persona sola, ma per tante, troppe, tutte dentro di me. A dar voce ad ognuna di queste e ad accondiscere a ciascuno dei loro bisogni.

Allora, per esempio, ho imparato a non voltarmi dall'altra parte, anche quando l'amor proprio lo imporrebbe come condicio sine qua non per non farsi troppo male. A non abbandonarmi alle cose sterili, e nel voler ostinatamente trovare qualcosa di intimamente profondo anche quando un giorno ti svegli e scopri di averlo immaginato, ma che in fondo non é mai esistito. A fare tanti errori, uno dietro l'altro, da cui imparare che l'umanità é imperfetta e la sfida sta nel saper perdonare. Ad essere anima, prima che corpo. A mettere il cuore al centro di tutto e a dare cento anche quando avresti a mala pena dovuto concedere venti. A capire che non si vive a puntate e a scadenze, ma tutti i giorni, in ogni tempo, perché é questo che ci é dato. Domani chi lo dice che non possa essere tardi.

Ho imparato a dare valore alle cose, ma non ancora a riconoscere quelle cui attribuire il valore che gli spetta. 
A trovare forme d'amore in ogni cosa.
A cercare di capire.

Una volta qualcuno mi ha chiesto perché tentassi di capire anche ciò che non é dato comprendere e che poi forse non avrei potuto capire comunque. Ho risposto che non lo sapevo ma che ero fatta così. 

Credo che abbia a che fare con il fatto che sia nata per la prima volta a 19 anni, e che ancora con l'ingenuità che caratterizza i bambini io ci provi comunque, nonostante tutto, come se avessi appena nove anni.

Ma come un credo che ci si sviluppa dentro, non si può pretendere da se stessi di spiegarlo, né che qualcuno lo comprenda. Dovrà possedere la sensibilità di leggercelo negli occhi, e ci dovrà accompagnare tenendoci per mano.

Ogni volta mi sorprendo ma poi lo ricordo.
Nove anni fa ho siglato un patto col sangue. 
Mai più personcina, ma persona.
Mai più solo testa, ma anche cuore.
Mai più silenzio, ma tante parole se possono aiutare.
Mai più ignorare telefoni che squillano, ma alzare, forse, la cornetta per primi.
Mai più giudicare, ma parlare per capire.
Mai più bugie, ma solo verità.
Mai più abbandonarsi a ciò che appare, ma scoprire ciò che é. 

Non so se ci sono riuscita, anzi sono certa ci sia ancora tanto da imparare.

E vorrei un mondo circostante così.
Dove si entra pagando il biglietto perché tutto ha un prezzo.
In cui si resta solo se non se ne può fare a meno.
Un mondo in cui si impara a costruire, con pazienza, cose belle. 
Ma a demolire, in egual misura, ciò che non lo é. Tutta la finzione che trasciniamo e che é destinata a restare tale: un pugno allo stomaco dato per svegliarci.


Per rinascere, ancora una volta.

venerdì 14 aprile 2017

48 ore

Tra poche ore avrò il solito volo last minute per raggiungere casa.

Quelle 48 ore in cui vorresti farti una scorta di abbracci che ti possano bastare sino al prossimo ritorno. Che poi, non basteranno mai. 
Quelle 48 ore in cui deciderai di fare cose, rinunciando inevitabilmente ad altre. Quelle cose, che anche se te le senti di fare, non basteranno comunque.
Quelle 48 ore in cui cercherai il tepore di casa, pur avendone in fondo costruito un'altra con grande sacrificio. Ma anche quella, molto spesso, non basta.
Quelle 48 ore in cui cercherai di inseguire gli sguardi, nonostante nella tua quotidianità abbia imparato a guardare altrove. Pure quello, quando ti ci fermi a pensare, non basta.

Ma quando quest'anno ho soffiato la mia 28esima candelina, ho pensato che dovessi cambiare qualcosa. Non le circostanze che ho creato, né i mattoni che con premura abbia messo l'uno sull'altro, continuando ostinatamente a farlo. Che non si può vivere, serenamente, pensando che manchi sempre qualcosa. 
Credendo, in fondo, che nulla basti.
E non perché dobbiamo imparare a bastarci. Dobbiamo imparare ad amarci, é un'altra cosa. 
Così cominceremo ad amare anche un volo last minute di soli due giorni.
L'attesa di un autobus notturno che ci conduca a destinazione.
La valigia semipiena che diventerà stracolma al tuo ritorno.
Gli sguardi che non fuggono, ma che puoi incamerare e portare con te.
Il tuo poco tempo a disposizione. Soprattutto quello.

E non perché, come qualcuno dice, le circostanze esterne non debbano influenzare lo stato d'animo. Noi siamo fatti anche tutte le persone che incontriamo e di tutto ciò che ci accade.
Andare oltre significare ottimizzare quel tempo e fartelo bastare.

Ci sarà sempre qualcosa in più che pretenderai da te stesso.
Qualcosa che vuoi ma che questo tempo non potrà offrirti.
Qualcosa di più dolce.
Qualcosa che possa appagarti di più.
Più presenze.
Più abbracci.
Più cuore.

Ma la verità é che talvolta ce l'abbiamo già, sotto forme ed intensità diverse.

Allora dovremmo pensare che non c'è più tempo per pensare a ciò che non basta.
Non dovremmo maturarne il desiderio.
Non dovremmo dargli spazio.
A lui, come a chiunque ce lo lasci pensare.


Perché in fondo, forse, anch'io vorrei bastare.

martedì 24 gennaio 2017

Aspettare di bastarsi

Ho sempre guardato all'attesa come una forma d'amore.
Forse la più importante.
Quella che non necessariamente preveda mete da raggiungere.
Distanze da colmare.
Lampade lasciate accese sul comodino.
O porte lasciate socchiuse.
Quell'attesa che non si coniugherebbe in un'aspettativa di cui l'altro ne sarebbe il custode.
Nella speranza del ritrovarsi.
Nel cuore i cui battiti accelerano man mano che il tempo sembri accorciarsi.
Non è quell'attesa lì.

Di qualcuno che aspetta di darci il buongiorno.
Che aspetti di accarezzarci prima di andare a lavoro.
Che aspetti di aprirci la porta di casa.
O che attenda di mettere la sua testa sul cuscino accanto alla nostra.
Non si tratta nemmeno di quella.

Bensì quell'attesa che consiste nel darci del tempo.
Per farci bastare quello che pensiamo sia niente ma invece è già qualcosa.
Attendere di non provare nostalgia.
Attendere, senza impegnarci in una ricerca spasmodica che ci veda schiavi di un'idea.
Perché il senso dell'attesa sta in questo bastarsi, forse. 
Che non significa rinunciare all'altro.
All'emozione.
Alle aspettative quotidiane.
All'immaginazione.
Alla creazione delle più fantasiose forme d'amore.
Significa solo che ci si attende.
Perché siamo noi i soli padroni del nostro tempo.
Gli unici, in fondo, a cui rispettarlo è dovuto.

L'ho capito quando ho creduto di poter farne a meno.
Quando, forse, ho atteso invano che qualcuno mi aprisse la porta ma io non ero ancora tornata.
Ed è allora che ho capito che ci si deve aspettare prima di aspettare che la vita ci travolga di nuovo. 
Immergersi a piccoli dosi.
Ma sempre completamente.
Così da non perdersi il gusto.

Non darsi tempo è forse l'atto più egoistico che si possa compiere, verso gli altri, ma soprattutto se stessi.
Allora il contrario diventerebbe la forma d'amore più intima.
Quella che ci farà riscoprire pian piano, senza mai rinunciare al desiderio di andare.
Perché è possibile avere la percezione che si aspetti troppo, o troppo poco.
Di avere ancora le ossa troppo fragili o già pronte per ripetere lo schianto.
Quello che conta, però, sarà sentirsi.
E non è detto sia troppo o troppo poco.
E nemmeno che ci si schianti.
Potrebbe essere il giusto.

O almeno mi piacerebbe immaginarla così.

sabato 31 dicembre 2016

Caro Paolo Fox, a noi due

Succede a tutti di guardare l'oroscopo per prepararci a dare la colpa agli astri o sperare che Paolo Fox ci sorteggi finalmente come segno dell'anno. Anche a chi aveva giurato di metterci una pietra sopra. E anche a me che, lo ammetto, dopo averne letto tanti, ho scelto di prediligere la previsione più ottimistica che dice che le ceneri si trasformeranno in diamanti. Il peggio è passato, dice Paolo.

Perché in fondo c'é sempre quest'abitudine un po' strana di considerare ogni anno che ci si prepara a salutare come quello a cui dare un calcio (o più di uno) per inaugurare un nuovo anno da cui si pretende sempre qualcosa in più. E qualche disgrazia di meno.
Ma quest'anno saluto un anno diverso.
Uno di quelli in cui le singole scelte quotidiane si sono compattate in una sola, che poi è diventata grande.
Quello che 365 giorni fa mi ha visto ragazza e oggi, forse, mi saluta da donna.
Quello che non mi ha risparmiato schiaffi in pieno volto da cui ho cercato di prendere sempre il buono: mi hanno svegliata. 
Quello delle porticine chiuse con la doppia mandata, perché passare dal retro non sarebbe stato a me destinato. Questo l'ho capito soltanto con il tempo.
Quello delle delusioni amare, che ho digerito man mano, deglutendole con tanta acqua che gradatamente me ne ha fatto dimenticare il sapore.
Quell'anno in cui ho imparato a ricucire. 
I rapporti, cosí come il mio cuore.
Prima di capire che forse certe cose devono scoppiare completamente prima di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo. Piano piano.
Quello in cui ho girovagato per le strade di una grande città carica di valigie in cerca di qualcosa, pensando tante volte che fosse finita. Ed invece era appena cominciata: tutta quella vita che avrei avuto davanti. 
Quella che mentre mi accarezzava si preparava a colpirmi di nuovo, avendo ogni volta la percezione che mi colpisse sempre più forte e sempre lì, in quel punto che forse non avevo curato abbastanza.

Ma poi, sul finire, mi sono riscoperta.
E ho capito che nelle mie 365 scelte del 2016 si è annidata una consapevolezza che avrei preparato a proteggere per tutta quell'altra vita che mi avrebbe condotta dove sono adesso.
Che nella vita si sceglie se essere acqua cheta o dinamite. È spesso una questione di predisposizione. É quel metro di misura che ti farà affrontare ogni decisione con le spalle curve ed il busto chinato in avanti oppure a testa alta. Quello che ti permetterà di scegliere se accendere ogni miccia che senti di possedere con l'auspicio di alzare gli occhi al cielo, in un giorno qualunque, e di vederne tutta la bellezza in fuochi d'artificio, oppure se continuare a navigare nelle stesse acque. Tiepide quanto tranquille.
E sarà allora che come in un processo naturale sarai costretto a lasciare andare, abbandonare, cancellare. Cosí come trattenere, restare, riscrivere tutto da capo. Qualcosa di nuovo, con qualcun altro o più di uno, una vita diversa.

Questa è sempre la giornata dei bilanci e dei buoni propositi, ma io quest'anno non ne ho e sono cosciente che domani saró la stessa persona che sono oggi. 
Li ho scritti ogni giorno, saranno forse anche più di 365.
Li ho trovati negli occhi delle persone.
Li ho buttati via.
Ne ho poi trovati altri.
Li ho buttati via di nuovo.
Li ho scoperti, in fondo al mio cuore.
Perché salutare un anno complesso è frutto di un lavoro impegnativo.
Un anno è fatto di 365 opportunità e momenti che non si contano.
Ed io credo di esserci riuscita, quest'anno, nel bene e nel male, più di tutti i precedenti. A cogliere tutte quelle che potevo. A riscrivere tutto da capo. A cancellare ciò che a me non era destinato.

Quindi caro Paolo quest'anno non ti addosserò nessuna colpa. 
La fortuna é di chi se la crea. 
L'amore é di chi ce l'ha dentro. 
Le emozioni di chi é in grado di sentirle.
Le sfide sono di chi é pronto ad abbracciarle.
La vita é un progetto. È di chi é in grado di trasformare schiaffi in carezze. Di chi non ha paura.


Caro Paolo, io sono pronta.

martedì 6 dicembre 2016

Quella porzione di mondo

Qualcuno una volta mi ha detto che il mondo è come ce lo si mette in testa.
Ed io pensavo ad una prateria di cui non si scorge il confine, al punto da poter correre senza mai sentire la fatica.
Ad un prato fiorito, così da poter ammirare gli alberi in fiore e cogliere quelli che più catturino la nostra attenzione. I più belli, i più profumati. A piene mani.
Pensavo a qualcosa che non si riducesse ad uno sterile binomio.
Bianco o nero.
Tondo o quadrato.
Dentro o fuori.
Pensavo ad un mondo in cui ogni sfumatura potesse giocare il proprio ruolo.
In cui ciascuna intrecciandosi con altre potesse contribuire a farci girare, tra l'una e l'altra.
Pensavo ad un mondo colorato.
Ad un mondo appassionato.
Ad un mondo cui guardare come si guarda un cielo stellato in attesa di una stella cometa.
Ad uno in cui si è in grado di creare.
Anche le forme d'amore più disparate.
Per tenerle per sé, come per insegnarle ad altri cui avremmo deciso di donare il nostro pezzo di mondo.

Ma qualcuno una volta mi ha anche detto che non puoi salvare chi non vuole essere salvato.
Così ho capito che per una qualche strana ragione, sebbene il mondo è forse come ce lo si mette in testa, non è detto che tutti tendano verso le medesime scelte.
Non tutti vorranno correre su di una distesa prateria.
Non tutti avranno gli occhi per ammirare alberi in fiore.
Non tutti avranno l'accortezza nello sciogliere fiori, i più belli, i più profumati, e di coglierli a piene mani per annusarne il profumo.
Non tutti cederanno all'intreccio delle sfumature.
Nè guarderanno i colori come fosse l'attesa di una stella cometa.
Non tutti vorranno imparare.
A creare forme d'amore, come a riceverle.
Non tutti saranno coscienti dell'esistenza di queste porzioni di mondo, in cui non esisteranno metodi, schemi o regole che seguiranno una logica di merito.

Esisteranno loro che avranno avuto la fortuna di incontrare qualcuno disposto a concederglielo.
E noi, con il privilegio di custodirlo. 

Ma nonostante tutto, saremo noi i più forti.
Anche quando ne usciremo a brandelli.
Anche quando ci sentiremo fragili come schegge di vetro.
Anche allora, saremo quelli forti con la sola pretesa di insegnare loro le sfaccettature di un mondo inesplorato pur non volendo nulla in cambio, ma per quella bizzarra attitudine atta a voler proiettare all'esterno tutta la bellezza di quel mondo, a cercarla o crearla anche in chi ci circonda. Perché in fondo a se stessi ci si basta.

E così avremo imparato che la vita, in fondo, è una scommessa. 
Si può vincere quando credevamo non vi fossero possibilità.
Si può perdere, anche quando credevamo di avere la mano giusta.
Ma solo se si gioca.
Che ci saranno seconde possibilità, forse.
Ma solo se si ha il fiuto di coglierle.
Chi non lo fa, perde sempre, tutto.

Così avremo capito che quell'adrenalina non è per tutti. Solo per i coraggiosi, per quelli che un giorno sperano di uscirne vincenti.

E sarà naturale scegliere chi far entrare e chi escludere da quella porzione di mondo che qualcuno, forse dall'alto, ci ha offerto come un dono prezioso che si avrà sempre il privilegio di custodire.

Insieme a lui, non si perde mai.

mercoledì 23 novembre 2016

Passo dopo passo, scalino dopo scalino

Le metropolitane hanno sempre sortito quest'effetto su di me. Come fossero un metro per misurare chi fossi diventata e dove stessi andando. 
Passo dopo passo.
Scalino dopo scalino.
Corsa dopo corsa.

Sgomitando tra la folla rumorosa per cercare di superare tutti, anche quando ci si imbatte nella coppietta di turno che tenendosi per mano ti impedisce di farlo.
Guardando l'orologio con la consueta corsa contro il tempo.
Ammettendo che arriverai tardi tutte le volte. Ad ogni appuntamento. Anche quando ti sarai svegliata con due ore d'anticipo. 
Cercando di ascoltare il rumore dei passanti. Quella voce che come un disco rotto annuncia la prossima fermata, anche se sarai sempre con lo sguardo fisso sul tabellone a contare quei due minuti come fossero due ore. 
Preferendo di non ascoltare poi più nulla, mettendoti le cuffie nelle orecchie e ascoltando musica che non sapevi nemmeno di aver scaricato.
Imprecando perchè il ragazzo di turno si è lanciato sul primo sedile disponibile sgomitando manco fosse l'ultima scialuppa di salvataggio a disposizione.
Restando in piedi, tutte le volte.
Perchè tanto, ti dici, il tempo scorre in fretta o forse avrai solo imparato ad attendere con pazienza.

Lo penso, tutte le volte.
Che in fondo la vita può essere un po' così. Nascosta tra tunnel sotterranei che ti indichino una qualunque direzione senza assumersi la responsabilità delle scelte ma pronti, alla fine, a mettere in luce che se giuste o sbagliate ti hanno permesso di arrivare sempre ad un punto. Da cui proseguire, o ripartire.

Allora forse capirai che un tempo avresti voluto superare tutti. 
E forse lo fai anche oggi, pur rallentando dietro la coppietta che si tiene per mano.
Che pur abituandoti alla tua consueta corsa contro il tempo, oggi preferisci prenderti il tuo di tempo. Per ascoltarti di più.
Che non si arriva mai tardi, perché c'è sempre tempo.
Per cambiare.
Per essere in grado di sentire.
Per perdonare.
Per ammettere gli errori.
Per ammettere che poi, in fondo, forse nemmeno lo sono stati.
Per riscoprirsi diversi.
Per rallentare.
Per ripartire.
Per rimanere in piedi.

Perchè è questo tutto quello che conta.
Quello che si riesce a dare alla vita, prima di pretendere.
Ammettere che fare passi indietro non è sintomo di debolezza, quanto la consapevolezza di cosa si vuole essere. Spesso sono invece passi in avanti.
Ricordando che, in fondo, tutto quello che conta è essere una brava persona.

Passo dopo passo.
Scalino dopo scalino.

Corsa dopo corsa.
Punto dopo punto. Per proseguire, o ripartire.
Con un cuore nuovo, perché non si ha paura.

domenica 28 agosto 2016

Sentire


Ci ho impiegato ventisette anni per capirlo.
Che non possiamo costruire ali di cartone a qualcosa che per sua natura non era destinato a decollare.
Che la paura d’innamorarsi è giá una forma d’amore, silenzioso.
Che non esistono momenti perfetti, ma ogni attimo può permetterci di raggiungere quella perfezione che, nonostante le sue sbavature, possa appartenerci.
Che la vita é troppo breve per non maturare il coraggio di tuffarvisi dentro, sino forse a rischiare di annegare. Ma avremo vissuto soltanto quando avremo imparato a lasciare le cose a noi non destinate. Ed anche a restare. Quando qualcosa ci fa sentire che potrebbe essere una cosa bella. Quando la sentiamo. Solo in quel caso.
Che la complicità é anch’essa una forma d’amore, eppure la più sottovalutata.
È un brivido. Un pugno allo stomaco. Succede e basta. Nessuno può evitarlo.
Non te lo puoi far venire nel tempo. Non puoi fartelo dare di proposito. E nemmeno affaticarti per porne le basi.
Che se avesse un suono sarebbe una risata fragorosa, di quelle che ricordi perchè intanto ti ci guardi negli occhi e capisci, prima di ogni cosa, che tu esisti, sei vivo, ci sei.
Ma che potrebbe averne anche un altro, che sentiremo a fatica o che avremo paura di sentire. Tipo tac. Sí proprio quello. Tac.
Che non si può evitare qualcosa che in noi si sia già insinuato.
Che quando un giorno, per caso, avrai imparato a scegliere, attorno a te tutti ti sembreranno immobili. Incapaci. Inutili. E tu non vorrai nè potrai impartire lezioni su come si faccia, perché lo saprai già: che non si può salvare chi non vuole essere salvato.
Cosí, a fatica, ti sforzerai di imparare un’altra cosa: cancellare, tutto quanto, nonostante dentro di te i giardini appaiano già in fiore.

Ma se c’è una cosa che mi sono sempre chiesta non riuscendo a venirne mai a capo è se tutti abbiano la stessa capacità di sentire.
Perchè ho sempre fatto lo stesso errore, io.
Pensare che tutti fossero in grado di sentire nello stesso modo.
Pensarlo, forse, anche soltanto perchè lo stessi facendo io.
Ma forse ho scoperto che anche quando te lo fanno credere, in realtà non lo stiano facendo.
Pensano di farlo, non ammettendo a se stessi che quello non è sentire, ma il bisogno di farsi accettare, per quello che non si è.

Cosí come quando penso alle forme infinite di comunicazione e quella che ognuno di noi pensa di scegliere, quando forse è invece lei a scegliere noi, quando hai bisogno di esprimere quello che senti.

Ed è forse per questo che abbia scelto di scrivere.
O forse è stata lei a scegliere me.
Come tutte le cose che devono appartenerci di diritto e farà di tutto per imporsi nella nostra vita, anche quando tenteremo di scacciarle via.
Come tutte le cose che potrebbero apparire pericolose, solo per la loro tendenza a distruggere piani precostituiti, rompere reti, aprire cancelli che avevamo chiuso con la doppia mandata.
Poi un giorno, per caso, capisci il motivo perchè tu e lei vi siate scelte.
Perchè gli ho sempre dato troppo valore.
A quelle parole che non riesco mai a dire.
A quelle che nascondo dietro altre.
Perchè forse mi sono sempre fatta bastare quello che sentivo.
Pensando lo potessimo fare tutti nello stesso modo.
Perchè ho sempre attribuito un significato ad ogni dettaglio.
Pensando che lo vedessero anche gli altri.
Lasciandomele bruciare dentro.

Poi ho immaginato che se ci si tiene sempre tutto dentro è come se non avessi niente.
E non per il bisogno di dimostrare ad altri quello che si è.
Ma perchè, forse, potrebbe farci sentire meglio.

Ed io voglio imparare un’altra cosa.
A non avere paura della felicità.
A non temere quando sento troppo.

Perchè comunque andrà a finire, me lo ricorderò per sempre: sono viva.

E se altri non riescono a sentirlo, devo ricordarmi anche questo: se lo sono è perchè ho scelto di esserlo. Fino in fondo.

domenica 21 agosto 2016

Dalla A alla Zeta

Pensavo che andare al supermercato da sola e mettere in tavola monoporzioni mi avrebbe fatto male.
Credevo che l'entusiasmo di imparare a cucinare qualcosa che andasse al di là di un piatto di pasta sarebbe gradualmente svanito.
Cosí come osservarmi dall'esterno tra le pareti bianche di una stanza a cui avrei dovuto regalare ancora una volta il mio profumo, i miei colori, in parte anche il mio nome.
E cosí come riempire gli spazi vuoti e silenziosi di musica, film, tanti libri.
Poi mi sono accorta che avevo fatto già tutto.
Sin dal momento in cui avevo deciso di muovere il mio primo passo.

Allora ho pensato a tutte quelle volte in cui mi convincevo dell'idea che se ci piace A non possiamo desiderare anche Zeta.
A tutte quelle volte in cui mi convincevo che A dovesse essere la mia vita per sempre.
E a tutte quelle in cui mi dicevo che Zeta sarebbe stato soltanto un desiderio inconscio che non sarebbe mai esploso, altrimenti avrebbe rovinato tutti i miei piani.

Poi ho realizzato che se la vita decide di prendere pieghe inaspettate sia un buon segno, perché significa che ti stai muovendo.
Che cucinare da sola non è poi così male, così come ripartire da pareti bianche su cui dipingere il tuo nome ancora una volta e riempire la solitudine di musica, film e tanta lettura.
Non immaginavo di stare bene, e forse addirittura felice.

Mi sono ricordata che tanto tempo fa avevo scelto A.
Ma non perché disdegnassi Zeta.
Credevo che A potesse sopperire a tutte le mie mancanze.
Immaginavo fosse la scelta giusta perché forse tutte le altre si erano sempre rivelate malsane.

Ma col tempo ho appurato che può accadere: di desiderare due cose diametricalmente opposte.
Di desiderare Zeta, pur restando in A.
Di convincerti che è con A che devi stare, pur immaginando che raggiungendo Zeta tu possa conoscere un'altra parte di te, quella a cui molto spesso non attribuiamo pari dignità soltanto per il suo essere qualcosa di inconscio. Ma esiste, é reale, é ciò che ci rende autentici.
La sfida sta nel cacciarlo fuori. Rischiare di essere felici, di avvicinarci a quell'essere donna o uomo cui abbiamo sempre immaginato di tendere.

C'é stato un momento in cui ho avvertito tutto il peso di quelle scelte fatte soltanto perchè sembravano giuste. Quel momento in cui ho assunto consapevolezza che avrei forse perso l'occasione di compiere scelte che non si collocavano in alcuna logica di giustizia, ma le avrei sentite, rumoreggiare nel mio stomaco come schegge impazzite.

Così ho capito che esiste anche un'altra opzione.
Che sia necessario trovarsi in A per accorgersi un giorno, per caso, di volersi invece tuffare in Zeta.
Che la vita ci pone dinanzi al confronto ripetutamente per lasciare a noi la facoltà di scegliere da che parte tendere, pur indicandoci quale sia la strada più appropriata, facendocela sentire già nostra.
Ma non ci regala consapevolezze, né il coraggio di scegliere.
Scoprire chi siamo spetta a noi, in cui maturare la facoltà di sentire il nostro battito cardiaco riveste un ruolo fondamentale.

Ho capito di desiderare Zeta da sempre.
E potevo scoprirlo soltanto vivendomi A, sino ad ossidarmi.
Sono questi i miracoli della vita.
Essere in grado di ascoltarla, anche quando tutto intorno a te appaia muto.






domenica 14 agosto 2016

Come un pugno allo stomaco

Tutte le volte qualcuno mi ricorda quanto sia forte.
Ed io tutte le volte rido.
Perchè vorrei raccontargli una storia diversa. Ma forse come è vero che non puoi salvare chi non vuole essere salvato, è vero anche che non puoi regalare occhi diversi a chi ha deciso di essere cieco.
Cosí penso, tra me e me, che l'essere forte è un impegno che prevede, tra le tante, un' imprescindibile condizione: consapevolezza.

Delle proprie priorità.
Di quello che si è.
Di quello a cui non si é disposti a rinunciare perchè ci rende felici, o semplicemente migliori.
Di quello che desideriamo dalla nostra vita.
Di chi ci vogliamo circondare.
La consapevolezza che le cose belle ad un certo punto scompariranno ed allora converrà munirci di occhi belli, prima che sia tardi.
Solo se si vuole una vita bella però.

Cosí quando mi dicono che sono forte vorrei raccontargli di quando non lo ero.
Di quando ogni mattina mi alzo e sorseggiando il mio caffè bollente mi accorgo di non esserlo poi abbastanza.
Ma essere forte implica forse anche questo.
È come un viaggio con noi stessi in cui sperimenteremo l'intera tavolozza di colori in cui ci tufferemo con la stessa intensità.
Ce ne sporcheremo le mani, il viso, l'intero corpo, senza timore di mostrarci in pubblico.
Le persone forti lo sanno: che le emozioni, di qualsiasi natura siano, si esprimono attraverso il linguaggio del corpo ed è necessario buttarle fuori, cosí gli si attribuirà dignità.

Allora vorrei raccontare di quando il non essere forte abbastanza mi ha fatto perdere un amico per sempre.
Quando il non essere forte abbastanza mi ha fatto perdere in idealizzazioni consumate dall'idea di quanto riuscissi ad essere imprecisa nelle mie blande constatazioni in cui ci mettevo soltanto il cuore e mai la testa.
Quando il non essere forte abbastanza mi ha fatto perdere in calcoli approssimativi di cui sin dal principio immaginavo il risultato, ma ci volevo provare comunque.
Quando il non esserlo mi impediva di lasciare ciò che sentivo a me non destinato.
Ed anche quando il non esserlo mi ha fatto precipitare in labirinti che la mia mente aveva deciso di creare solo perchè avevo deciso di restare, anche quando l'altro aveva deciso di abbandonare già il campo.
E poi quando il non esserlo mi ha fatto credere che quel pugno allo stomaco di cui parlano tutti fosse un miracolo destinato a pochi, ed io probabilmente non ero destinata ad essere parte della cerchia.
Quando il non essere forte abbastanza mi ha dato l'illusione di poter trascinare situazioni in cui non riconoscevo nemmeno più chi fossi. Quando ho creduto di potercela fare, nonostante non fossi più in grado di sentire il mio battito cardiaco.
Quando ho creduto che questo mi potesse rendere forte ed invece ho realizzato di non aver mai scelto.

Talvolta ho pensato di collezionare fallimenti.
Ma poi ho scoperto di non poterli chiamare cosí.
È un privilegio. Un dono. Quasi un miracolo.
Il fatto che abbia deciso di pormi al centro tra il dire ed il fare ed applicare le mie consapevolezze nel quotidiano.
E non falliamo mai, anzi cresciamo.
E la crescita è sinonimo di vita.
Quella vera. Piena. Appassionata. Innamorata. Sorridente. Quella che sancisce una linea di demarcazione tra superficialità e leggerezza.

La prima sa bene che non conosci a fondo te stesso. O gioca sul fatto che continuerai inerme a non farti domande, per timore di conoscerne le risposte. Allora andrai avanti, per inerzia, collezionando momenti in cui sarai cieco, sordo e muto. Non per scelta, ma per tacita sottomissione. Non sentirai niente. Lascerai scorrere i dettagli su cui avresti potuto soffermarti se solo avessi scelto invece di sentire. Proprio quel pugno allo stomaco. Quel pugno lì.

La leggerezza è invece un percorso incidentato, dove quello che senti non lo scegli tu ma il tuo destino, che accompagnerai per mano in una danza che non credevi potesse essere cosí ritmata, vivace, viva, bella. Non ti farai domande perchè sarai troppo impegnato a vivere quelle risposte in cui ti sarai tuffato, e non per pura follia, ma perchè sarai stanco di vivere una vita che non ti appartiene, che hai il dovere di portare a termine seguendone le tappe con metodica precisione.
Capirai che la vita è un pugno allo stomaco.
Un brivido.
Certe cose succedono e basta.
Che puoi evitare qualsiasi cosa.
Poi verrà a prenderti.
Dunque tanto vale abbandonarsi.
A quei dettagli che meriteranno occhi profondi, orecchie in grado di sentire, bocche che riusciranno a trasmettere qualcosa anche quando resteranno chiuse.

Ed è cosí che ho scelto.
Di essere forte, come le radici di una quercia.
Ma anche debole, come le schegge di un cristallo.
Di essere leggera, come un soffio di vento.
Perchè la vita è una e dobbiamo vivere la nostra.
La vita è bella solo se fatta di cose belle che non scanseremo per il becero timore di deviare traiettorie già consumate.
Ed è questo tutto quello che alla mia età mi basta sapere.
Che ci sarà sempre qualcuno o qualcosa che ci farà riscoprire migliori di quello che credevamo.
E saranno le sole per cui varrà la pena tentare.

Ecco. Questa è la vita secondo me.